BOOKCITY Milano contraddice la pluridecennale leggenda di disimpegno culturale della città: una formula moderna di coinvolgimento delle istituzioni e degli editori porta la bella sorpresa di un successo di massa nel contatto diretto con il lettore e con chi potrebbe diventarlo.
Al debutto, nel 2012, rischiava di apparire come un Festivaletteratura di Mantova ipertrofico: coinvolgere il grande pubblico organizzando contemporaneamente in tutta la città centinaia di occasioni di attenzione per i libri. Una tipica appropriazione alla milanese di una formula di successo collaudata altrove, su scala maggiore e con l’intervento diretto di promotori di primo livello.
Insomma: buona idea, lo facciamo anche noi e lo facciamo in grande, perché siamo una grande amministrazione comunale, tre fondazioni che fanno capo ai maggiori gruppi editoriali italiani (Rcs e Mondadori) e a un editore che gestisce una grande catena di librerie (Feltrinelli), l’associazione confindustriale degli editori di libri (Aie) e la Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri, più la potente Camera di commercio meneghina. Cioè perché siamo milanesi.
Il tutto sulla base di due precedenti storici che – alla Milano della cultura e delle sue professioni, capitale nel bene e nel male dell’editoria libraria italiana – bruciavano non poco e non da poco tempo: il primo era l’antica ferita, mai rimarginata, dell’istituzione del Salone del Libro a Torino (città storicamente molto più pronta di Milano, nell’alleanza di istituzioni pubbliche e private, a cogliere occasioni feconde per il gemellaggio di economia e cultura); il secondo precedente, più generale, era il lutto per la decadenza della cultura milanese, largamente condiviso e proclamato, ma sostanzialmente privo di presa sulla città contemporanea, dove la modernità, saldamente in mano alla cultura d’impresa e non alle imprese della cultura, era guardata da alcune di queste ultime con qualche sospetto.
In realtà un filone nuovo c’era, sotterraneo ma vivo da almeno un decennio: una formula tipica del mondo della comunicazione d’impresa, quella degli eventi promozionali multipli. Le agenzie di comunicazione avevano adattato ai nostri anni la formula delle antiche «fiere campionarie», padiglioni delle meraviglie dove il pubblico trovava di tutto e sceglieva che cosa guardare sulla base di interessi diversi e individuali. Non serviva più alle fiere commerciali in via di specializzazione, ma poteva ancora essere utilmente applicata a manifestazioni di scala più piccola, dove l’obiettivo principale di attirare il pubblico a interessarsi dei prodotti poteva giovarsi della varietà.
Non più presentazioni mirate a un singolo prodotto, ma manifestazioni in qualche modo simili a un circo a tre piste: chi vuole guarda gli acrobati, ma nell’arena accanto ci sono i leoni, nella terza i clown. Si può scegliere. Si partecipa più volentieri perché in gioco non c’è questo o quel prodotto, ma uno stile di vita che si esprime in prodotti anche molto diversi, dall’automobile al mobile. I gusti personali trovano più facilmente soddisfazione: assistiamo a spettacoli diversi, ma entriamo tutti sotto lo stesso tendone.
Forse l’intuizione chiave è proprio qui: il gusto personale è sempre stato il fulcro della lettura (e quindi del commercio dei libri), la croce degli editor alle prese con le economie di scala, costretti a concepire i loro programmi editoriali scommettendo su ipotetici «stili di lettura».
Forse è per questo che da decenni le campagne di comunicazione ministeriali sulla diffusione del libro sono (a volte) interessanti per le idee spese dai pubblicitari, ma sostanzialmente irrilevanti per l’incremento della lettura: uno spot televisivo che proclama la bellezza di leggere è come una Miss Italia che si dichiara a favore della pace nel mondo: incongruo. In realtà non leggiamo libri, ma «certi» libri; l’attività di leggere è sostanzialmente trasparente, ciò che interessa al lettore è il contenuto. Gli interessano gli acrobati, oppure i leoni, oppure i clown. Come metterli insieme è affare del direttore del circo, cioè – nel caso specifico – dell’editore.
Dalla comunicazione tout court alla comunicazione editoriale: quale terreno più modernamente milanese di questo? Ma il punto era riuscire ad applicare questa formula al mondo della cultura, reindirizzandone gli aspetti in modo non direttamente promozionale e facendone una questione di idee e non solo di prodotti.
In un clima sempre più favorevole alla fruizione multipla dei contenuti (Internet vive di questo e il pubblico è sempre meno sconcertato dalla molteplicità dell’offerta) si sono dati anche a Milano alcuni esempi tempestivi di questa pragmatica «democrazia culturale». Tra questi, non a caso due mostre ospitate da un’antica istituzione milanese rinata relativamente da poco: la Triennale di Milano.
Merita di essere ricordato, per inciso, che a innescare e sviluppare la rinascita di questa istituzione sono stati due personaggi – molto diversi tra loro ma nati entrambi nella cultura d’impresa – giunti in tempi diversi alla presidenza dell’ente: Augusto Morello, già dirigente della Olivetti e della Rinascente, e – più di recente e più a lungo – Davide Rampello, già uomo della televisione privata.
In questo clima di ricostruzione la Triennale ha ospitato nello scorso decennio due mostre che hanno probabilmente rappresentato il collaudo di una nuova formula di «democrazia espositiva», entrambe a cura di Gianni Canova e all’insegna della pluralità: Le città invisibili (nel trentennale della pubblicazione del libro di Calvino; 5 novembre 2002 – 9 marzo 2003 [bit.ly/lf9TAbC]) e Anni settanta. Il decennio lungo del secolo breve (27 ottobre 2007 – 30 marzo 2008 [bit.ly/18kmgsQ]).
Entrambe sperimentano un modello che accosta liberamente interpretazioni diverse di un unico tema: la prima affida a lettori privilegiati la libera interpretazione di alcuni temi calviniani; la seconda, molto più spiazzante, cerca di dar conto dei numerosi volti di un momento storico con una struttura espositiva modulare, fisicamente affine a quella degli stand delle fiere commerciali e a percorso libero. Il visitatore è responsabile della propria visita e della propria fruizione.
Nel 2012, BOOKCITY Milano [bit.ly/19w3EmN] ha fatto felicemente uscire questa formula dal museo, invadendo la città: 350 appuntamenti in tre giorni di fine settimana, presentazioni, dibattiti, tavole rotonde, laboratori aperti al pubblico su temi generali ma anche specialistici e perfino strettamente professionali. Il tutto in due poli di prestigio del centro cittadino (Castello Sforzesco, Palazzo Reale) ma soprattutto in biblioteche, teatri, musei, sedi di fondazioni private e di onlus, bar, pasticcerie, stazioni della metropolitana. E nelle librerie grandi e piccole, sempre più bisognose di occasioni «eventi», nella koinè della comunicazione milanese, per attirare il pubblico.
BOOKCITY Milano ha sfondato le barriere milanesi della diffidenza reciproca tra gli addetti ai lavori: «La stessa concentrazione degli editori a Milano» dice Maria Canella, coordinatrice della manifestazione, tra i primi a promuoverne l’idea e a lavorare per realizzarla, «in passato può essere stata una complicazione, ma le fondazioni che promuovono BOOKCITY Milano si sono trovate d’accordo nel concepire una manifestazione che non si sovrapponesse in alcun modo ad altre già ben radicate».
Ovvero: la domanda c’è, nel mondo dei lettori di oggi, e come sempre occorre interpretarla per rispondere efficacemente. Certo è necessario uno sforzo notevole: alla base di tutto c’è la mobilitazione del mondo professionale (editori e autori) e di duecento volontari, in assenza di contributi finanziari pubblici, con un calendario operativo che, nel 2012, era iniziato solo in luglio per arrivare allo scopo a metà novembre.
Il programma 2013 (bookcitymilano.it) ha visto una crescita numerica impressionante (13 Ornila presenze contro le 80mila del 2012, 1200 ospiti, 650 eventi), con il collegamento dei luoghi cittadini in itinerari tematici coerenti, ma anche con fondamentali arricchimenti, visto che alle tre giornate di svolgimento ufficiale se ne è affiancata una quarta: editori e autori sono infatti andati nelle scuole, primarie e secondarie, dove 950 classi (per 2Ornila partecipanti) hanno aderito all’invito a lavorare concretamente agli incontri, scegliendo titoli e temi (dell’operazione si è occupata in particolare la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori). I frutti delle quattro giornate di BOOKCITY Milano maturano prima e durano di più: Milano non crede più all’effimero…
E guarda avanti anche un evento decisamente controcorrente, in una Milano dei giornali in cui le testate di settore chiudono a decine: è nata in occasione di BOOKCITY Milano 2013 anche una rivista semestrale («PreText») che promette di parlare di storia dell’editoria (il che è già una notizia) ma anche del presente e del futuro della carta stampata e dell’editoria digitale.
Poche le voci dissonanti: hanno circolato nei blog e su Twitter proteste per un festival fatto dai grandi editori che trascurava i piccoli (i quali peraltro erano presenti in abbondanza); qualcuno non crede ai numeri ufficiali [bit.ly/lcUzb4W] perché ha assistito ad appuntamenti con poche decine di persone. Ma la caratteristica forte della manifestazione è stata proprio questa: usare le corazzate dell’editoria per dare occasioni di visibilità (ciascuno secondo le proprie forze) a chi non riuscirebbe comunque a procurarsele da solo.
Il vero fatto inedito è che la crisi generale ha indotto a una collaborazione tra editori, grandi e piccoli, storicamente rara, grazie alla quale l’editoria libraria milanese è diventata, di colpo (come accade nella società della comunicazione), un modello: all’indomani della manifestazione, in una riunione dei rappresentanti della cultura milanese del design e della moda, promossa dal Comune per lavorare al calendario degli «eventi» cittadini in vista del fatidico 2015, BOOKCITY veniva già citata come un esempio virtuoso del «fare sistema» (invocato fino alla banalizzazione del termine, ma mai praticato).
Dal punto di vista della cultura d’impresa dell’editoria, vale il consolidamento – in un ambiente non certo favorevole come quello di una città piena di grandi contraddizioni – dell’efficienza di una rete di collaborazioni professionali di dimensioni mai in precedenza collaudate. Il mosaico delle manifestazioni (il «circo a trecento piste») si rivela non solo una modalità di fruizione efficace, ma una dimensione culturale fondamentale nel presente e dotata di un promettente futuro. Non a caso la struttura organizzativa di BOOKCITY Milano fa capo a TrivioQuadrivio [bit.ly/161 lefK], società di consulenza strategica che è certificate partner (cioè «collaboratore patentato») di Lego Serious Play [bit.ly/lgRkNvc], una metodologia destinata a favorire le corrette scelte strategiche delle aziende che ha scelto come metafora della propria identità (con ironia, ma non tanto) il celebre gioco in cui, accostando microscopici moduli, si ottengono costruzioni monumentali.
URL esplicite in caso di versione per il web:
http://www.triennale.it/it/mostre/passate/297-le-citta-invisibili http://www.triennale.it/it/mostre/passate/220-annisettanta-il-decennio-lungo-del-secolo-breve http://www.bookcitymilano.eu/che-cosa-e-bookcity-milano/ http://www.bookcitymilano.it
http://alternativanomade.wordpress.com/2013/ll/25/bookcity-milano-aria-di-minculpop/
http://www.triq.it/home/?p=l 15
http://www.triq.it/lspunit/file/01.htm