Quando la poesia va in classifica: il caso Szymborska

Il successo delle poesie di Wisiawa Szymborska, rilanciate in classifica da una lettura in tv di Roberto Saviano, riapre utili considerazioni sulla disponibilità di un pubblico potenziale della poesia. Ma il caso della Szymborska non dimostra che, per far funzionare la poesia, basta portarla in tv; semmai che a funzionare sono quei poeti di cui si possa dire (tanto meglio se in tv) che piacciono anche a coloro ai quali, di solito, la poesia non piace.
 
Sul sito di Adelphi lo ringraziano ancora oggi. La noticina è breve e misurata, ma esemplare. Grazie a Roberto Saviano, dice: e non solo perché, dopo la sua appassionata dichiarazione d’amore per i versi di Wislawa Szymborska, nella puntata di Che tempo che fa del 5 febbraio 2012 (a pochi giorni dalla scomparsa della poetessa polacca), la raccolta completa delle sue poesie (La gioia di scrivere, Milano 2009) ha registrato un’impennata di vendite talmente vertiginosa da dover essere ristampata due volte in pochi giorni. Soprattutto, a Saviano bisogna essere riconoscenti per il servizio reso (oltre che a Szymborska, e a Adelphi) alla poesia stessa: per aver avuto il coraggio di «portare sul piccolo schermo un genere, la poesia, troppo spesso relegato a un ruolo marginale. La risposta dei lettori è stata una preziosa dimostrazione del fatto che quando la poesia parla, sono in molti ad aver ancora voglia di ascoltare».
Come dargli torto, a quelli di Adelphi? Bravo Saviano, davvero: convincere migliaia di italiani che, qualche volta, anche la lettura di un bel libro di poesie può essere una esperienza gratificante, non è da tutti. Ovviamente, però, la bravura sta anzitutto nell’aver scelto bene il cavallo su cui puntare: nell’aver consigliato al pubblico una poetessa che – per l’appunto – davvero «sa parlare», scrive poesie che «parlano». Ma cosa vuol dire, per un poeta, saper «parlare»? Quand’è che la poesia «parla»? O piuttosto (non è il caso di porsi interrogativi troppo impegnativi): perché, in che senso, in che modo la poesia della Szymborska «parla»?
Di sicuro non c’entra solo, e forse nemmeno anzitutto, il fatto che Wisiawa Szymborska (Nobel per la letteratura nel 1996) sia o no una delle più grandi poetesse del secondo Novecento europeo. Certo che la Szymborska è una brava poetessa. Però ci sono tanti poeti (anche italiani, oltre che europei) bravi quanto e anche più di lei. Ma se Saviano avesse consigliato i loro versi, l’effetto sarebbe stato lo stesso? Se avesse confessato la propria passione non dico, che so, per Andrea Zanzotto, ma anche per Giovanni Raboni o Giovanni Giudici, per dire, sarebbe bastato a rispedirli in classifica? Non c’è la controprova, naturalmente, ma è lecito nutrire qualche dubbio. Il fatto è che a distinguere la poesia di Wisiawa Szymborska è anzitutto la sua strenua attenzione e fedeltà a un valore che, da un secolo e mezzo a questa parte, non si può certo dire sia stato in cima alle preoccupazioni della maggior parte dei poeti moderni. Lo stesso Saviano, non per caso, ha cominciato proprio da qui, impegnandosi con speciale enfasi proprio nel segnalare questa vistosa specificità: quelle della Szymborska, ha detto, «sono poesie che hanno una semplicità incredibile. Chi non ha mai letto poesia, o non gli piacciono le poesie, si trova, tra le sue pagine, assolutamente a suo agio. Su questo do la mia parola d’onore».
E Saviano è uno di cui ci si può fidare. Non che l’onorabilità sua e della sua parola dipendano davvero dalla precisione o competenza dei suoi giudizi letterari, è ovvio: l’autorevolezza cui fa appello nel consigliarci un libro non è certo quella del critico o del professore di letteratura (non è insomma – per usare una formula che ormai imperversa nella nostra vita pubblica – il parere di un «tecnico»). Fatto sta che la poesia di Szymborska è davvero, come ha detto lui, insolitamente semplice e leggibile (per essere poesia, nonostante sia poesia). Tutt’al più è nello spiegare meglio da cosa dipenda, concretamente, questa «semplicità» che un punto di vista un po’ più tecnico può tornare utile.
A me pare che le ragioni del successo riscosso da Szymborska, in questo senso, siano essenzialmente due. La prima è una spiccata leggibilità metrico-stilistica. Metrica? D’accordo per lo stile, la «semplicità stilistica» si capisce (lessico e fraseologia colloquiale, sintassi lineare e ordinata, le «parole che già conosci» di cui ha parlato lo stesso Saviano). Ma la «leggibilità metrica»? A prima vista suona un po’ grossa. Quello che voglio dire, in realtà, è semplicemente che, nel leggere i testi di Szymborska, il fatto che siano in versi non appare affatto una cosa strana. Non è che i versi non si sentano, o che – come usa dire – «tendano alla prosa», si confondano con la prosa. Tutt’altro. Li senti eccome: solo che, nel sentirli, non li avverti come una «forma seconda» (imposta a, applicata sul linguaggio). Li riconosci invece, immediatamente, come un modo di organizzare il discorso (di mettere insieme parole e frasi in un discorso) del tutto naturale o, meglio ancora, limpidamente funzionale. In questo senso accade sì qualcosa di simile a quanto accade quando leggi un romanzo. Anche lì la prosa – che di per sé non è una forma di organizzazione del linguaggio meno artificiale del verso, meno lontana dal «parlato» – non la senti come una «seconda forma». Ti appare invece come un modo di organizzare il discorso scritto che conosci e riconosci, che c’è anche fuori dalla letteratura e che sai padroneggiare, a cui sei abituato. Come dice Saviano, ti ci senti «a tuo agio».
A livello più superficiale, si potrebbe dire che questa capacità di far apparire anche il verso poetico come una «prima forma» del discorso (immediatamente riconoscibile come tale dal lettore) è conseguita da Szymborska anzitutto grazie all’uso modestissimo dell’enjambement, cioè facendo coincidere quasi sempre verso e frase, scansione metrica e articolazione sintattica, ripartizione strofica e strutturazione del testo in una sequenza di periodi o paragrafi. Più precisamente, però, la strategia di base (che non per caso resta perfettamente percepibile anche nella traduzione italiana) sembra consistere in un costante sforzo di rigiustificazione del verso letterario attraverso l’emulazione o ripresa parodico-allusiva di generi o tipi discorsivi di estrazione extra-letteraria, che presentino già una struttura organizzativa di stampo non prosastico (e tendenzialmente segmentata).
Detta così sembra una cosa un po’ complicata, ma il procedimento è davvero piuttosto intuitivo. Il caso più elementare è quello del diffuso riuso del modulo-base della filastrocca (cioè della forma più elementare di «poesia» quotidiana, preletteraria). Un riuso che si traduce non solo nell’opzione frequente per versi brevi, strofette e rime, ma anche per una discorsività fortemente ricorsiva e modulare, imperniata su strutture iterative e parallelistiche, secondo un procedimento che ricorda quella «costruzione a gradini» che secondo il grande formalista russo Viktor Sklovskij è tipica appunto delle filastrocche tradizionali. Nella poesia Un’idea, per esempio (dall’ultima raccolta, Qui, del 2009), il procedimento è funzionale a una teatralizzazione dialogica, autoironica e colloquiale, del processo dell’ispirazione poetica: «Mi è venuta un’idea / per una poesiola? Per una poesia? / Bene – le dico – resta, ne parliamo. / Devi dirmi di più su di te. //Al che lei mi sussurra qualcosa all’orecchio. / Ah si tratta di questo – dico – interessante.
/ Già da tanto mi stanno a cuore queste cose. / Ma al punto di scriverci una poesia? No, no di certo. // Al che lei mi sussurra qualcosa all’orecchio. / E solo una tua impressione – rispondo – / sopravvaluti le mie forze e capacità. / Non saprei neanche da dove cominciare. // Al che lei mi sussurra qualcosa all’orecchio […]» (una struttura del tutto analoga hanno anche, per esempio, la Conversazione con una pietra, in Sale, 1962, o Il vecchio professore, in Due punti, 2005).
Un altro modulo di strutturazione discorsiva che Szymborska simula/riusa di frequente (spesso peraltro contaminandolo con il primo), è quello, meno tradizionale e più «moderno», dell’elenco, della lista. Nell’esemplare Contributo alla statistica (da Attimo, 2002), l’impianto strofico-versale sembra proprio dissolversi nel layout tipografico di un elementare elenco per punti, di quelli che si usano anche per la lista della spesa: «Su cento persone: // che ne sanno sempre più degli altri / – cinquantadue; // insicuri ad ogni passo / – quasi tutti gli altri; // pronti ad aiutare, / purché la cosa non duri molto: / – ben quarantanove //[…] degni di compassione / – novantanove; // mortali / – cento su cento. / Numero al momento invariato»).
Il terzo tipo testuale di cui Szymborska si serve spesso per «naturalizzare» il suo verso è quello – quant’altri mai congeniale, come noto, a una poesia di stampo lirico – dell’annotazione, dell’appunto. Proprio Appunto si chiama, per esempio, un’altra poesia di Sale, dove la discorsività smozzicata, sintetica, telegrafica, un po’ ellittica, tipica appunto delle annotazioni, si inquadra in una struttura testuale «a gradini» funzionale a narrativizzare vividamente un ragionamento: «Nella prima bacheca / c’è una pietra. / Vediamo su di essa / una lieve graffiatura. / Opera del caso / come dicono taluni. // Nella seconda bacheca / un pezzo di osso frontale. / Difficile stabilire / se d’animale o d’uomo. / Un osso è un osso. / Proseguiamo. / Qui non c’è nulla. // […] Nella prima bacheca / c’è una pietra. / Nella seconda bacheca / un pezzo di osso frontale. / Siamo venuti meno agli animali. / Chi verrà meno a noi. / Attraverso quale somiglianza. / Il paragone di chi con cosa».
Sono numerosissime le possibilità di modulazione e variazione, intreccio e ibridazione, con cui Szymborska sfrutta, nelle sue poesie, l’allusione a questi super-moduli discorsivi extra- e antiletterari: i quali, per un verso, funzionano sì come cornici in grado di «addomesticare» il verso (di renderlo una forma «familiare», non straniera, anche al lettore non specialista); ma che nel contempo, attraverso il riuso poetico-letterario cui Szymborska li sottopone, ne vengono a loro volta sottilmente de-familiarizzati, straniati, ironizzati. E un cortocircuito che, mentre porta il mondo della quotidianità (del nostro quotidiano comunicare) dentro la poesia, al tempo stesso consente alla poesia di agire su quel mondo di parole, prassi discorsive (ma anche di modi di interazione sociale mediati da quelle parole e prassi discorsive), come una sorta di reagente allergizzante, di dispositivo di rimessa a fuoco sorprendente, di intensificazione spostata e spesso ironica. Del resto il procedimento può ripetersi talora sfruttando anche modelli ancor più anomali e peculiari. Nella poesia Piccoli annunci (da Appello allo Yeti, 1957) a essere simulato/parodiato è addirittura l’assetto di una colonna di inserzioni in un giornale: «CHIUNQUE sappia dove sia finita / la compassione (immaginazione del cuore) / – si faccia avanti! Si faccia avanti! […] // INSEGNO il silenzio / in tutte le lingue / mediante l’osservazione / del cielo stellato […] // RIPRISTINO l’amore. / Attenzione! Offerta speciale! […] // SI CERCA persona qualificata / per piangere / i vecchi che muoiono / negli ospizi […]»). Similmente, in Intervista con Atropo (da Due punti) il modulo di per sé abbastanza classico del «dialogo con la morte» è rideclinato nella forma di un incalzante botta e risposta fra poeta/reporter e renitente, sfuggente personalità pubblica; in Foglietto illustrativo (da Ogni caso, 1972) è addirittura uno psicofarmaco a rivolgersi direttamente al lettore/paziente secondo il modulo testuale segmentato delle «istruzioni per l’uso» farmaceutiche; ma anche la celebre Scrivere il curriculum (da Gente sul ponte, 1986), una delle poesie lette in tv da Saviano, è costruita sull’imitazione critico-straniante di un genere testuale schematico, e schematizzante, che si fa subito emblema peraltro di un tipo di relazione interumana percepita come gelidamente, angosciosamente «schematizzante».
La seconda ragione di successo della poesia di Wislawa Szymborska – in un certo senso più ovvia, e comunque strettamente legata alla prima – consiste nella spiccata immediatezza e «semplicità» delle procedure rappresentative di cui si serve. Qui gli aspetti da osservare sono almeno un paio. Da un lato a colpire è la ricorrenza – più che di certi temi – di certi moduli retorico-inventivi. La focalizzazione disorientante sull’infinitamente piccolo o l’infinitamente grande, la commutazione fra il punto di vista dell’umano e dell’inumano, la commisurazione straniante dell’effimero con l’eterno, del transeunte con il perdurante, del banale con il sorprendente, sono gli strumenti elementari, benché inventivamente riproposti in continue variazioni, di una poesia animata da alcuni intenti e interessi di fondo pressoché costanti: la tensione alla relativizzazione della nostra percezione dell’esistere; la propensione all’immaginazione dell’altro e del punto di vista dell’altro; un’attitudine all’interrogazione metafisica che muova però dal dettaglio concreto; un cortocircuito continuo fra un umanesimo intensamente rivissuto e un disincantato, ironico antiantropocentrismo. Se non sempre l’applicazione di questo repertorio di dispositivi produce esiti di uguale efficacia e originalità, la loro funzionalità nel proporre a chi legge un certo spettro di atteggiamenti mentali (di posture etico-conoscitive) è indubbia.
Per altro verso, a essere sempre limpidamente definita è la situazione entro cui è collocata la relazione comunicativa fra scrittore e lettore. Nella sua poesia, insomma, chi legge ha sempre chiaro chi gli parla, in quali circostanze, a che titolo, sulla base di quale «autorità». Quella di Wislawa Szymborska, lo si è detto, è una poesia di stampo essenzialmente lirico: i suoi libri si offrono come una successione di riflessioni, pensieri, commenti, che il soggetto poetante distilla dalla propria esperienza esistenziale e affida alla pagina come testimonianze esemplari, per l’appunto, di quella esperienza. È indubbio che questo sia il tipo di relazione che a tutt’oggi il lettore senza laurea in Lettere moderne si aspetta di trovare quando apre un libro di versi. Ed è ciò che Szymborska gli offre: sia pure, certo, con una spiccata dose di understatement e autoironia (cioè con un diffuso ricorso a procedure e atteggiamenti che molti critici definirebbero antilirici). È anzi sintomatico che l’autrice polacca tematizzi ampiamente, nei suoi testi, il proprio quotidiano, domestico «essere poetessa». Anche nell’intensa, impegnativa Scritto in un albergo (Uno spasso, 1967) la rievocazione dell’aneddoto dell’«amatore di antichità» che, scoppiando in lacrime «al tavolo delle conferenze», determinò la salvezza di Kyoto, «decisamente più bella di Hiroshima», dà il via alla riflessione di un io poetante situato e riconoscibile, che sta «scrivendo questi versi» in una «stanza d’albergo / con vista sulla grondaia», «in una città dove c’è molta gente […]// In una città di cui so / questa sola cosa / che non è Kyoto / di certo non è Kyoto». E anche e proprio in questo modo, autorappresentandosi spesso nel concreto esercizio della propria attività di scrittrice di versi, che Wislawa Szymborska può proporre al lettore un’idea al tempo stesso tradizionale eppure sottilmente rinnovata dei compiti e dei limiti di quel particolare mestiere – di quel particolare modo di fare qualcosa con le parole – che è (che oggi può continuare a essere) la poesia.