I romanzieri italiani di ultima generazione si sono scoperti molto «romanzeschi»: raccontano storie di uomini comuni versatili, costruiscono intrecci ampi e pieni di colpi di scena degni di un romanzo popolare e, soprattutto, sono in grado di intercettare le emozioni più profonde del lettore e di commuoverlo senza melensaggini. Federica Manzon e Paolo Giordano, Silvia Avallone e Alessandro Mari hanno insomma inaugurato una nuova stagione della narrativa italiana.
Oggi come oggi, i romanzi più interessanti degli scrittori di nuova generazione sono molto romanzeschi: cioè si tratta di narrazioni di tipo modernamente avventuroso, impostate con ricchezza di colpi di scena, giochi di coincidenze sorprendenti, trovate effettistiche. Sono libri in linea con lo spirito dei tempi: siamo in epoca di precarietà e provvisorietà: la letteratura giovanile reinventa la vita nel suo flusso imprevedibile e senza meta.
Si capisce allora che queste narrazioni, quanto più sono accidentate, tanto più riescano emozionanti. Il punto forte di svolta epocale sta proprio nel rilancio delle tecniche di coinvolgimento del lettore negli stati d’animo vissuti dai personaggi, di esultanza o di sgomento, eccitazione o tristezza. Prevalentemente giovani, i protagonisti della narrativa più recente ne attraversano di tutti i colori; e sollecitano con il loro attivismo l’immedesimazione o la ripulsa da parte del pubblico.
Siamo agli antipodi delle figure tipiche della letteratura novecentesca, eroi del dubbio, dell’indecisione, dell’inettitudine. E in atto un recupero vistoso dell’orchestrazione melodrammatica delle vicende romanzesche, che fece la forza e la fortuna dei classici della narrativa europea ottocentesca: tranne l’Italia, per via del micidiale elitismo di gran parte della nostra cultura letteraria. Prima dell’unificazione nazionale, solo Manzoni e Nievo hanno giostrato agilmente con degli intrecci di peripezie avventurose al limite fra credibile e incredibile, come facevano Scott e Dickens e Sue e Balzac e tanti altri. E anche dopo l’Unità, la prosa di romanzo ebbe vita più stentata, da noi, meno fertile di invenzioni estrose che altrove.
Nella stagione attuale succede invece che un libro importante, Acciaio, di Silvia Avallone, si apra subito con una scena di forte presa spettacolare: un padre di famiglia operaia, ottuso e brutale, guarda con occhio avido dalla finestra della cucina la figlia quattordicenne che gioca seminuda in spiaggia con gli amici. Nella Solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano, l’esordio è affidato ai due terribili incidenti che devastano la vita di entrambi i piccoli protagonisti, maschio e femmina. Mentre al bell’inizio di Troppo umana speranza di Alessandro Mari campeggia l’immagine del ragazzetto Colombino detto «il menamerda» che conduce per le stradette della campagna lombarda il carro del letame, col fido muletto Astolfo. Quanto a Di fama e di sventura, di Federica Manzon, comincia con il colpo di rivoltella del suicidio di un bel marinaio, davanti agli occhi della figlia decenne.
Siamo sempre a un livello di piccola gente. Ma la curiosità del lettore viene sollecitata con forza. Poi, a tener sveglia l’attenzione provvede uno sgomitolio di fatti e fattacci à sensation. si va dalle sfide spericolate al buon senso alle trovate più spudoratamente risapute. Nel libro della Manzon il nodo centrale dell’intreccio si presenta quando il protagonista ruba la ragazza al suo miglior amico. Il Colombino di Mari invece scarpina fino a Roma per ottenere l’intercessione di papa Pio IX al suo desiderio di congiungersi con una contadinella benestante.
Sono per lo più storie d’amore, quelle raccontate dai giovani narratori: amori giusti o sbagliati, vincenti o sconfitti, come sempre capita al mondo: ma l’essenziale è che le peripezie sentimentali aprono le escursioni più larghe nell’universo sociale, dagli strati infimi ai livelli più elevati: proprio come succedeva nei romanzi d’appendice di una volta, che davano un respiro di totalità ai loro affreschi. E la struttura narrativa si diversifica, procedendo a zig-zag e trascolorando da uno sfondo ambientale all’altro.
Il linguaggio propriamente romanzesco esclude che lo stile possa mai avere il carattere alto-sublime riservato dalla retorica classica alla raffigurazione delle passioni di personaggi d’una levatura superiore all’umanità media e comune. No, qui siamo davanti a gente qualsiasi, i cui patemi chiedono di essere rappresentati con energia icastica ma senza gli accenti nobilitanti della solenne scrittura tragica.
Nel mondo moderno l’intensità delle emozioni può venire enfatizzata drammaticamente, anzi melodrammaticamente, ma restando sul piano della effusione sentimentale, colloquialmente. Le passioni si sono fatte meno fatali e più struggenti, quindi più commoventi. E la commozione implica un senso di affratellamento, che accomuna partecipativamente il lettore agli affanni del personaggio narrato. Qui si pone la grande questione della mozione degli affetti.
Se la materia privilegiata della narrativa romanzesca è costituita dalle emozioni sentimentali generate dalle esperienze concrete di vita, ciò ovviamente non significa che tutti i moti emotivi siano eticamente apprezzabili: cioè siano tali da suscitare commozione e contrizione nella buona coscienza dei lettori. Invece nell’opinione pubblica del regime di civiltà contemporaneo è prevalsa correntemente l’idea che i sentimenti vadano sempre e comunque intesi come buoni sentimenti; e che il sentimentalismo vada identificato con il buonismo, ossia una forma di mistificazione consolatoria, a truffa dell’ingenuità dei lettori.
Nel corso del secondo Novecento i libri commoventi sono stati demonizzati spietatamente. Basti ricordare un episodio emblematico, la micidiale presa in giro del Cuore deamicisiano compiuta da Umberto Eco col suo Elogio di Franti. Si trattava di una reazione più che comprensibile alle tendenze al piagnisteo facile che avevano inondato l’Italia nella prima metà del secolo, a contraltare innocuo del tronfio virilismo fascisteggiante. Dopo la fine della guerra gli appelli alla commozione e i cedimenti alle lagrime sono stati a lungo considerati alla stregua di malefatte ipocrite, e come tali combattuti, per lasciare campo alle pulsioni incontrollate dell’io profondo o alla perfida logica del cinismo.
Però nel 1974, parlando del romanzo più discusso della grande Elsa Morante, che di sentimentalità è profuso, Italo Calvino uscì con una affermazione controcorrente: la commozione è un «ingrediente necessario» di una «proposta di romanzo popolare d’oggi». E a chiarimento: «La vera riuscita sarebbe quella di chi sapesse affrontare l’insieme di procedimenti e di effetti di tecnica letteraria della commozione, e cercare di capire cosa sono, cosa significano, come funzionano, perché comunicano qualcosa che molti lettori credono di riconoscere. A una chiara coscienza tecnica di questi procedimenti letterari forse potrebbe corrispondere un nuovo uso del pathos come pedagogia morale non mistificante». Quale modello supremo cui guardare, nell’Ottocento, Calvino indicava il Victor Hugo dei Miserabili.
Si può anche restare sconcertati di fronte a una presa di posizione simile da parte di uno scrittore celebre per l’asciuttezza limpida della sua prosa, oltre che per l’assenza di finalità edificanti. Eppure, in lui permaneva un riconoscimento dell’importanza di una narrativa in grado di «far piangere», come metodo irrinunciabile di espansione e maturazione della forma romanzo. Ma per valutare l’interesse attuale dell’indicazione calviniana, bisogna naturalmente ricordare che il sentimento della commozione può essere attivo o passivo.
Se si risolve in uno stato di inerzia sgomenta, di triste pietismo rassegnato, allora è un inganno o un autoinganno, un modo per evitare una assunzione di responsabilità di fronte agli accidenti che non ci riguardano direttamente. Ma se è un empito di energia fattiva, se induce a partecipare alle difficoltà altrui, non a piangersi addosso, questa è una forma di socializzazione solidaristica, da riconoscere e accettare senza perplessità.
Gli appelli alla sensibilità del lettore, o in altre parole la retorica della commozione, vanno valutati a seconda degli effetti che sono destinati a produrre, e che possono essere quietistici o energetici. Resta solo da aggiungere che un effetto diseducativo, come Calvino lo paventava, può derivare non solo dal contenuto di asocialità untuosa del buonismo autoriale ma dalle forme di arroganza sussiegosa, di superiorità autoritaria adottate nel rivolgersi a un pubblico considerato alla stregua di una folla amorfa, votata alla subalternità più supina. Il guaio è che la retorica sentimentalistica si presta agevolmente a essere usata in modo prevaricatorio, tale da eccitare a oltranza le emozioni indotte dalla lettura. Così si scivola sul piano di una sorta di demagogia letteraria, come accadeva nei melodrammi strappalacrime della narrativa rosacea.
Ma nella giovane narrativa di questi anni è rassicurante notare come al rifiuto delle melensaggini spudoratamente struggenti si accompagni l’assenza degli atteggiamenti di sovreccitazione predicatoria. Nei primi anni duemila il ritorno a una gran voglia di romanzare le emozioni affettive avviene sotto il segno di una maturità mentale e nitidezza espressiva decisamente postnovecentesche.