Nel secondo dopoguerra novecentesco prende sviluppo un moto di acculturazione che tende a diminuire l’abisso tra la casta degli intellettuali e la massa della popolazione. La parte svolta dall’editoria libraria fu di metter a disposizione di un pubblico già culturalmente attivo i materiali opportuni per un miglioramento del rapporto con il libro.
La grande stagione della editoria di cultura italiana prende avvio negli anni del dopoguerra e dopo il fascismo, rappresentando uno degli aspetti del risveglio generale di energie intellettuali caratteristico di quel periodo storico. Il nuovo regime di civiltà instaurato dopo il ’45 era alle prese con un doppio problema di prospettiva: l’allargamento dell’area asfittica della cittadinanza acculturata, e una modernizzazione del sistema di valori etico-estetici su cui impostare i processi di formazione educativa. Su questo sfondo, un settore considerevole dell’imprenditoria editoriale si adoperò energicamente per rinnovare e rinsanguare le attività di scrittura e lettura.
La spinta decisiva al rinnovamento venne dalla entrata in campo di una generazione di giovani che si era appena lasciata alle spalle le macerie del sistema scolastico fascistizzato assieme alle stereotipie culturali accreditate dal regime. Ad animarli era una grande fame di esperienze di lettura inedite, attraenti, spregiudicate.
È una folla di lettori impazienti, quella che invade le università ancora dissestate materialmente e moralmente, nelle quali gli oggetti librari sono in larga misura inadeguati. L’accademia non ce la fa a soddisfare le attese e le ansie di scolaresche affascinate dall’urgenza di impossessarsi delle risorse di un sapere internazionalmente aggiornato, nei suoi paradigmi di spregiudicatezza. A questi ragazzi è l’editoria libraria a fornire il modo di attrezzarsi al meglio per entrare a far parte della classe dirigente in formazione.
I settori più dinamici dell’imprenditoria libraria percepiscono le opportunità sotto ogni aspetto interessanti di un rilancio di attività in chiave di sprovincializzazione. Il fenomeno di una produzione editoriale di livello qualificato ma dissimile dal normale didatticismo scolastico si sviluppa in rispondenza alle esigenze di un pubblico particolarmente ricettivo, in una situazione socioculturale decisamente straordinaria. La editrice Einaudi ebbe notoriamente una funzione di guida in questo incontro felice di domanda e offerta. Ma la schiera delle aziende rubricabili sotto la categoria culturale è tanto vasta quanto varia: comprende aziende di nascita recentissima assieme ad altre di età decisamente avanzata; imprese di grande mole vicino a iniziative che puntavano a compensare le dimensioni aziendali modeste con l’apertura sagace alla sensibilità di un pubblico da conquistare.
Al di là della pluralità di opzioni ideologiche, dal moderatismo cauteloso al riformismo acceso; e della diversità del peso concesso alle istanze commerciali, l’essenziale era la disponibilità comune a un patto d’intesa con una opinione pubblica giovanile incline ad assumere un ruolo intermedio fra i detentori del sapere umanisticamente inteso e l’inferiorità culturale marcata dei ceti subalterni.
Nel secondo dopoguerra novecentesco prende infatti sviluppo un moto di acculturazione che tende a diminuire la radicalità dell’abisso tra la casta degli intellettuali a pieno titolo e la massa della popolazione poco o pochissimo colta. La parte svolta dall’editoria libraria fu di metter a disposizione di un pubblico reale o almeno potenziale già culturalmente attivo i materiali opportuni per un miglioramento del rapporto con il libro sia di intrattenimento sia di studio e di ricerca.
Il campo di lavoro più significativo per questa sorta di Kulturkampf non dichiarata non poteva non essere la saggistica. Ma lo strumento decisivo per la fioritura della primavera libraria postbellica non poteva non essere altrettanto ovviamente il genere romanzo: che in effetti stava assumendo una posizione egemonica a tutti i livelli del sistema di mercato così come nelle gerarchie del sistema della letterarietà.
Questa dinamizzazione delle attività di scrittura e lettura necessitava però di un superamento dell’arretratezza di strutture di distribuzione e vendita articolate su un numero assai ristretto di esercizi commerciali: poche le librerie in Italia, e rivolte a una clientela molto selezionata sul piano socioculturale. Anche in questo ambito, una strategia di rinnovo non poteva non rivolgersi primamente a una categoria di lettori già in qualche misura scolarizzati, volonterosamente ricettivi ma non di facile contentatura: studenti o ex studenti.
Gli scarsi luoghi materiali d’incontro fisico tra la domanda e l’offerta di beni librari non erano peraltro attrezzati per lo smercio di opere adeguatamente fruibili ma d’indole extrascolastica. Se alle redazioni editoriali spettava di inventare le forme necessarie di mediazione fra l’appello alle competenze specialistiche e le attitudini diffusive, come procedere a familiarizzare il rapporto con la clientela senza venir meno agli obblighi monetari della commercializzazione?
In questa prospettiva si colloca l’adozione di una prassi particolarmente idonea alla conquista di una clientela come gli studenti universitari, culturalmente motivati ma economicamente squattrinati. La strategia consisteva nella organizzazione di una rete di venditori ratealistici itineranti: senza fissa dimora, diciamo così, ma appartenenti alla stessa couche socioculturale degli acquirenti potenziali: caso esemplare, quello del giovane Italo Calvino. Per lo più erano studenti anche loro, disponibili a migliorare la propria preparazione collaborando a uno svecchiamento della bibliografia cui fare ricorso per le più plausibili istanze formative e informative.
A un personale stradaiolo si affidava insomma il compito di smerciare un repertorio molto nutrito di testi, secondo una procedura in uso per grandi opere di indole enciclopedica e alto costo. Si trattava di un lavoro precario ma a suo modo qualificato. Anch’io fui reclutato come ratealista, cosa che avveniva senza troppe formalità, ma non da parte della Einaudi, che era la capofila in questa strategia. Feci un fallimento disastroso, s’intende, non era la mia strada. E d’altronde non so minimamente se il sistema abbia comportato risultati economicamente apprezzabili né se abbia avuto una durata significativa.
Resta comunque l’attestazione di una idea di editoria non sprovvedutamente priva di preoccupazioni economiche. E appare interessante e persino commovente il tentativo di parcellizzare se non democratizzare le modalità della contrattazione con il ricorso a una sorta di non libreria, come il luogo di un incontro informale al minuto fra domanda e offerta. Personalmente, il primo contatto con una editoria culturalmente nobile mi avvenne per il tramite di un collega di corso, poi divenuto un amico, che fece abilmente entrare in una casa pressoché sfornita di libri un nugolo di saggi dalla copertina rosso acceso.
Lo sviluppo di una attività editoriale intelligentemente fondata sulla sensibilità per le esigenze e attese di una classe dei colti in via di svecchiamento, e il connesso incremento del prestigio delle aziende più lungimiranti, sono fenomeni legati a circostanze di realtà peculiari, irripetibili, e non durevoli. Impossibile pensarli fuori del clima magico della ricostruzione postbellica, sino al fervore straordinario del cosiddetto miracolo economico.
Non per nulla alla stessa stagione risale un altro evento di grande acculturazione libraria, d’indole tutt’affatto diversa: l’avvento dei tascabili economici, di mole e periodicità standard: in primis la «Universale economica» della Cooperativa del libro popolare, poi acquisita dalla Feltrinelli, e pressoché contemporaneamente la «Biblioteca Universale Rizzoli».
L’obiettivo era di costituire una sorta di gran riserva di testi tradizionalmente considerati meritevoli di figurare tra le letture di ogni cittadino dabbene. L’impresa era ardimentosamente ottimistica, giacché presupponeva la convinzione che i testi canonici della letterarietà premoderna fossero fruibili con profitto, fuori di ogni obbligo didattico, da una larga utenza di vocazione umanistica malcerta.
Presto peraltro il campo del libro tascabile si aprì alle tipologie di prodotto più varie, in base solo a una istanza di vendibilità a basso prezzo. La ripresa del grande filone ottocentesco di divulgazione popolare ebbe un effetto particolarmente efficace con il ricorso alle nuove tecnologie di riproduzione delle immagini; gli si accompagnò il rilancio di un altro genere di commercializzazione a buon mercato, la periodicità a dispense, che portò ai risultati più apprezzati nei «Maestri del colore» dei Fratelli Fabbri.
Nel corso del ventennio dopo la Liberazione si ebbe insomma l’affermazione di una editoria culturale di ricerca che collaborò molto efficacemente alla modernizzazione e al rafforzamento dei ceti intellettuali, in una prospettiva multispecialistica rigorosa ma tenendo fermo un criterio di leggibilità non esoterica. Nello stesso tempo ebbe sviluppo una editoria di divulgazione culturale, dedita alla offerta di testi di utilità affidabile, godibili da una larga cerchia di lettori non impreparati ma non sofisticati. Le due direttrici avevano peraltro un piano di convergenza: mediare la separatezza oppositiva tra la categoria ristretta dei detentori del sapere e l’arretratezza ingenua della maggioranza della popolazione.
Questa doppia linea di sviluppo delle attività librarie si inseriva pienamente nella dinamica a largo respiro che investiva le strutture di fondo della vita di relazione nella civiltà italiana postbellica. Si potrebbe forse addirittura parlare di una sorta di boom culturale, per indicare lo slancio di un processo di modernizzazione che compensava la tardività con l’ampiezza.
Il processo di acculturazione nazionale secondonovecentesco non può non essere rapportato al cardine di due eventi epocali. Il primo concerne la riforma dell’insegnamento scolastico medio, non priva di limiti ma razionale: con il conseguente incremento sensibile delle file degli alfabetizzati, disponibili alle operazioni di base della lettura. Il secondo avvenimento fu l’avvento del mezzo televisivo, anno 1954, che fornì un linguaggio d’uso comune per l’informazione e l’intrattenimento, d’indole poco aggraziata ma dichiaratamente anticlassista.
A questi due fattori di svolta storica ne deve essere affiancato un terzo, che riguarda specificamente i testi a stampa: l’entrata del libro in edicola, col titolo «Oscar», marca Mondadori, anno 1965. Questo fatto, di indole così chiaramente economica, ha una implicazione culturale forte, in quanto attua una sorta di laicizzazione dell’oggetto libro, che senza rinunciar alla devozione cultuale degli intenditori viene messo a disposizione di una larga clientela formata da gente dei più vari livelli di esperienza e competenza. E proprio qui può esser collocato, almeno emblematicamente, un passaggio decisivo nello sviluppo avvenire della cultura libraria, con un aspetto conturbante.
La meta storica cui la collettività dei colti tende a guardare cambia, anzi si inverte: non è più la diffusione universalistica dei beni librari, in quanto dotati di un valore cui l’attività di lettura riconosce il merito di incivilire chiunque ne venga in possesso. No, ora il problema diventa quello di condurre una battaglia difensiva in prò dei veri libri contro i falsi libri: che saranno per l’appunto quelli dell’intrattenimento, privilegiati a invadere i chioschi delle edicole, nel loro circuito capillarmente ramificato.
Siamo di fronte a un grande paradosso epocale. La premessa è costituita dalla sconfitta dell’analfabetismo e dalla conseguente possibilità di accesso di quote importanti della cittadinanza al mercato della lettura. Il pericolo che viene visto sovrastare la civiltà libraria è indicato nel rischio d’una prevalenza degli interessi e dei gusti della popolazione più numerosa ma meno affinata. L’indice di gradimento di un testo viene fatto valere come sistema di allarme: il successo impone per lo meno diffidenza a chi vede in opposizione antagonistica dati quantitativi e giudizi qualitativi.
I primi «Oscar», che vendono centinaia di migliaia di copie, possono essere culturalmente più che dignitosi: ma a suscitare apprensione è la forma della commercializzazione in sé, con il suo intrinseco anti-elitarismo. Al di là dell’industrializzazione delle strutture editoriali, la discussione investe il principio di vendibilità, cardine della economia di mercato. L’editoria di cultura appare allora portatrice di un progetto ben diverso da quello che l’aveva vista crescere e maturare: diventa il baluardo per la salvaguardia dei canoni di scrittura e lettura più cari alla cerchia dei detentori del gusto, gli specialisti, che rischiano poi di essere in parole povere i laureati o laureandi in Lettere.
Due sono state le ondate di precoce reazione alla massificazione delle forme di produzione, distribuzione e fruizione dei testi cartacei: e sono profondamente dissimili tra loro, pur se concordi nell’individuazione dei pericoli da controbattere. La prima riguarda il Gruppo ’63 e tutta l’area dello sperimentalismo neoavanguardistico, orientato a esaltare l’esoterismo della parola sofisticata rispetto alla affabilità dialogica del discorso prosastico, privo di patenti di astrusità laboriosa.
Il senso della rivendicazione di libertarismo espressivo è chiaro: nell’Italia delle cento città e dei cento dialetti stava imponendosi una vulgata duttilmente polimorfa, disponibile a tutte le versioni e gli usi. Un settore della casta dei letterati riluttava ad accettare qualsiasi patto di concittadinanza con gli illetterati, esaltando la solitudine degli idioletti inconfondibili e irripetibili. E una parte dell’editoria più colta e raffinata si mostrò sensibile alle provocazioni snobistiche dello sperimentalismo estremo: con l’auspicio di un rovesciamento degli assetti di mercato, a vantaggio dei testi di leggibilità più ardua. Ma la spavalderia dell’antistituzionalismo oltranzista non poteva compensare la fragilità della impostazione di base. E i neoavanguardisti commisero un errore irrimediabile impostando la loro battaglia centrale sull’antiromanzo, contestando così il modo egemone di elaborazione dell’immaginario nella civiltà moderna.
Ciò d’altronde implicava un attacco frontale alla tipologia di prodotto più pervasiva dell’industria libraria, conferendo ai letteratissimi sperimentalisti un crisma di ribellismo socioeconomico. L’editoria appunto era da considerare un settore particolarmente compromesso nelle manipolazioni etico-estetiche peggiori. Ma questa ambigua avversione all’economia di mercato non ebbe effetti di rilievo significativo.
Altra portata e conseguenze ben più complesse ebbe la contestazione degli ordinamenti della civiltà libraria da parte del movimentismo sessantottesco. A venire messo in discussione qui era il passaggio progressivo dalle strutture editoriali della dimensione artigianale a quelle dell’industria e specialmente della grande industria: con la connessa deriva verso la concentrazione dei capitali e il ricorso a mezzi finanziari estranei al circuito delle attività librarie.
In sostanza, l’apprensione basilare delle masse di giovani e postgiovani entrati in agitazione lungo gli anni settanta era che l’aziendalismo industrialistico inevitabilmente portasse a trattare la merce libro in maniera del tutto analoga a qualsiasi altra merce di normale consumo. Questa preoccupazione assolutamente comprensibile era estremizzata in nome di un ideologismo generosamente irrealistico in cui non c’era alcun posto per la logica della convivenza concorrenziale e l’incremento della diffusione dei beni librari era considerato una sfida per la salute del libro stesso. In questa prospettiva prendeva corpo una diffidenza ostile contro la forma romanzo, in quanto inganno soporifero di massa. Ma al fondo della mentalità sessantottina c’era di più, c’era un rifiuto della ludicità, spinto al limite dell’iconoclastia antiletteraria, di indole moralistica, che colludeva irreparabilmente con la modernità, e non poteva non esserne sconfitto.
Vero è peraltro che proprio questa sorta di corruccio antimondano ebbe il merito di esaltare il criticismo polemico dell’intellettualità sessantottesca, indirizzandone l’attenzione sugli strumenti e metodi di promozione, organizzazione e gestione del consenso, dunque di condizionamento dei comportamenti sociali. Le parole d’ordine della demistificazione e dello smascheramento non potevano non presupporre dei riferimenti d’indagine analitica alle realtà chiamate in causa, sia pure al negativo.
E ciò implicava una sollecitazione a riconoscere il peso dell’editoria come istituzione funzionalmente fondativa della civiltà moderna. Ecco allora prendere avvio gli studi sulle vicende dell’attività libraria, in Italia e fuori. L’autocoscienza storica e teorica dell’editoria, in altre parole la cultura editoriale, nasce come portato e contrariis dalla contestazione antieditoriale, supportata autorevolmente, in Italia e nel mondo, dal radicalismo ideologico di matrice francofortese.
Infine, la stessa demonizzazione dell’editoria, o per meglio dire della commercializzazione del libro, lasciava pure aperto uno spazio per l’idolizzazione di una editoria senza mercato: cioè senza problemi di incrocio tra domanda e offerta di beni librari. A essa poteva ben competere il nome di editoria di cultura. Un mito, ovviamente. Ma i miti, proprio riconoscerli come tali è la condizione che permette di continuar a giostrarseli per intervenire sulla realtà e plasmarla e purificarla.