La gestione dei diritti d’autore in ambiente digitale diviene più complessa a causa della moltiplicazione degli usi, della celerità di riproduzione e distribuzione delle opere. A lungo si è ritenuto che la risposta dovesse essere cercata nella semplificazione, in genere per via legislativa. Numerose vicende dell’anno appena trascorso sembrano indicare una tendenza diversa: riconosciuta la complessità, le stesse tecnologie danno gli strumenti per gestirla.
È possibile trovare un filo conduttore nelle molteplici e variegate vicende occorse nell’ultimo anno attorno al tema della gestione dei diritti d’autore in epoca digitale?
Proviamo a elencare i fatti. Tutti d’un fiato: (1) nel settembre 2011 le associazioni europee di autori, editori, società di gestione collettiva e biblioteche firmano a Bruxelles un Memorandum of Under standing sulla gestione dei diritti per le opere fuori commercio; (2) a ottobre viene lanciato a Francoforte il nuovo servizio nato dall’accordo tra l’associazione degli editori tedeschi e l’americana Copyright Clearance Center (CCC) per la prima localizzazione europea della piattaforma Rightslink; (3) a gennaio 2012, a Milano, le attività di gestione diritti che facevano capo ad AIDRO (per statuto un’associazione di autori e editori) vengono spostate su Ediser, la società di servizi dell’Associazione italiana editori (AIE); (4) a febbraio a Parigi viene approvata una nuova legge sui libri fuori commercio, che rappresenta la prima implementazione del Memorandum europeo; (5) a marzo a Londra viene completata la prima applicazione concreta del sistema Arrow, per la gestione dei diritti nel programma di digitalizzazione promosso da Wellcome Trust; (6) nello stesso mese l’Intellectual Property Office del Regno Unito pubblica i risultati dello studio di fattibilità affidato a Richard Hooper per la creazione di un sistema denominato Digital Copyright Exchange con l’obiettivo di facilitare la gestione dei diritti online; (7) a maggio viene lanciata la Linked Content Coalition, un progetto crossmedia per facilitare la gestione dei diritti nel mondo online; (8) a giugno a Parigi gli editori e gli autori francesi firmano un accordo transattivo con Google che pone fine alla lunga causa che aveva visto la multinazionale americana soccombere in primo grado; (9) a luglio la Commissione europea presenta la prima bozza di direttiva sulla gestione collettiva dei diritti d’autore; (10) tra settembre e ottobre il Parlamento e il Consiglio europeo approvano in via definitiva la Direttiva sulle opere orfane; (11) a ottobre Google e l’associazione degli editori USA (AAP) pongono fine alla notissima causa sul programma Google Books (anche se rimane aperta quella con gli autori).
Impossibile descrivere nel dettaglio ciascuno di questi avvenimenti nello spazio di un singolo articolo. Un filo conduttore è allora necessario, anche perché un simile accumularsi di eventi di non poco conto, non può essere figlio del caso. A mio avviso tale filo sta nella tendenza verso una più analitica gestione della complessità dei diritti in era digitale, abbandonando il tentativo di semplificarla per via giuridica, che è stato tipico degli anni passati.
Partiamo dalla fine. I due accordi tra Google e gli editori americani (fatto 11) e francesi (8) abbandonano l’idea cardine del Google Settlement del 2008: che la varietà di situazioni potesse essere appiattita da un regola (l’opZ out) che fissa condizioni uguali per tutti, immediatamente applicabili, salvo appunto un’opzione d’uscita per quegli autori o editori che non volessero accettarle. Il testo di questi nuovi accordi è riservato, com’è costume di Google che pure continua ad avere l’immagine di paladino della trasparenza. Bisogna quindi prodursi in esercizi di inferenza sulle poche informazioni rese pubbliche, appena meno avare nel caso francese. Su queste basi, sembra di poter dire che ci si sposta su un sistema in cui gli editori (e, per ora solo in Francia, gli autori) scelgono individualmente il destino delle loro opere, e hanno la facoltà di farlo opera per opera, con una gestione dei dati basata sull’impegno di Google di fornire informazioni complete sui libri digitalizzati.
«Opera per opera» e «informazioni complete» sono espressioni che vanno verso la gestione della complessità e che tornano in molte delle altre vicende citate. La prima è un elemento fondamentale della Direttiva sulle opere orfane (10), che esplicitamente dice che la ricerca degli aventi diritto deve avvenire «opera per opera». D’altro canto, è assiomatico: la definizione di opera orfana («è tale quando non si trovano gli aventi diritto») presuppone una ricerca e pare persino superfluo sottolineare che la ricerca va fatta per ciascuna opera, e non un tanto al chilo. Per il nostro discorso, è di particolare interesse che la Direttiva preveda che i risultati delle ricerche in tutti i paesi dell’Unione e le informazioni sugli usi delle opere orfane devono finire in una banca dati unica europea. Di nuovo: ci si pone un problema di gestione delle informazioni sui diritti.
Quando, con un gruppo assai nutrito di editori, società collettive, biblioteche, tecnologi, abbiamo prima concepito, poi progettato e infine realizzato il sistema Arrow, l’idea di fondo era appunto di focalizzare l’attenzione sulla gestione delle informazioni sui diritti come funzione separata da quella di gestione dei diritti. (Mi si perdoni il passaggio alla prima persona: chi scrive ha coordinato Arrow in questi anni e ama usare il plurale a significare i meriti di un lavoro di gruppo europeo che ha coinvolto così tante persone da costringere a un rinvio al sito dove sono elencate, www.arrow-net.eu.)
All’inizio eravamo circondati da un certo scetticismo. «È troppo complicato» ci dicevano in tanti. Meglio una soluzione normativa che semplifichi il quadro. E stato allora motivo di soddisfazione leggere i risultati di uno studio statistico della British Library (Seeking New Landscapes. A Rights Clearance Study in thè Context of Mass Digitisation, a cura di Barbara Stratton, maggio 2011) che mostrava come l’uso di Arrow portava i tempi di ricerca da quattro ore a cinque minuti a titolo. Quando Wellcome Trust ha utilizzato per primo Arrow per il suo progetto di digitalizzazione di libri di genetica (5), operato senza che fossero intervenute modifiche legislative per facilitare la gestione, la soddisfazione è stata ancor maggiore.
Il legame tra queste vicende è ribadito dal fatto che la Direttiva sulle opere orfane cita Arrow come fonte imprescindibile per la ricerca diligente in ambito librario. La Direttiva cita anche, nelle premesse, il Memorandum of Under standing sulle opere fuori commercio (1), che a sua volta nasce – si potrebbe dire – dalle ceneri del Google Settlement, nutrendosi degli errori lì commessi. Il Memorandum riconosce che vi possono essere casi di gestione dei diritti sulle opere fuori commercio che prescindono dal consenso esplicito dell’avente diritto. Ma li circoscrive, e prescrive che comunque alcune forme di ricerca devono essere effettuate, che tutte le informazioni disponibili devono essere utilizzate e rese trasparenti. Rispetto al Google Settlement si punta a gestioni tecnologicamente e concettualmente più sofisticate. Sembra un paradosso, ma uno dei punti deboli più evidenti del Settlement era proprio nella semplificazione tecnica, a dispetto delle indubbie capacità tecnologiche di chi la proponeva. Quando a febbraio 2012 la Francia per prima emana una legge che dà corpo alle idee del Memorandum (4), lo fa con un livello di complessità ancora maggiore, e in fase di implementazione la tendenza è quella di rendere sempre più sofisticato il sistema per rispondere a esigenze diverse di attori diversi, che testardamente rifiutano l’omologazione.
Il primo passaggio che la legge prevede è la creazione di una banca dati, accessibile online, di libri fuori commercio, la cui responsabilità è affidata alla Bibliothèque nationale (Bnf). Il processo è simile a quello della Direttiva: c’è un processo di ricerca (dello status commerciale e degli aventi diritto) dai cui esiti si genera una banca dati. Anche nel caso francese nella fase di ricerca sarà utilizzata l’infrastruttura Arrow. Fin dalle prime fasi di implementazione risulta evidente un ulteriore elemento. Non si tratta solo di creare una banca dati con informazioni sui diritti, è necessario curare lo scambio di tali informazioni tra più soggetti. Una volta che un’opera è identificata come fuori commercio, bisogna fare alcune ricerche degli aventi diritto su fonti diverse: in Electre (il catalogo dei libri francesi in commercio, che ha anche informazioni sugli editori) e nei repertori di CFC e SOFIA, le due società collettive attive nel settore librario francese. Sarà poi SOFIA a gestire i diritti delle opere, avvertire per quanto possibile gli autori e gli editori, che potranno chiamarsi fuori (opt out) offrire i diritti dapprima agli editori che avevano stampato il libro e poi a terze parti, che potranno sfruttare le opere commercializzandole in digitale (opt in). Sono scambi di informazioni che rendono possibile un dialogo tra i molti soggetti coinvolti e che rendono obsoleta l’alternativa secca, tra modelli basati sull’op/ in o sull’op/ out su cui ci si è accapigliati fino allo scorso anno.
D’altro canto, le tecnologie dell’informazione sono efficienti soprattutto nel gestire le informazioni. Il che può valere anche nel campo dei diritti. E questo il punto di partenza di Linked Content Coalition (7). Ciò che finora è mancato, e che LCC intende creare, è un linguaggio che consenta alle macchine di scambiarsi e comprendere informazioni sui diritti. Una licenza d’uso può essere vista come un insieme di informazioni su cui due parti raggiungono un accordo. Il problema tradizionale nella gestione dei diritti secondari è quello dei costi di transazione: gestire queste informazioni e addivenire a un accordo è troppo costoso rispetto al valore della stessa transazione. Da qui la richiesta di semplificare, stabilendo per legge o per «contratto collettivo» con una società di gestione le condizioni della licenza, e gestendo solo la remunerazione. Così, per esempio, se è troppo costoso negoziare i diritti di riproduzione di ciascun brano in una discoteca, sarà possibile farlo pagando per tutti la stessa cifra e alle stesse condizioni.
LCC ritiene che rendere più efficiente la trasmissione delle informazioni sui diritti consente di evitare queste semplificazioni. Tramite una migliore comunicazione, le persone coinvolte potranno esprimere la propria politica sui diritti facilitando così la conclusione di accordi. E significativo che uno dei modelli presi in esame sono le licenze creative commons che devono una parte importante del loro successo proprio alla capacità di esprimere in linguaggio standard i termini della licenza. Rendere più efficiente la comunicazione non significa dunque aumentare i ricavi per gli aventi diritto. Se mai differenziarli maggiormente, nel rispetto della pluralità delle scelte. Uno degli effetti paradossali dei modelli semplificati di licenze, senza ricerca e gestione delle informazioni, proposti per gestire i programmi di digitalizzazione è quello che si finisce per pagare una remunerazione anche a chi sarebbe perfettamente disponibile a cedere gratuitamente i propri diritti, specie quando si tratta di farlo a favore di una biblioteca.
Se LCC – un’iniziativa nata in Europa che sta aggregando operatori di molti paesi – si incarica di costruire un quadro generale standard per lo scambio di informazioni sui diritti, il britannico Digital Copyright Exchange (6) focalizza la sua attenzione sul quadro giuridico e sulle infrastrutture pubbliche che possono favorire questo tipo di evoluzione. Vi si parla di registri, tema controverso nel mondo del diritto d’autore. Di per sé, per esempio, l’esistenza di un registro negli Stati Uniti era stata di nulla utilità nel caso Google. Perché un luogo in cui ci si registra, e basta, non c’entra con quel che stiamo descrivendo. Contiene sì informazioni, che però invecchiano. Come avere un elenco del telefono degli anni ottanta: qualche numero sarà rimasto invariato, ma vale come curiosità. L’utilità pratica è un’altra cosa. Così, nell’approccio dell’ufficio per la proprietà intellettuale nel Regno Unito l’enfasi è sullo scambio, che è concetto dinamico, non sul registro, che è un oggetto statico.
Fin qui stiamo parlando per lo più di infrastrutture, tecnologiche o giuridico-istituzionali, di megaprogetti in procinto di partire. Ma in pratica? C’è qualcosa di più concreto? Come capita spesso, il pragmatico ci viene dagli USA, ma ciò che mi piace sottolineare è la coloritura europea che esso assume grazie all’accordo tra l’americana CCC e l’associazione degli editori tedeschi (2). CCC è una società di gestione collettiva molto atipica per gli standard europei. E un consorzio di editori e non un’associazione di autori e editori, ha natura e mentalità strettamente commerciali e non può godere di una legislazione ad hoc che ne facilita la raccolta dei diritti. E dunque abituata a gestire la complessità. Senza semplificazioni. Raccoglie mandati dagli editori o dagli autori e vende diritti coerenti con quei mandati a utilizzatori di diverso genere. Non sorprende che la piattaforma Rightslink sia nata in questo contesto. Consente di gestire i diritti secondari in modo estremamente personalizzato. Ogni editore può decidere quali diritti gestire (per esempio riproduzioni parziali o totali, analogiche o digitali ecc.), secondo quali politiche (in particolare per le tariffe, che possono essere differenziate, per esempio, per utenti commerciali e no profit), e differenziati opera per opera, quindi anche adattabili ai contratti diversi che si hanno con gli autori. La granularità possibile di queste personalizzazioni fa sì che il sistema richieda agli editori un investimento iniziale, che può non essere giustificato per i più piccoli. La localizzazione in Germania, operata in collaborazione con MVB – la società, di proprietà dell’associazione editori, che gestisce il catalogo dei libri in commercio – si basa su un livello medio di personalizzazione «nazionale». Le variabili sono le stesse per tutti (per esempio si possono fare politiche diverse se i clienti sono aziende commerciali o enti no profit, ma non si può distinguere tra tipologie di aziende commerciali), mentre i parametri (in particolare: quale tariffa si pratica per le diverse categorie) sono fissati individualmente, con la possibilità di determinarli opera per opera.
E a mio avviso significativo che questa esperienza coinvolga direttamente gli editori, tramite la loro associazione, e non la società di gestione collettiva tedesca in questo campo, VG Wort, che pure ha moltissimi iscritti e indubbie capacità di investimento, se si pensa che incassa dai diritti per le fotocopie circa 80 milioni di euro l’anno (per paragone: la SIAE in Italia ne incassa tre). Il problema è probabilmente che VG Wort è abituata a lavorare con il modello di massima semplificazione che esiste, quello delle levy. I diritti di fotocopia, per legge, sono dovuti in Germania al momento dell’acquisto delle macchine (equipment levy) e per il fatto stesso che un operatore esista (operator levy), in modo forfetario e al limite anche indipendente dal fatto che con quella macchina o quell’operatore facciano fotocopie di opere protette. Partendo da questa realtà, era evidentemente difficile passare a una gestione super personalizzata come quella proposta da Rightslink.
Si può leggere alla luce di queste tendenze la proposta di Direttiva della Commissione europea sulle società di gestione (9). L’art. 5 recita: «Rightholders shall have the right to authorise a collecting society of their choice to manage thè rights, categories of rights or types of works […] of their choice, for thè Member States of their choice». Interessante, qui, l’uso del poliptoto. Introdotto certo per ragioni tecnico-giuridiche, acquista un indubbio valore retorico nel nostro discorso. L’espressione «di sua scelta» è la novità vera della proposta. Di fronte a questa impostazione, le società collettive hanno due strade: quella della resistenza in nome della semplificazione («è impossibile una siffatta gestione granulare dei diritti») o quella dell’innovazione, verso modelli più avanzati.
In scala molto ridotta, qualcosa sta accadendo in Italia, dal momento in cui gli editori hanno sciolto AIDRO, la società di gestione costituita in forma di associazione aperta anche alla partecipazione degli autori – che tuttavia ne avevano tradizionalmente poco condiviso il progetto – per affidare la gestione di alcuni diritti, ulteriori a quelli vincolati dalla licenza legale affidata a SIAE, direttamente a Ediser, la società di proprietà dell’AIE (3). L’intenzione è lavorare nella scia che stiamo descrivendo. E iniziato pertanto un dialogo con CCC per ripetere l’esperienza tedesca (2), ma questa collaborazione si è inserita in un nuovo progetto lanciato dalla Linked Content Coalition (7), denominato RDI (Rights Data Integration), nel quale gli sviluppi Ediser-CCC sono visti come un caso applicativo pratico del modello teorico generale. Il nuovo progetto partirà nel 2013. In modo esplicito si pone in continuazione con l’esperienza di Arrow (5) e da questa e altre analoghe vuole costruire meccanismi per lo scambio di informazioni sui diritti, all’interno di ambiti diversi, secondo un modello teorico comune. Il lavoro che in parallelo il gruppo Arrow ha in programma per l’implementazione della legge francese sulle opere fuori commercio (4) costituirà implicitamente un’ulteriore applicazione del medesimo modello teorico.
Si va dunque verso una gestione iperanalitica di ciascun frammento di diritto, grazie alle tecnologie che tutto risolvono? Non vorrei dare questa impressione. La gestione collettiva rimane, anche se su basi nuove. Nei programmi di digitalizzazione è possibile migliorare la ricerca, ma gli orfani resteranno. Ogni registro, banca dati, repertorio informativo è per sua natura imperfetto e il lavoro umano di controllo rimane necessario. Nella gestione dei fuori commercio, una semplificazione nei modi di raggiungimento del consenso è assai utile. E così via.
Si tratta solo di usare le tecnologie per quel che meglio sanno fare: gestire le informazioni, comunicare. Non sarà per caso che si chiamano «dell’informazione e della comunicazione». Pur con la consapevolezza della loro imperfezione, e anzi sapendo di dover interagire con essa, le tecnologie consentono alle persone di scambiarsi più informazioni e, se lo desiderano, di dialogare, possibilmente di trovare degli accordi. La cosa non funziona sempre, e quindi qualche semplificazione, anche normativa, continuerà a essere necessaria. Ma sta finendo il tempo delle ipersemplificazioni. Dobbiamo ricercare un nuovo equilibrio tenendo a mente l’ammonimento di Albert Einstein: «Make things as simple as possible, but not simpler».