Crisi o no, i supplementi culturali pullulano, più vivaci e corpulenti che mai. Ogni settimana riversano sui lettori dei quotidiani centinaia di recensioni, notizie, pro-poste, approfondimenti, immagini, interviste, classifiche. Il prestigio del marchio non è l’unica risorsa che sinora ha consentito di tenere a bada la concorrenza della rete. Ma su questo versante i nodi da sciogliere non mancano.
Molta carta è passata sotto le rotative da quando Alberto Arbasino, sulle colonne del «Giorno», ironizzava sulle tre «E» che a suo parere infestavano la «palude» della terza pagina: l’Evasivo, l’Edificante e l’Esotico. Erano i primi anni sessanta. La morte definitiva della «terza» sarebbe arrivata nel 1992, quando Paolo Mieli ne abolì l’incarnazione più celebre, accostando sul «Corriere della Sera» la cultura alla pagina degli spettacoli.
Nel ventennio successivo la progressiva assimilazione dei quotidiani ai settimanali (se non ai mensili), accelerata dall’avvento della rete, ha determinato ulteriori metamorfosi. In Italia come all’estero, i supplementi acclusi in prossimità del week-end alle testate giocano in queste dinamiche un ruolo sempre più importante, sino ad assumere caratteri e funzioni un tempo riservati a periodici settoriali, nel frattempo progressivamente marginalizzati, in ambito cartaceo. Presupposto necessario all’evoluzione è il vistoso aumento della capienza, che ha portato per esempio la «Domenica» del «Sole 24 Ore» dalle quattro pagine con cui esordì nel 1983 alle trentasei del formato tabloid, prima di tornare alle ventiquattro attuali in versione broadsheet. Non si tratta di una eccezione, come si comprende osservando la tabella sottostante (che non ambisce alla completezza e deve necessariamente astrarre da situazioni particolari).
Principali supplementi culturali italiani
Al di là delle esigenze pubblicitarie, l’aumento delle dimensioni viene incontro alla necessità di far fronte a una diversificazione sempre più complessa degli interessi, che ha imposto un’idea di consumo intellettuale allargata, vigile su discipline non canonizzate in ambito scolastico. Lo dimostra bene il caso di «tuttoLibri», trasformato nel 1999 in «ttL – tuttoLibri-tempoLibero», con aumento della foliazione da otto a dodici pagine, e nascita di svariate rubriche (dal 2006 è stato recuperato il vecchio nome, senza per questo rinunciare alla molteplicità disciplinare). Beninteso, a musica, turismo, cucina, giardinaggio è riservato un ruolo ancillare, salvo rare eccezioni. Le regine dei fornelli potranno ben spadroneggiare sugli scaffali dei supermercati: brave. Qualche pezzo di costume è il massimo cui possono ambire sui supplementi.
Non che le mode in questi paraggi non abbiano corso, naturalmente. Ma il loro vento spira a latitudini più canoniche: anni fa la storia, poi la scienza, da qualche tempo le connessioni tra parola e immagine. Queste ultime, non a caso, costituiscono la spina dorsale del nuovo supplemento proposto dal «Corriere della Sera». La copertina affidata ad artisti di grido; l’enfasi su mappe, schemi e visual data, il rilievo conferito ad arte, fotografia, architettura, design, nella sezione Sguardi; la presenza sistematica di due pagine riservate ai fumetti sono gli aspetti più appariscenti di un’impostazione che riprende l’atout dello storico mensile illustrato di via Solferino, da cui «la Lettura» trae il nome.
L’alone di prestigio e rispettabilità che circonda il marchio, com’è ovvio, rappresenta uno dei punti di forza dei supplementi culturali, rispetto alla concorrenza della rete nel campo dell’informazione culturale. Che poi si tratti di un vantaggio dissipato, che l’abbraccio mortale di marchette e «sinergie» troppo spesso soffochi la fiducia del lettore, è una constatazione su cui non occorre insistere in questa sede. Piuttosto vale la pena di sottolineare un altro punto di forza, non sempre sfruttato a dovere. Navigando su Internet, infatti, viene facile accorgersi di una tendenziale polarizzazione di blog e siti culturali, divisi tra iperspecialismo iniziatico e fai-da-te onnivoro. Troppo facile, troppo difficile. Questa divaricazione lascia ai supplementi un vasto spazio per incunearsi. A loro favore gioca inoltre la bassa durata dell’attenzione che caratterizza la lettura online, dove pure capita ancora di imbattersi in post di lunghezza spropositata. Molto più efficace la contaminazione reciproca, che ha portato sulle pagine dei supplementi una selva di rimandi, box, frasi fulminee e affini. Ciò, peraltro, non ha comportato l’eclisse delle «lenzuolate», in grande rigoglio a dispetto dei profeti di sventura, convinti che non vi sia più spazio per proporre riflessioni e progetti culturali articolati.
Alla varietà tematica, dunque, si accoppia una crescente varietà delle tipologie testuali. Indebolito ma non ancora sconfitto, resiste tuttavia un paradosso atavico del giornalismo – non solo culturale – italiano. Da un lato la missione naturale della testata (di cui il supplemento è, verrebbe da dire, una sublimazione) sta nella capacità di penetrare in fasce sempre più ampie di pubblico. Dall’altro la vis divulgativa è fiaccata dal persistere del sillogismo in base al quale, se un libro spopola, per ciò stesso sarà mediocre. Fatte salve le ricognizioni di taglio sociologico, pezzi seri sulle ultime uscite di Marcello Simoni, Lauren Kate, o – perché no – Antonellina e Benedetta, si contano sulle dita di una mano. «Ho diritto a una vera recensione» protestava Baricco anni fa. Mica solo lui. Ostracizzare le opere, o vogliamo dire i prodotti che, piaccia o no, generano il maggior investimento emozionale, a volte un interesse persino morboso, significa semplicemente chiudere la porta in faccia ai fruitori che più avrebbero bisogno di una bussola. Certo, non si tratta di essere compiacenti, o peggio spocchiosi. Il successo strabiliante dei pezzi di Antonio D’Orrico in questa chiave ha molto da insegnare. Forse Ligabue non sarà proprio il «Carver italiano», ma di sicuro con le sue pagelle D’Orrico è tra i pochi in grado di coinvolgere la «polpa» vera dei lettori italiani, senza rinunciare all’allegra perfidia che per esempio gli fa paragonare la prosa di Fabio Volo a quella di Margaret Mazzantini o Erri De Luca («Preferirei Volo»).
Per carità, liberissimi tutti di buttare a mare simili quisquilie. Intanto però il discorso su libri e libroidi di successo non cade affatto, ma scivola in altre parti del giornale, o subisce un trattamento spettacolarizzante ormai standard da parte di improvvisati bee-jay (book-jockey, la definizione è di Tiziano Scarpa). Al riguardo, le medesime modalità accomunano libri, cinema, musica. Si va dal comunicato stampa passato tale quale all’anticipazione in esclusiva, per finire con una pioggia di interviste riverenti, in cui Zizek può alternarsi ai comici di Zelig (l’esempio non è inventato: proviene dalle pagine domenicali della «Repubblica», che rappresentano il miglior esempio italiano di questo fenomeno).
C’è poi la questione delle classifiche di vendita, sulla quale i supplementi si dividono seccamente tra chi le rifiuta (come il domenicale del «Sole» e «Alias») e chi (come «la Lettura») ne fa un cavallo di battaglia, con tanto di sottocategorie e valutazioni a margine. Molti, comunque, per una sorta di resipiscenza, aggiungono alle graduatorie ufficiali una classifica personale stilata da librai o critici, i quali si fanno un punto d’onore nell’indicare titoli pressoché sconosciuti. Il che da un lato è lodevole, perché sottrae alla penombra opere di norma davvero meritevoli; dall’altro riconferma la frattura insanabile tra mediatori culturali e gusti del pubblico. Da tempo d’altronde Arbasino ironizza sulla dittatura del criterio quantitativo, convinto che a seguirlo sino in fondo si dovrebbe preferire un fast food al ristorante di lusso, un concerto a San Siro ai palchi della Scala. Il presupposto sotteso, di nuovo, è l’allergia alla società di massa: in classifica ci può andare solo la fuffa, i tapini che acquistano best seller si fanno truffare o sono dei poveri di spirito, come quelli che vanno da McDonald’s. Anzi peggio. Perché alcuni di questi ultimi, se il borsellino lo permettesse, si accomoderebbero da Savini.
I lettori plebei, intanto, cercano altrove i sentieri per soddisfare quella loro passionacela che in fin dei conti tiene in piedi la baracca. E non si dirigono certo verso i siti e i blog più noti agli specialisti, dove si registra un’imprevista convergenza con l’accademia, visto che di regola esibiscono un certo sussiego verso le opere di successo e le esigenze di lettura meno raffinate. No, restano piuttosto all’antico passaparola, animano i forum di fan, i social network come aNobii o Goodreads, dove inseriscono e verificano voti, giudizi e commenti, confrontandosi con altri utenti. E un processo inarrestabile, che investe la letteratura di genere (e non solo) come la musica o le trattorie. Sarebbe facile, ma poco lungimirante, ironizzare sugli sfondoni circolanti in questi paraggi, dove prende forma una sorta di democrazia critica diretta, rozza quanto si vuole, ma libera da condizionamenti, ed efficacissima nell’orientare le scelte.
E qui, già oggi, che opera la maggior fucina di successi e fama più o meno usurpati. E proprio qui sta una delle sfide più difficili che attende i supplementi, che finora hanno subito il web come una sorta di appendice facoltativa, occultati in una sottosezione del sito-madre del quotidiano, non sempre facile da reperire e distinguere. Laddove potrebbe invece essere il volano decisivo per innescare una migrazione di lettori inattesi, sfruttando la convergenza dei supporti e la salita in dominante dei tablet. Ci vuol altro, però, che qualche blog distratto, o una scelta di articoli. E ostico creare una community attrattiva chiedendo di effettuare il login anche solo per votare un libro o assegnare il fatidico «Mi piace» a una recensione. Eppure il tragicomico «Commenti: 0» (quando sulle pagine di volonterosi e sconosciuti dilettanti se ne rincorrono centinaia) lampeggiante accanto a firme notissime, a pezzi discussi sino allo sfinimento dagli addetti ai lavori, dovrebbe rappresentare un monito sufficiente.