Se il giallo contemporaneo è stato declinato secondo varie commistioni di genere, ha escluso però l’appello alle risorse della commozione sentimentale. Piuttosto, sono le risorse della comicità a esservi accolte con larghezza. Nonostante affronti il più tragico dei temi, la morte violenta, il giallo non concede spazio ai turbamenti emotivi. La divisione del lavoro tra vittime, malfattori e investigatori, relegando gli uccisi a un ruolo passivo e pretestuale, costituisce un dispositivo atto a mitigare gli effetti emotivamente destabilizzanti dell’esperienza delittuosa.
Dal momento in cui Sciascia (Il giorno della civetta, 1961) ha avviato l’analisi narrativa della mentalità mafiosa a quello in cui Camilleri, Lucarelli, De Cataldo, Carofiglio hanno definitivamente confermato dignità letteraria al genere poliziesco, si sono moltiplicate le occasioni di accogliere sulla scena romanzesca non solo l’omicidio, ma la sua ripetizione parossistica e la sua organizzazione sistematica, senza esclusione di mezzi né di crudeltà. Basti pensare alla variopinta fantasia omicida dei criminali di Scerbanenco, dispiegata già sul volgere degli anni sessanta; o, per venire ad anni recenti, all’intarsio monocromo di ammazzamenti e stragi che si dispiega, con effetto protratto di suspense, in Romanzo criminale (2002) dello stesso De Cataldo: laddove il modello poliziesco di narrazione, abbandonando rimpianto retrospettivo, vira in realtà verso il noir. Quando dalle trame del gangsterismo cupido si passi all’esplorazione delle menti inclini alla morbosità aggressiva, come capita con Carlo Lucarelli (Almost blue, 1997), lo stesso De Cataldo (Onora il padre, 1999) o Nicoletta Vallorani (Eva, 2002), gli esiti non sono troppo diversi. L’avvento romanzesco dell’uccisore seriale riorienta la narrazione dalla sociologia alla psicologia. Il movente non sarà da individuare nell’anelito al possesso materiale cumulativo, nell’esercizio del potere in quanto arbitrio estensivo della violenza, ma piuttosto nell’urgenza della sopraffazione individuale alimentata da pulsioni primarie distorte. Il teatro dell’assassinio tende allora ad acquisire un’evidenza truce, insieme con l’oggetto corporeo che calamita gesti di effrazione vieppiù sanguinari.
Con tutto ciò, la narrazione poliziesca non indirizza affatto alla commozione, all’adesione simpatetica nei confronti di coloro che subiscono il torto del delitto, siano essi le vittime o i loro congiunti. I meccanismi di proiezione e identificazione cui si appresta l’io leggente si rivolgono piuttosto al personaggio dell’investigatore; o tutt’al più, per suo tramite, al personaggio dell’uccisore maniaco: secondo la tattica di calarsi nei panni dell’assassino per ripercorrerne e prevenirne le mosse. Il protagonismo dell’indagatore, sia poliziotto o detective o privato dagli incerti trascorsi, impone al pubblico una vicinanza emotiva più sentita di quanto non possa suscitarne qualunque fanciulla indifesa o vedova derelitta che sia incappata nelle angherie dei malfattori. L’istanza fondamentale del racconto poliziesco è un’istanza di verità e giustizia, al limite di compensazione uguale e contraria del torto infetto. La trasgressione delle norme elementari di convivenza, così come è sceneggiata dal poliziesco, non incoraggia al trasporto partecipe verso la parte lesa. La tutela di un patrimonio fondamentale di empatia è bensì una delle premesse istitutive del patto di lettura giallistico; il baricentro delle risorse emozionali movimentate dal racconto andrà tuttavia collocato altrove che nella sofferenza delle vittime: semmai nella loro esigenza implicita di riconoscimento e rivalsa.
La divisione del lavoro narrativo tra investigatori e vittime da un lato e antagonisti criminali dall’altro lato fa sì che l’investimento di energie emotive intrapreso dal lettore privilegi decisamente il primo ruolo, quello degli investigatori, rispetto agli altri. Le vittime sono senz’altro elemento necessario e propulsivo della trama poliziesca, che consente anzi di identificarla d’acchito come tale, eppure si tratta di un motore immobile, per così dire: immobile che più immobile non si dà, come può esserlo solo un cadavere immortalato nel momento dell’innaturale trapasso. Il più delle volte, d’altronde, il delitto si pone sulla soglia dello spazio testuale, mentre la sostanza della narrazione attiene all’indagine che tenta di restituire dignità e senso all’insensatezza della morte violenta. L’uccisione è posta a monte del racconto così come della ricostruzione condotta dall’investigatore. La concatenazione di cause ed effetti che ha prodotto il crimine viene chiarita in genere da un protagonista investito di tale ruolo per mandato istituzionale.
L’oppositore originario e primo del malvivente è stato eliminato, in quanto vittima designata; proprio per questo motivo è chiamato a subentrargli il detective che, a dispetto delle sue funzioni vicarie, potrà emergere quale oppositore fattivo e nella maggioranza dei casi vittorioso. All’antagonista criminale, insomma, si contrappongono un protagonista mancato, nella persona della vittima, e un protagonista autentico, nella persona dell’investigatore. Costui, in linea di massima, non è animato da ragioni o passioni personali nel suo compito di individuare le responsabilità delittuose: si tratta per lo più di un professionista, sciolto da ogni condizionamento soggettivo che possa emanare dal delitto. Di qui provengono l’attendibilità e l’imparzialità del suo intervento: a miglior garanzia che il principio di giustizia perseguito possieda un carattere universale e parificante, integralmente umano. E così che il giallo assolve a una sorta di finalità catartica sui generis, dal momento che il fardello del lutto e le potenziali riserve di astio e cupezza lasciate in eredità dalla vittima, ormai impotente, sono riconosciute e tuttavia accantonate a favore della funzione reattiva e sovrapersonale incarnata dall’investigatore.
La tragedia particolare della vittima va ammessa ma va anche arginata, a opera dell’indagatore, prima che possa convertirsi in tragedia generale della collettività. Pertanto il romanzo giallo non ammette di indugiare nell’esperienza lugubre della perdita, a pena di attestare il collasso della norma sociale. E questo il rischio corso dal meditabondo questurino che Gadda insedia al centro di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), don Ciccio Ingravallo, dal momento in cui si trova a contemplare il corpo squarciato di Liliana Balducci. La sostenutezza tragico-sublime dell’artefatta pagina gaddiana è resa possibile appunto dalla fascinazione che la signora esercita sullo stesso commissario Ingravallo: questi partecipa dunque dell’omicidio non solo in veste istituzionale quale incaricato delle indagini, ma anche come uomo, come scapolo, non insensibile all’ambigua femminilità dell’assassinata. L’esito di stallo della vicenda, soprattutto sotto il profilo poliziesco, sarà determinato dalla commistione nevrotica tra un’esigenza di riordinamento analitico-investigativo e un’esigenza di empatia mortalmente frustrata, quale si dà nell’intimo del contristato Ingravallo.
Viceversa, l’efferatezza del delitto richiede una risposta altrettanto pronta e risoluta, come quella che può fornire l’intraprendenza di un indagatore esente da turbamenti sentimentali, inteso a un superiore obiettivo di restaurazione cognitiva ed etica. Lo slancio reattivo dell’investigatore, volto a superare il lutto in una dimensione generale di giustizia, si legittima a maggior ragione sulla base della struttura retrospettiva del racconto d’indagine. Quando la ricostruzione delle circostanze delittuose viene avviata, ovviamente l’oltraggio è già stato perpetrato, le passioni e le emozioni della vittima sono spente: ne rimane la sola salma, muta, enigmatica, che andrà interrogata e decifrata, riconsegnata idealmente a un contesto di vita e di conflitto che può spiegare l’approdo mortifero. Compito dell’investigatore è pertanto tratteggiare la rosa di rapporti in cui la vittima era avvolta, identificare le brame ostili che avrà volente o nolente suscitato, senza cedimento alle melensaggini.
A mitigare ogni trasporto immedesimativo, da parte dell’investigatore come dell’io leggente, si oppone la stessa barriera cronologica che rigetta il delitto in un tempo certamente prossimo ma ormai conchiuso e ineluttabile, suggellato dalla morte. Il detective potrà, dovrà rivivere il dramma dell’ucciso, al fine di comprenderne i tratti determinanti, tuttavia le risorse cui fare appello in tale missione saranno prevalentemente di ordine analitico-razionale, anziché empatico-emozionale, pur senza escludere le complicazioni muscolari annesse al rischio fisico della sfida malavitosa. La specializzazione del mestiere poliziesco, insieme con la consuetudine al dolore e al lutto, con la distanza statutaria dalla vittima, reca con sé l’obbligo di avvalersi del ragionamento, l’intuizione, l’astuzia. Nel confronto con le narrazioni giallistiche extraletterarie, sia fumettistiche sia cinetelevisive, la rimozione del pathos luttuoso sembra consentanea al più elevato grado di concettualizzazione della scrittura in prosa: come se l’adozione esclusiva della parola stampata esaltasse le energie intellettuali atte all’astrazione analitica, mentre la sollecitazione sensibile immediata della rappresentazione audiovisiva coadiuvava più agevolmente la commozione simpatetica.
Ciò per lo meno si riscontra nel giallo letterario d’impianto classico, propriamente a enigma, come viene aggiornato da Camilleri con robusti apporti di pittoresco regionalistico e di comicità grottesca. Ma pure rivolgendosi al filone hard-boiled, dove ritrova smalto una drammaticità avventurosa propensa a registri gravi, il risultato non è troppo diverso. Qui anzi si è venuta consolidando la psicologia monolitica dell’indagatore, che vi appare rotto a ogni esperienza e catafratto da uno spessore di insensibilità emotiva sfociante nel cinismo misantropico. Come attesta sin dalle origini il Duca Lamberti di Scerbanenco, l’unico pathos ammesso dall’eroe poliziesco tutto d’un pezzo è quello della giustizia sommaria, nella quale la sadica offesa patita dalla vittima autorizza e incentiva l’offesa simmetrica del vendicatore. Nelle storie del commissario Montalbano, per contro, viene a perfezionarsi quella tendenza, che già si affacciava nel Pasticciaccio di Gadda, ad abbinare faccende di morti ammazzati con un disincanto ridanciano: la più tremenda delle questioni umane con la constatazione dell’inadeguatezza, l’incoerenza, la contraddizione gravanti sulla condotta degli uomini anche nei passi estremi. In effetti, nell’evoluzione novecentesca del romanzo giallo ha avuto la meglio l’innesto, sulla sua originaria vocazione tragica, di componenti comico-ironiche, piuttosto che patetico-sentimentali. Lo conferma da ultimo Marco Malvaldi con la serie giallistica imperniata sulla combriccola di pensionati che stanziano al BarLume e vi esercitano la più dilettantistica e maldicente delle cooperazioni investigative (La briscola in cinque, 2007 ; Il gioco delle tre carte, 2008; Il re dei giochi, 2010; La carta più alta, 2012). Il modello del racconto logico-deduttivo si combina qui con la caratterizzazione satirica del dialogismo paesano di marca toscana. L’umorismo nero di vecchietti linguacciuti si rinfocola grazie all’epifania dell’omicidio nel seno della presunta quiete provinciale.
L’interdetto estetico vigente lungo il Novecento a carico delle tendenze narrative di timbro patetico-sentimentale, già suggellato a suo tempo dal sistema paraletterario dei generi, non trova smentite dopo la legittimazione letteraria del poliziesco. La combinazione modellistica dei generi potrà ammettere gialli storici, gialli fantascientifici, gialli psicologici e sociologici, ben più difficilmente gialli inclini all’enfasi commovente. Soprattutto, il privilegio riservato alle attitudini comico-umoristiche nel romanzo poliziesco contemporaneo appare direttamente proporzionale all’emarginazione delle risorse di emotività lacrimosa. Bisogna forse ricavarne che le armi analitiche e intuitive attivate dall’indagatore poliziesco predispongono a un distacco critico analogo a quello che permette il sorriso comico-umoristico, per quanto sarcastico o amareggiato. L’empito deontologico del detective induce a una raggelata contemplazione della morte, così come l’umorismo nero garantisce uno scarto intellettivo salvifico rispetto all’incombenza dell’evento lugubre. La cornice umoristica, d’altronde, agevola la dicibilità di quel fatto indicibile per eccellenza che è la morte, per giunta morte violenta: solo allestendo opportuni dispositivi ironici di allontanamento e messa in sicurezza è possibile avvicinarsi all’abisso dell’omicidio, renderlo praticabile in termini narrativi. Tanto più che le vittime, tutto sommato, in non moltissimi casi appaiono linde da ogni macchia, nel bilancio di ragioni e disragioni che l’indagine poliziesca consente di svelare. L’attenzione alla complessità che il giallo contemporaneo ha maturato, l’esigenza di prevenire la scontatezza di contrapposizioni convenzionali e manichee, hanno favorito l’intervento di controspinte asimmetriche nella spartizione dei ruoli tra vittime e colpevoli. Sicché è difficile incontrare una vittima che sia in tutto e per tutto innocente, nello sfumato delle caratterizzazioni e delle relazioni interpersonali, e non anzi oscuramente compromessa con le motivazioni che ispirano il suo oppressore.
D’altra parte, persino in Morte a Firenze di Marco Vichi (2009), dove l’assassinio consegue a incontrollati sfoghi sadomasochisti e si consuma ai danni di un tredicenne rapito e drogato, lo spazio di empatia concesso alla vittima non oltrepassa i contorni del ritrovamento macabro e dell’anamnesi anatomopatologica. Al centro del racconto si colloca invece la crisi del cinquantenne commissario Bordelli, con i suoi fantasmi della guerra di Liberazione, l’ansia della stasi investigativa, le debolezze gastronomiche, il desiderio della serenità amorosa. L’inondazione di Firenze del 1966, con il suo impatto profondo sulla sensibilità collettiva, costituisce uno scenario di singolare contrasto rispetto alla vicenda poliziesca che ossessiona il protagonista. L’urgenza di fermare i colpevoli del delitto singolo non ammette di essere subordinata al disastro cittadino, nonostante le ingenti perdite umane e materiali: l’alluvione è una sorta di conferma allargata del male che si è scatenato sul bambino rapito, ma è anche il quadro da cui Bordelli può muovere con nuova risolutezza alla soluzione del caso. Tanto più spiazzante è allora la scelta di dimettersi dalla polizia dopo aver individuato i colpevoli, massoni altolocati dalle corrive nostalgie fasciste. Quell’accoramento che non è ispirato dal minore ucciso, né dalla sciagura dell’Arno esondato, si accenna invece di fronte alla violenza subita dalla nuova fidanzata di Bordelli su mandato degli onnipotenti pedofili fascisti. Ma è proprio qui che il meccanismo poliziesco s’inceppa, quando Bordelli viene minacciato nei propri affetti più cari, la fidanzata gli amici i collaboratori, e si ritrova ad associare in sé i ruoli di investigatore e di vittima per l’innanzi accuratamente distinti. Quasi che coltivare legami sentimentali si con verta ipso facto in motivo di vulnerabilità al cospetto dei perfidi antagonisti, mentre realizzare la propria missione investigativa obblighi a una sorta di ascetismo eroico, scevro di qualsivoglia tenerezza.
A un simile profilo di eroe ascetico si avvicina in effetti il protagonista del ciclo romanzesco di Maurizio De Giovanni (Il senso del dolore, 2007; La condanna del sangue, 2008; Il posto di ognuno, 2009; Il giorno dei morti, 2010), ripubblicato integralmente da Einaudi nel corso del 2012, a stretto giro dopo le prime edizioni Fandango Libri (Per mano mia appare invece direttamente da Einaudi nel 2011). Il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, animato da una dedizione inesausta al proprio lavoro, presta servizio presso la regia questura di Napoli all’alba degli anni trenta, nonostante le sue origini nobiliari e la cospicua rendita garantitagli dal patrimonio di famiglia. Siamo nei pressi di un superuomo di massa, come si vede: il sacro fuoco dell’investigazione è ispirato oltre che da un senso smagliante di giustizia, dalle doti parapsicologiche che lo condannano a «vedere» i morti di morte violenta fissati nel loro ultimo gesto, ascoltati nelle loro conclusive parole. È chiaro quanto un simile superpotere possa nuocere a ogni suspense di ricostruzione poliziesca: tuttavia le qualità di veggente del commissario Ricciardi, se contribuiscono senza dubbio alla sua famigerata infallibilità, non offrono la soluzione spiattellata dell’enigma criminale, ma nient’altro che indizi, sia pur decisivi. Cosicché la fatica delle indagini, i sopralluoghi, gli interrogatori non è risparmiata al protagonista, ben determinato a profondersi in essi.
Sussiste certo un qualche indugio orrifico nell’apparizione ossessiva di corpi dilaniati, pugnalati, impiccati. Dominante nell’impasto romanzesco è a ogni modo l’accoglienza per lunghi tratti testuali delle voci dei trapassati, della loro prospettiva dolente e rattristata, accanto alle parole e alle prospettive dei vivi e dei colpevoli. Nel discorso dominato da un narratore impersonale sovrano, che pur privilegia l’ottica del commissario protagonista, sono riservate pagine ai discorsi stessi degli assassinati, delle vittime comprimarie e di contorno, insomma di coloro che hanno qualche parte notevole nella vicenda: così che il computo di ragioni e torti si va chiaroscurando nel viluppo di relazioni che stringono tra loro non solo ucciso e uccisore, ma i numerosi altri personaggi che ne dipendono per vincolo affettivo, sociale, economico. Come avviene particolarmente nel primo campione del ciclo, Il senso del dolore, il dramma delittuoso è rivissuto, mediante una miscela di indiretto e diretto libero, anche attraverso la parola di coloro che ne sono stati travolti: dei quali riecheggiano la vitalità e la disperazione, sollevate finalmente da un afflato comprensivo di tono lirico, in limine mortis.