Un bel dì vedremo. Considerazioni sulla rete e sul romanzo

La scrittura in rete non ha ucciso il romanzo: semmai vi si contrappone. Dove il romanzo produce modelli psicologici e sociali, la rete archivia, conserva e disperde i contenuti acquisiti, si dà come mera trascrizione del reale. D’altronde, un mondo basato sul principio dell’infinita connessione non ha bisogno di derive (melo) drammatiche.
 
Nel saggio L’immaginazione melodrammatica Peter Brooks pone al centro della dinamica romanzesca la polarizzazione morale e l’eccesso caratteristici di quello che, almeno in letteratura, suona peggiorativamente come melodramma. In realtà, dice Brooks, «come l’oratoria rivoluzionaria, il melodramma si preoccupa fin dai suoi inizi di individuare, esprimere e imporre verità etiche e psichiche fondamentali: le ripete continuamente con la massima chiarezza, ne inscena i conflitti e gli scontri, presentando e ripresentando la minaccia del male e la glorificazione finale della moralità. Le sue implicazioni sociali possono essere, a seconda dei casi, rivoluzionarie o conservatrici; ma il linguaggio è sempre radicalmente democratico, e si sforza di rendere le sue immagini chiare e comprensibili a chiunque. Non è arbitrario sostenere che il melodramma diviene lo strumento privilegiato per la scoperta e la traduzione in termini operativi di un mondo etico fondamentale in un’epoca ormai lontana dal sacro».
La rete è il regno dell’infinito giocattolo. Nello spazio immenso che essa copre non esistono – o quanto meno non esistono ancora – le condizioni di quello che chiamiamo romanzo: l’apparente contemporaneità «democratica» dell’informazione e della stessa immaginazione liofilizzata in informazione frammenta e moltiplica ma non consente forme di polarizzazione. Non può farlo, diciamo così, per definizione. Lo spazio della «rete» è uno spazio pigliatutto che organizza per accumulo, magari anche per accumulo intelligente, ma non contiene in sé una grammatica (vecchia, nuova non importa) della narrazione.
Non a caso chi lavora nel settore parla di tutto ciò che riempie la rete come di contents, tradotto in italiano con l’ambiguo e pericoloso «contenuti».
Va da sé che sto semplificando parecchio, ma solo per arrivare presto a una riflessione che molto mi preme, e dovrebbe premere a chiunque stia, correttamente, cercando di visualizzare futuri (al plurale, inevitabilmente) possibili nell’area della cultura letteraria.
La rete non ha ucciso il romanzo – diciamolo subito. Anche perché la rete non uccide nulla, semmai disperde. La sua caratteristica più evidente è quella di conservare, archiviare e movimentare i contenuti archiviati.
Lo stesso modello Facebook si fonda sul principio che ogni «notizia» portata nella comunità virtuale lavora al di fuori della catena logica della narrazione percorrendo piuttosto la sequenza allineatola di fatti, o di immagini che alludono a fatti, o, ancora, a immagini che suggeriscono interpretazioni di sentimenti.
La logica tweet è ancor più drasticamente informativa e opinionistica.
La forma che più sembrerebbe colloquiare con la tradizione, diciamo con la tradizione del diario, vale a dire il web-log, meglio noto come blog, è anch’essa forma avvitata nel presente: quale che sia il tema o i temi, la logica della scrittura mette in gioco la catena dei giorni, costruisce scene che esigono familiarizzazione, empatia, misurazione del setting e con divisione di esso. Quando chi lo conduce ha una forte personalità mima la costruzione di un mondo, e soprattutto finisce per guadagnarsi una autorevolezza di visione che ricade ancora una volta sotto il segno dell’adesione (uno per tutti: il blog di Beppe Grillo; vera e propria tribuna, ma soprattutto macchina retorica orientata al consolidamento del «personaggio»).
Riepilogando: la frammentazione, la velocità, l’informazione, la domanda di adesione, l’invito alla partecipazione (non è un caso che i social siano tali proprio in ragione dell’effetto di condivisione che devono produrre; devono, altrimenti non esistono).
Fin qui tutto bene.
Il rapporto tra fuori e dentro la rete è complesso (nel senso che più che spesso tutto il gioco resta decisamente un fenomeno «di rete» e la socialità è mera socialità di rete), ma si è potuto misurare come la contaminazione del messaggio politico da una parte e la viralizzazione di quello commerciale dall’altra producono effetti sempre più importanti. Allo stesso modo funziona – o ci si dispone acciocché funzioni – il messaggio culturale (mostre, incontri, dibattiti ecc.).
Nella rete «abitano» gruppi il cui essere gruppo dipende dal sito in cui scrivono, commentano, parlano del mondo «fuori dalla rete».
Si diceva prima di gioco complesso tra fuori e dentro, giacché non è sempre chiaro, anzi non è chiaro affatto che cosa deve restare dentro e cosa no, e se tutto deve entrare, o se tutto deve uscire.
La grande novità della rete, a ogni suo livello, è che esercita un potere che per ora ha conquistato con certezza soltanto il tempo degli utenti. Quale altro effetto profondo abbia prodotto su di essi non è ancora dato di dire, se non azzardando visioni troppo impressionistiche.
A me pare che, per citare il Foucault della Volontà di sapere, stiamo conoscendo una nuova declinazione del nostro essere già «bestie da confessione». Foucault poteva sintetizzare una vicenda che l’Occidente aveva maturato in secoli: «Da un piacere di raccontare e di ascoltare, che era centrato sul racconto eroico o meraviglioso delle “prove” di bravura o di santità, si è passati ad una letteratura finalizzata al compito infinito di far sorgere dal fondo di se stessi, fra le parole, una verità che la forma stessa della confessione fa intravedere come inaccessibile». Una vicenda che contemplava un «esame di se stessi che consegna, attraverso tante impressioni fuggite, le certezze fondamentali della coscienza». La confessione «di rete» è la traduzione dematerializzata di quello stesso processo che – attenzione – è «compito infinito» e procede per «tante impressioni fuggitive».
Come si vede, sia attraverso Brooks sia attraverso Foucault il tema è la «narrazione», una letteratura.
E tuttavia non c’è spazio per «polarizzazioni».
Di per sé la rete è mera tecnologia. Utile e indifferente. E tuttavia dotata di una intelligenza che ha consentito di pensarla «rivoluzionaria» o quanto meno «democratica». Fino a qui niente di particolarmente nuovo. Più interessante è cercare di misurare quanto le forme che acquisiscono «contenuti» siano effettivamente in grado di andare oltre l’archiviazione o l’imitazione e di farne nascere di nuovi, con una fisionomia che muova da quelle forme e di quelle forme senta l’influenza.
L’e-book è tuttora, e perciò evito di entrare in questa area di analisi, una declinazione non cartacea di scritture nate (e che continuano a nascere) per l’editoria «di carta».
La stessa serialità – che è uno degli esiti più interessanti della scrittura «per la rete» – non acquisisce modi suoi propri.
Dice Hayden White nel suo Storia e narrazione’. «Ben lungi dall’essere uno dei tanti codici che una cultura può utilizzare per dotare l’esperienza di significato, la narrativa è un meta-codice, un universale umano sulla cui base si possono trasmettere messaggi transculturali sulla natura di una realtà condivisa». L’assenza o il rifiuto di una organizzazione narrativa del discorso mette a repentaglio la percezione del significato. Anche perché: «La narrativa – dice ancora White – diviene un problema solamente quando si desidera dare agli eventi reali la forma di una storia. È proprio perché gli eventi reali non si presentano come storie che la loro narrativizzazione risulta così difficile».
Ecco. Da una parte il romanzo – e il melodramma che sostenta il romanzo – ha bisogno di polarizzare per produrre modelli psicologici e sociali, dall’altra una vera narrazione non vuole mai essere la riproduzione di un accadere storico: in entrambi i casi siamo tuttavia alla costruzione di una logica sequenza di eventi, che è tale anche quando il materiale è fantastico.
Nella rete e nelle forme che la rete produce per veicolare contenuti, non si dà polarizzazione e d’altro canto quelle che vi appaiono come storie chiedono di essere intese sempre come effettiva trascrizione del reale.
La verità morale e la verità narrativa cedono il campo a una verità relativa che minaccia un proprio potere rappresentativo in quanto somma di tante verità relative.
Il luogo comune del diritto di dire quel che si sente o si crede è il vero motore delle «storie» che fanno della rete un luogo molto abitato, e forse il luogo per eccellenza del nuovo secolo.
È un luogo in cui bisogna «stare», perduto all’ansia tardo illuministica di «capire».
E tuttavia quella polarizzazione impraticabile mi sollecita a continuare.
Dice Peter Brooks: «Quando il rivoluzionario Saint-Just esclama: “Il governo repubblicano si basa sul principio della virtù; o altrimenti del terrore”, i termini sono quelli mistici e manichei del melodramma, fra i quali non esiste mediazione possibile, nel quadro di una situazione rivoluzionaria in cui il mondo è chiamato a gettare le basi di una società nuova, istituendo per legge il regno della virtù».
Il romanzo e il melodramma nascono con la rivoluzione francese e intorno all’elastico teso di quegli estremi: virtù o terrore. Norma, Violetta, Manon devono morire perché la loro condotta scardina il tracciato della virtù (così come è intesa dalla società a cui appartengono). La loro sorte può (deve) commuoverci proprio perché rinunciamo a loro, e con loro all’opzione che è stata messa al bando.
E così sono risolutive le pistole di Albert nel suicidio di Werther nell’opera di Goethe, così suona «giusta» la povertà implacabile di Balthazar nella Ricerca dell’assoluto di Balzac, e sono drammaticamente conseguenti (nella loro specularità) la morte di Anna Karenina e la serena vita in campagna di Konstantin Dmitric Levin nel capolavoro di Tolstoj.
Il melodramma musicale e il romanzo chiedono il tempo della narrazione, chiedono che una logica sequenza di fatti si dispieghi dalla realtà verso l’immaginazione.
Non solo: i fatti muovono tutti verso snodi emotivi che va da sé il melodramma musicale rende più evidenti, ma sono nondimeno tessuto connettivo di ogni narrazione.
L’effetto patetico di molto teatro musicale è in verità legato alla rivelazione del conflitto.
Esempio: Butterfly. L’aria Un bel dì vedremo. Cio-Cio-San intravede e disegna un futuro felice proprio quando di futuro non ce n’è più e lo promette con veemenza, quasi con aggressività, alla serva Suzuki. L’effetto del patetico dipende esattamente dalla certezza di sapere irrealizzabile (da parte di Suzuki e del pubblico) quello che con infiammata irruenza sentimentale viene evocato da Cio-Cio-San nel suo «vedere» lontano. La felicità anticipata e sconfessata dai fatti è nodo melodrammatico per eccellenza, è parte di una precisa costruzione drammaturgica che la partitura metabolizza e porta a evidenza.
Non so come ma proprio a partire da questo esempio mi è venuto automatico pensare, per negazione, alla struttura antiromanzesca e antinarrativa della rete.
Che bisogno ha un mondo che si pone come promessa di infinita connessione di una deriva drammatica? Non ci sono sviluppi creativi della rete che possano contemplare lo scacco romanzesco.
Dove la rete incuba racconti lo fa imitando l’esperienza editoriale più tradizionale e non a caso tende a creare esperienze che pretendono esiti destinati all’editoria tradizionale.
A commento del volume La notte dei blogger, Loredana Lipperini, che è fra le più intelligenti presenze della rete «letteraria», ed è responsabile dell’operazione spiega: «Non c’è, né doveva esserci uno stile unificante. Spicca, nei diciotto blogger scrittori o disegnatori di questa antologia, un ventaglio di scelte amplissimo che va dal racconto di genere alla scrittura visionaria, dalla cronaca reinventata all’apparente neominimalismo, dalla stralunata quotidianità alla narrazione dell’impossibile. Non esiste un passo comune, così come non esiste una “generazione blog”; l’età degli autori varia dai sedici ai trentasei, come avveniva nelle radio libere, o in qualsiasi altro mezzo che si sia affacciato, imponendosi rabbiosamente, nel nostro recente passato. In comune, però, ci sono una forza e una coscienza che fanno pensare non a un gruppo chiuso, ma ad affini che si incontrano e si riconoscono come tali». Non credo fosse il suo vero obiettivo ma Lipperini dice dei blogger che sono individui che utilizzano la rete e la scrittura per sollecitare affinità, per essere «social». Per il resto la sequenza di negazioni (non passo comune, non generazione, non stile unificante) contrapposta alla variegata sperimentazione di genere spoglia ulteriormente di una originale relazione scrittura-rete la fisionomia di quella che è, non a caso, una «antologia di racconti», un volume collettaneo senza traccia di collettività.
Il mondo è molto più cambiato di quanti, fuori o dentro l’editoria, tentano di capire. Le premesse, ampiamente visibili, di questo cambiamento sono state asciugate dall’accelerazione di una trasformazione che non è semplicemente «crisi» ma drastico assestamento. Ed è cambiato là dove il tempo s’apre a delta in ramificazioni sempre più fitte. Si tratta di un tempo affetto da una singolare forma di smemoratezza: assiste all’elaborazione di poteri (e quindi tollera costrizioni) ma non riconosce il rigore delle forme dei linguaggi. La scrittura «di rete» è infatti per lo più approssimativa, sciolta, non finita. Deve dire presto, e male, l’urgenza dell’accadere. Si contenta dell’urgenza, e attende altro accadere. Ne consegue, molto probabilmente, una forma interessante di giornalismo deprofessionalizzato. Destinato, senza traumi, alla sua funzionalità, alla sua efficacia, temporary.
Scrive Arnold Gehlen in L’uomo nell’era della tecnica: «[…] osserviamo l’intelletto umano all’opera nello stadio di un postilluminismo, emancipato da quella morale che l’illuminismo credeva in esso infusa e che in tal modo viene ridotta ad assumere il disperato ruolo di chi deve continuamente intralciare l’efficace, l’attuabile e il funzionale». Siamo nel 1957. Sessant’anni dopo, la morale, quella morale, non è nemmeno più disperata; semplicemente non oppone, non può più opporre resistenza, e dunque non partecipa alla costruzione narrativa di conflitti.
Che la rete non possa produrre «romanzo» è un sintomo importante.
La società che sta intorno alla rete – e molta parte di quella che vi sta dentro – non ha bisogno di modellare figure morali. Non temendo che queste figure si escludano nella narrazione di conflitti, può anche fare a meno di narrazioni.
Ma, d’altro canto, «inventa» modalità di promozione e ricezione che continuano a guardare alla produzione di storie: il pitch (quando la storia non è ancora raccontata), il trailer (quando è già stata raccontata), la catch-phrase (quando la storia deve essere recepita). In queste forme della rapidità, in questi schemi riduttivo-sintetici, che appartengono allo spirito della rete più di quanto appartenga la forma romanzesca, è contenuto molto delle modalità del processo di transizione a cui stiamo assistendo.
La brevità, la condensazione, la distrazione dalla pertinenza della logica sequenza dei fatti. Ancora una volta la sensazione di una dispersione strutturale. Una dispersione in cui è fondamentale imparare a stare senza cedere alla tentazione di forzare l’immediato futuro. Nessun bel dì vedremo. Non si tratta di capire. Si tratta piuttosto di sapere come muovere i materiali acquisiti e acquisibili, e apprendere come trarre dalla inevitabile dispersione isole di consumo culturale, nuclei omogenei, flussi governabili.