I librai stanno scomparendo: li potranno salvare, forse, la formazione, la razionalizzazione della filiera e, soprattutto, la maturazione di una maggiore esigenza da parte dei lettori.
È stato un anno pesante, il 2012, per l’editoria. E, lungo tutta la filiera editoriale, non sono pochi gli anelli che iniziano a cedere. In futuro è prevedibile che tutto il sistema dovrà cambiare le modalità di business (dall’editore alla distribuzione), ma forse chi sta peggio di tutti in questo momento, l’anello più fragile dell’intera catena, è il libraio.
Il libraio come l’abbiamo conosciuto non è più tale da qualche anno. Non è un male, anzi: grazie alle scuole – ne riparleremo tra breve – i librai di nuova generazione sono commercianti molto più accorti di quanto non lo fossero i loro colleghi solo qualche anno prima.
Eppure il 2012 è stato uno stillicidio. Hanno chiuso librerie storiche un po’ in tutta Italia. Quando la storica libreria Ghelfi & Barbato di Verona ha spostato dal centro la sua attività è arrivato un secco comunicato. «A Verona, come a Padova, Rovigo e Venezia, nelle vie principali del commercio non ci saranno più “librerie di tradizione” soffocate dall’aumento degli affitti e dei costi generali di gestione e da fatturati stagnanti o in calo. Le librerie di tradizione sono oramai ai margini delle vie principali del commercio». Non sono parole di un libraio, sono parole di Paolo Ambrosini, presidente ALI Confcommercio di Verona. Ambrosini ha ragione.
In pochi anni sono sparite dai centri urbani molte librerie che hanno segnato la storia delle rispettive città: perdita enorme che non è solo un danno imprenditoriale, ma soprattutto culturale. E non per questa o quella città, ma per tutto il paese nel suo complesso. In Francia, tanto per fare le solite «tirate» esterofile (ma sacrosante, stavolta), esiste un preciso dispositivo di legge che cerca di tutelare le librerie. E non ci riesce del tutto: anche la legge Lang, da tutti citata e lodata come esempio di buona pratica, non ha arrestato la deriva ma, almeno, l’ha frenata.
In Italia, ieri come oggi, si va tutti sparsi verso la disfatta. Sia chiaro: le librerie – storiche o no, di tradizione o no – devono essere in grado di intercettare i tempi e di cavalcarli, adeguandosi, reinventandosi, migliorando il servizio. Non vanno tutelate tanto per: devono imparare, ovviamente, a farlo da sole. Molti librai sono consapevoli della situazione e attuano, o tentano di farlo, strategie per affrontarla.
Già, ma quali. Alberto Galla, libraio vicentino di solide tradizioni, oggi è presidente dell’associazione di categoria e cerca di fare il punto della situazione. «Anche per il 2012 continua incessante il saldo negativo tra librerie indipendenti che aprono e quelle che chiudono e quelle, e non sono poche, che scelgono di affiliarsi a qualche franchising. Molti librai indipendenti (e, per la verità, non più solo loro) si trovano in indubbie difficoltà finanziarie, dalle quali credono di uscire con le formule proposte dai vari affiliati che sono effettivamente accattivanti da questo punto di vista, ma insidiose da altri.»
Si è discusso ampiamente, a partire da settembre, degli effetti della legge Levi, l’unica, in tanti anni, ad avere cercato se non altro di regolamentare un punto delicato, come quello dello sconto, in attesa di una ben più importante legge-quadro da tutti invocata e ora, grazie all’iniziativa del Forum per la lettura, oggetto di un’iniziativa di legge popolare. Ebbene la legge Levi, continua Galla, «ha sicuramente evitato un’emorragia di più ampie dimensioni per le librerie indipendenti, ma non ha impedito il protrarsi di molti elementi di criticità esistenti da prima, come la “potenza di fuoco” della grande distribuzione, che spesso riesce a muoversi oltre i limiti della legge, e soprattutto ha generato una patologica, e anche qui ai limiti della legge, proliferazione delle campagne promozionali degli editori».
I librai che resistono a questa crisi, che non è solo di natura economico finanziaria, ma anche di struttura, con lo sviluppo delle vendite online dei libri fisici e l’avanzata, lenta ma inesorabile, di quelli su supporto digitale, sempre secondo Galla, cercano di attrezzarsi puntando le loro carte su alcuni punti essenziali. Quali sono?
«Una forte attenzione alla formazione permanente (la scuola Mauri di Venezia da una parte e la Scuola Librai Italiani di Orvieto, promossa dall’ALI, offrono interessanti opportunità a riguardo) – dice Galla -, oppure possibili aggregazioni tra librerie, come è il caso di un gruppo di librerie nel Veneto che si è consorziato, con lusinghieri risultati, sotto il nome di “Librerie d’autore”, o ancora ci sono allo studio di fattibilità delle “reti di imprese” che stanno muovendo i primi passi sempre a cura dell’ALI. In generale cerchiamo di avere un’attenzione sempre più puntuale alla qualità del servizio alla clientela, alla cura quasi maniacale ai rapporti con il territorio e alle iniziative culturali e di animazione alla lettura, a un rinnovato rapporto con le biblioteche fatto non di sterili e anacronistiche contrapposizioni, ma della consapevolezza di essere uniti dall’unico obiettivo di facilitare in ogni modo l’accesso alla lettura da parte dei cittadini, all’allargamento dei propri assortimenti sia ai supporti digitali, sia ai gadget tecnologici, sia ai prodotti non-book, alla trasformazione dei punti vendita in luoghi dell’incontro e della permanenza, dove la figura del “vero” libraio riacquista un ruolo centrale.»
Un catalogo dei desideri? Non è detto. Certo «tutto questo deve passare attraverso una radicale modifica degli attuali rapporti con le case editrici e con i distributori, all’insegna di una razionalizzazione della filiera, ma anche della riqualificazione del profilo professionale dei rappresentanti, non più meri venditori, ma consulenti e suggeritori. Siamo consapevoli che non possiamo parlare più di “cambiamento in atto”, ma di un vero e proprio “anno zero” di una nuova era, dove molte cose devono essere ancora scritte, ma dove, se non ci troveremo impreparati, potremo cogliere anche le tante opportunità che si presenteranno».
Non è, purtroppo, e va ribadito con forza, solo una questione imprenditoriale e aziendale. È un fatto di impatto culturale. Personalmente sono convinto che i librai e le librerie – tutte – siano un patrimonio culturale del nostro paese. Tutte le forme del commercio librario sono importanti e ciascuna svolge funzioni e ruoli differenti. Ciò che non può essere sopportato è la concorrenza sleale, il finto ricorso alla convenienza per il cliente. La libreria, luogo di incontri e relazioni oltre che di commercio, possiede una dimensione umana irrinunciabile e su questa bisogna puntare.
E i lettori sono l’altro elemento chiave del sistema. Se le librerie e le biblioteche (aggiornate agli anni duemila) sono un centro propulsore vero della cultura e gli aiuti pubblici, sotto diverse forme, sarebbero necessari e dovuti, se si ammette, come sempre si fa, da parte di tutti i politici, che la cultura è fondamentale per il rilancio, le conseguenze dovrebbero essere immediate e semplici. Ma i lettori non possono tirarsi indietro: sarà impopolare da dire e ancora più da mettere in atto, ma una rivoluzione culturale non si fa senza il pubblico. Se i lettori vogliono qualità, competenza, diversità nelle scelte siano esigenti con i propri librai di riferimento. C’è una categoria pronta e generalmente molto qualificata. Non la si può tradire solo per una piccola percentuale di sconto. Sconto, come il prezzo, mai deciso dal libraio e spesso anzi subito.
Nella guerra all’ultimo centesimo lettori e librai giocano dalla stessa parte. Se qualcuna di queste parti non se ne è ancora accorta, gli sconfitti sono tutti. Per carità: il mondo va avanti anche senza i librai, gli editori o i libri. Verso dove, è un altro paio di maniche.