La differenza più importante tra il fumetto di personaggio e quello d’autore è tutta nella scomposizione dei ruoli professionali che contribuiscono all’opera. Nella produzione d’autore, come è il caso di Fior, spesso i mestieri della parola e dell’immagine confluiscono in un solo individuo, che può scegliere di ignorare la sequenza di attività che conduce dal soggetto alla sceneggiatura, al disegno, al colore e anche al lettering, realizzando il racconto direttamente sulla pagina definitiva.
A volte, i fumettisti hanno dubbi. Si pongono domande semplici la cui risposta può venire solo dalla pratica sperimentale. Spesso si tratta di questioni che riguardano il risultato finale di una loro scelta durante la realizzazione del fumetto: l’effetto prodotto dall’uso di una tecnica sulla pagina stampata, la possibilità di violare un modo del racconto codificato senza diventare criptici o la sensazione scatenata nei lettori da una soluzione narrativa.
Oggi, il formato dominante per il fumetto non seriale è il libro (graphic novel) e ciò ha reso impossibile rispondere a quelle domande in tempi rapidi. Un libro contiene una storia di molte pagine e prevede lunghi tempi di lavorazione. Tutt’altra cosa erano le riviste che dovevano essere riempite mensilmente e avevano la necessità di trovare contenuti di lunghezza diversa per garantire continuità e ritmo di lettura, varietà del sommario e assenza di buchi. Sulle pagine delle riviste, gli autori potevano vedere, poco tempo dopo averle realizzate, come tenessero la stampa le loro scelte tecniche o stilistiche. In questo modo, i fumettisti trovavano uno spazio in cui sperimentarsi.
C’è una generazione di autori che si è formata leggendo con continuità quelle riviste, riconoscendo così al fumetto una grande libertà creativa. Una generazione che ha esordito quando ormai le riviste di fumetto d’autore non esistevano quasi più. Si tratta di fumettisti nati dopo la metà degli anni settanta che, oggi, hanno solo due possibilità. Da un lato, il fumetto seriale, alle dipendenze di poche case editrici nazionali o all’estero. Dall’altro, il graphic novel, che offre le medesime speranze di visibilità e guadagno dell’editoria letteraria: poche e per pochi.
A questa generazione appartiene Manuele Fior, nato a Cesena nel 1975, i cui primi fumetti giunti a pubblicazione sono storie brevi, scritte con il fratello Daniele, apparse su riviste europee, molto raffinate e poco diffuse, come «Bile Noire», «Strip – burger», «Forresten» e «Black», e poi raccolte nel volume Quattro buoni motivi (Arti Grafiche Friulane, 2003). Alle storie brevi, segue Les gens le dimanche (Gente di domenica), il primo fumetto lungo, uscito per la casa editrice svizzera Atrabile nel 2004.1 primi lavori di Fior sono in bianco e nero e raccontano i punti di riferimento di un autore esordiente: c’è la narrazione metatestuale, la voglia di giocare con i codici e l’attenzione per i generi (la fantascienza, il rosa e il giallo). Dalle pagine del primo Fior emerge come l’autore abbia scelto i propri maestri proprio tra i disegnatori che hanno reso grande la stagione delle riviste di fumetti. Le sue fonti più evidenti di ispirazione grafica e compositiva sono l’argentino José Munoz e l’italiano Lorenzo Mattotti, due autori con un approccio al fumetto che sembra negare quella distanza tra le parole e le immagini che è spesso evidente in molto fumetto seriale.
La differenza più importante tra il fumetto di personaggio e il fumetto d’autore è tutta nella scomposizione dei ruoli professionali che contribuiscono alla realizzazione dell’opera. Nel fumetto seriale, chi disegna la storia è quasi sempre al servizio di chi la scrive e, in questo modo, la sceneggiatura è una sequenza di dialoghi racchiusi in inquadrature. Nella produzione d’autore, spesso, i mestieri della parola e dell’immagine confluiscono in un solo individuo, che può scegliere di ignorare la sequenza di attività che conduce dal soggetto alla sceneggiatura, al disegno, al colore e anche al lettering, realizzando il racconto direttamente sulla pagina definitiva.
José Munoz è il disegnatore di Alack Sinner, l’investigatore privato che ha delineato l’idea di avventura della rivista «Alter-linus». Questa serie è sceneggiata da Carlos Sampayo ma il rapporto tra i due è quasi simbiotico e non è possibile intuire quale sia il punto di cesura tra i due mestieri. Il connubio funziona al punto che Art Spiegelman, autore di Maus e curatore di riviste importantissime, da sempre convinto che il fumetto, per essere bello, debba essere realizzato interamente da un individuo, dichiara che Munoz e Sampayo sono «un autore con quattro braccia e due teste».
Lorenzo Mattotti è l’illustratore italiano più noto nel mondo. Suoi disegni sono apparsi sulle copertine di riviste prestigiose come «Le Monde» o il «New Yorker». Prima di essere un illustratore, Mattotti è un fumettista, la cui grandezza si è resa evidente sulle pagine di «Valvoline Motorcomics», inserto di «Alterlinus» (e vera e propria rivista nella rivista). Il lavoro di Mattotti è rorido di un linguaggio iconico e verbale che riverbera di metafore e precipita il lettore in una foresta di simboli, tale da rendere completamente inadeguata la definizione di graphic novel, romanzo a fumetti. Meglio sarebbe se si parlasse di «graphic poetry», intendendo una poesia la cui metrica fosse data dalla tavola.
L’attenzione che Manuele Fior riserva a questi due autori indica chiaramente la sua idea di fumetto. Dopo Gente di domenica, l’autore entra nell’orbita della casa editrice Coconino, che nasce attorno alla progettualità dell’autore e direttore editoriale Igort. Egli ha una sensibilità assai spiccata verso alcune tendenze del fumetto contemporaneo. Coconino nasce nel 2000 proprio per pubblicare, in modo coerente e continuativo, i lavori di alcuni autori che, nel mondo, producono fumetti lunghi e ambiziosi. Nell’idea di Igort, graphic novel non è solo un formato editoriale capace di rendere il fumetto accettabile a un pubblico più vasto: è, soprattutto, un modo di progettare e produrre fumetti articolati e complessi, coraggiosi e importanti. Igort è convinto di far parte di un movimento transnazionale che sta facendo evolvere il fumetto e vuole costruire una casa editrice capace di tenere insieme i lavori suoi e dei suoi compagni di strada. Nei primi anni di vita, Coconino pubblica libri di fumettisti francesi, nordamericani, giapponesi, spagnoli e anche italiani. In quegli anni Igort subisce particolarmente il fascino della bicromia e spinge molti degli italiani con cui lavora a cimentarsi con quella tecnica di colorazione. Quando Manuele Fior arriva a Coconino, la casa editrice ha già pubblicato lavori in bicromia dello stesso Igort, di Gipi, di Piero Macola, di Leila Marzocchi e di Davide Toffolo. La bicromia offre almeno due vantaggi: da un lato, se usata con cura, garantisce prodotti immediatamente percepibili come eleganti; dall’altro, ha processi di stampa decisamente meno costosi di quelli richiesti dal colore.
Fior si sottopone di buon grado al suggerimento di Igort: il suo primo libro targato Coconino è Rosso oltremare e il secondo colore, oltre al nero, è dichiarato nel titolo.
La scelta del rosso non è affatto scontata. Tutti i libri in bicromia stampati fino a quel momento dalla casa editrice bolognese sono caratterizzati da un secondo colore più tenue, meno saturo. E evidente quanto per Fior la bicromia non sia solo un esercizio di stile. Il colore scelto è un viatico al racconto. Rosso oltremare narra due storie e due ossessioni distinte: da una parte c’è quella di Dedalo e Icaro in fuga dal labirinto del Minotauro; dall’altra quella dell’architetto Fausto e della sua compagna Silvia in fuga dall’ossessione classificatoria e raziocinante di Fausto. La forte connotazione simbolica di tutti gli elementi del fumetto rende possibili innumerevoli letture psicanalitiche, ma, prima di perdersi in analisi tutte verbali, il lettore di Rosso oltremare si trova a inseguire un unico colore che non solo è funzionale al ritmo visivo e narrativo: è essenziale a tenere insieme i due racconti giustapposti. In nessun momento si ha la sensazione che Fior abbia lavorato alla sceneggiatura prima di dedicarsi al disegno e alla colorazione. Il rosso accompagna il lettore dal mondo di Icaro a quello di Silvia, sanando uno scollamento che è percepibile anche nella struttura delle pagine, molto più – e in modo assai più efficace – di quanto facciano i dialoghi tra i personaggi.
Il libro successivo è un adattamento. L’editore francese Delcourt contatta Fior e gli commissiona la trasposizione in fumetti di un romanzo a sua scelta. Quando il fumettista sceglie La signorina Else di Arthur Schnitzler, ha probabilmente pensato a lungo a Doppio sogno e a Eyes Wide Shut, la versione cinematografica diretta da Stanley Kubrick. Il confronto con un gigante del cinema è una sfida impossibile e l’adattamento a fumetti di romanzi è uno scontro difficilissimo che, in passato, ha spesso portato a pessimi risultati. Si tratta di prendere un romanzo, una narrazione di sole parole scritte, e tradurlo in immagini su pagina, in dialoghi verosimili e in composizione ritmica. Il processo di trasformazione richiede tutta la dedizione e l’umiltà che possono garantire al fumettista di realizzare un racconto rispettoso del romanziere e del lettore ma, al contempo, indifferente al testo originario, che è una macchina narrante squisitamente verbale.
C’è un esempio straordinario nella storia del fumetto: gli statunitensi Paul Karasik e David Mazzucchelli hanno adattato a fumetti Città di vetro del romanziere Paul Auster. Il risultato della trasformazione ha prodotto un nuovo testo che ha un ritmo quasi indistinguibile da quello del romanzo. Durante il lavoro su Città di vetro, Karasik ha teorizzato un modello di trasposizione basato principalmente sul rigore. Il testo adattato deve essere analizzato in termini di rapporti interni, concordanze e distanza spaziale tra gli eventi. Tutte le proporzioni interne del testo verbale devono essere rispettate nell’adattamento. Un lavoro abnorme e sconsiderato applicabile sicuramente a Città di vetro, che è una rilettura – non scevra di pulsioni ossessivo-compulsive – dell’Alice carrolliana, ma probabilmente non esportabile al di fuori di quei confini così precisi.
Manuele Fior, per il suo adattamento della Signorina Else, parte da un approccio completamente distinto. Per farlo, deve cercare il segno adatto a quella storia: decide di abbandonare la comodità risaputa della bicromia per affrontare il colore.
Il romanzo di Schnitzler è costruito su flusso di coscienza e monologo interiore: il vortice di sentimenti di una ragazza di buona famiglia, molto più attenta all’apparenza che alla pratica reale, in una situazione decisamente difficile. Il lettore si ritrova imprigionato nei pensieri di Else per un centinaio di pagine appena, ma quel breve spazio è sufficiente a garantirgli un crescendo emotivo avvolgente.
Fior parte da quel racconto e lo traduce in fumetto lavorando a colori direttamente sulla pagina definitiva. In un’intervista, rilasciata al sito «Lo spazio bianco», l’autore dichiara: «In Else ho impiegato molto tempo e buttato molte pagine per arrivare a un segno e a una struttura della tavola che mi soddisfacesse. C’è questa specie di energia statica che pervade il libro, in cui quasi niente succede, ma il susseguirsi isterico dei pensieri accumula una tensione che si risolve e viene inghiottita nel finale. Ci voleva un disegno apparentemente calmo, sordo, che non pungesse in ogni vignetta ma che seducesse il lettore in maniera un po’ morbosa, lo accompagnasse nella discesa. Allo stesso modo il ritmo doveva essere lento e mellifluo; le vignette hanno cominciato a sciogliersi, nei momenti in cui il flusso di coscienza prendeva possesso dei pensieri di Else».
L’adattamento di Fior, indifferente ai rapporti e alle proporzioni interni al testo letterario, cerca di riprodurre la gamma emotiva, inseguendo sinestesie inattese: la densità del segno, l’occupazione spaziale dei quadretti, le citazioni pittoriche, la gamma e il crescendo dei colori producono un effetto assimilabile a quello prodotto dal testo verbale. Il romanzo e il fumetto hanno ritmi che non possono essere accostati in alcun modo, eppure Fior ricostruisce il climax emotivo usando tutti i codici che il fumetto gli mette a disposizione.
Il libro successivo è Cinquemila chilometri al secondo e la tecnica di Fior si modifica ancora una volta. Questo fumetto, premiato come miglior libro dell’anno durante il festival di Angouléme 2012, prima di uscire per Coconino, viene pubblicato dalla casa editrice svizzera Atrabile. E ancora una volta la costruzione della pagina a evidenziare lo scarto rispetto ai lavori precedenti. Anche questa volta, si tratta di una modifica radicale del modo di lavorare. Il materiale narrativo è dato dalle storie d’amore di tre ragazzi che si intrecciano e ci conducono fino alla loro età adulta. Le pagine di Cinquemila… richiamano la struttura del fumetto più tradizionale: tre strisce regolarmente sovrapposte, come in quasi tutti gli albi presenti in edicola. Ed è uno scarto forte se si pensa alle scelte operate nei libri precedenti. Due costruzioni di tavola distinte e contrapposte per i due piani narrativi di Rosso oltremare: le pagine che narrano di Dedalo e Icaro sono montate su due strisce, spesso presentando due sole grandi vignette, proprio come succede in Diabolik’, le pagine ambientate nel presente confuso dell’architetto Fausto si articolano su tre strisce; lo scarto dei due ritmi di lettura è lenito dal rosso che armonizza i tempi di lettura. Nella Signorina Else, una struttura liberissima in cui le linee che demarcano le vignette, tracciate a mano libera, non rispettano né alcuna gabbia evidente né l’ortogonalità che tanto semplifica il lavoro del lettore.
La regolarità della costruzione delle pagine di Cinquemila… non è un passo indietro rispetto ad alcuna sperimentazione: è, più semplicemente, un modo diverso di raccontare la storia. Il materiale narrativo è meno strutturato e vincolante di quanto sia successo in passato e, con tutta questa libertà a disposizione, Fior può permettersi di raccontare in caduta libera, provando a costruire pagine direttamente con i pennelli, senza sceneggiatura e senza la confortevole guida di una traccia a matita da seguire. In un dialogo con il collega Giacomo Nanni, pubblicato sul blog «Conversazioni sul fumetto», Fior chiarisce il suo modo di lavorare. Dice: «Per Cinquemila… mi ero prefissato di lavorare col colore, lasciare che parlasse sul serio e non usarlo come una decorazione. Se parti dal colore molte cose nel disegno saltano, prima di tutto i contorni. Poi per questioni narrative sei obbligato a semplificare e anche questo modifica il disegno. […] Lavorare senza storyboard non vuol dire che non sai dove andare a parare. Sai più o meno il tema che ti interessa e hai ritagliato dei personaggi con alcune note di carattere che interagiranno tra loro. Non faccio lo storyboard perché non riesco a pensare a una fase di studio della trama separata da una fase di realizzazione grafica. […] Per me il disegno è la fucina delle idee e nei momenti migliori non pianifico neanche cosa succederà nella vignetta dopo».
Si tratta di un metodo di lavoro decisamente minoritario nel fumetto, usato, con risultati diversissimi, da autori come Benito Jacovitti, Hugo Pratt o il francese Moebius. In Fior, questo approccio produce una narrazione solidissima la cui trama è difficile riassumere a parole, tanto la tenuta del racconto, che continua a presentare scarti temporali, geografici ed emotivi, è principalmente determinata dal procedere dei colori che dominano pagine e capitoli e si avvicendano con funzione ritmica, oltre che narrativa.
In questo momento, Manuele Fior sta lavorando a un nuovo libro a fumetti in cui il colore ha ceduto il passo alla mezzatinta. Ancora una volta è arrivato in un punto da cui è necessario ripartire verso un’altra direzione. La necessità di costruire la narrazione mentre disegna le pagine del fumetto lo costringe a gettarne tante. In un mondo in cui i fumettisti italiani che si dedicano alla serialità più spinta dichiarano di realizzare una pagina al giorno, Fior si dice pago quando reputa di aver acquisito un buon ritmo nel racconto: dopo aver accumulato innumerevoli scarti, può completare tre pagine nello stesso giorno, sentendosi soddisfatto dal proprio lavoro («le pagine migliori»). L’equilibrio tra il racconto e la pagina è enorme, come raramente capita di vedere in tavole che hanno attraversato un processo di lavorazione logocentrico, che parte dalle parole per arrivare a immagini sempre meglio definite. Quasi a dire che anche il formato graphic novel può essere uno spazio di sperimentazione per i fumettisti più dotati.