È ormai un decennio che Giorgio Faletti scorrazza nel campo letterario italiano e internazionale con i suoi romanzi e i suoi racconti. Quale formula ha reso vincenti le sue proposte? E soprattutto: la sua cospicua produzione si è mossa sempre entro le coordinate che ne hanno segnato l’esordio nel 2002, o ha forzato i confini del thriller, rispondendo anche a urgenze diverse? Se affrontata in questa prospettiva, una lettura ad ampio raggio delle coinvolgenti opere falettiane può riservare qualche sorpresa. E la prima, a ben guardare, è che Faletti non ha scritto soltanto di delitti.
Rally, cabaret e conduzioni televisive, colonne sonore e canzoni (sia in veste di paroliere che di interprete), teatro e cinema (da attore, doppiatore e sceneggiatore): di tutto questo, e non solo, si è occupato nel corso della sua carriera il poco più che sessantenne Giorgio Faletti. Con sorpresa dei più e soddisfazione di molti, dai primi anni duemila, senza abbandonare gli spettacoli musicali e cinematografici, Faletti è diventato anche un autore di romanzi e racconti (unico precedente, datato 1994, le spassose narrazioni dedicate al suo più celebre personaggio comico, Vito Catozzo). Varietà e prolificità sono una costante del lavoro falettiano, e non fa eccezione lo scrittore, che in dieci anni ha dato alle stampe sei romanzi (tranne l’ultimo, tutti oltre le quattrocento pagine) e un consistente volume di sette racconti, tre dei quali collocati sul limite incerto con il romanzo breve. Sono libri che hanno goduto di un successo formidabile: i primi tre hanno venduto nel complesso dieci milioni di copie e i successivi si sono attestati su cifre non troppo dissimili.
Faletti si è guadagnato questa popolarità a forza di trovate clamorose e intricate narrazioni abilmente condotte a esiti di non così facile prevedibilità. È forte la tentazione di immaginarlo mettere a punto i suoi soggetti in una grande stanza vuota, sparsi ovunque i fogli con i nomi dei personaggi, i principali avvenimenti fittamente connessi da frecce e molteplici altri segnali, a generare un insieme in cui le pirotecniche necessità del plot si impongono sulla verosimiglianza. Ovviamente le convenzioni di genere rendono ammissibili le più svariate curvature del reale, e certo il lettore di Faletti non si aspetta un mondo del tutto aderente ai dati dell’esperienza. Ma è vero che qua e là in quelle migliaia di pagine la sospensione dell’incredulità si avvicina al punto di rottura, come in certe pellicole e serie televisive di importazione americana che mettono in scena un mondo realisticamente inteso, salvo poi escogitare, in nome dell’intrattenimento strabiliante, ogni sorta di effrazione al verosimile.
Oltre alla suspense, alle procedure massimamente elaborate con cui sono consumati gli omicidi e al sommarsi di situazioni più o meno bizzarre (ci imbattiamo, tra l’altro, in un bambino figlio di un incesto, in una donna dalla bellezza sbalorditiva che in realtà è uomo, in un evirato che gestisce un giro di prostituzione), oltre a tutto ciò, sorreggono lo show falettiano quelle che potremmo chiamare – forzandone appena il significato consueto – agnizioni: non si contano i momenti in cui fili lontani e diversi dell’ingarbugliata trama vengono improvvisamente, e incredibilmente, a intrecciarsi per via di mutamenti di identità e impensate coincidenze. In Niente di vero tranne gli occhi (2004) un medico salva un paziente che, una volta guarito e tornato a fare il proprio mestiere di poliziotto, lo riconosce come l’autore di tre omicidi; in Fuori da un evidente destino (2006) il protagonista si rivela infine l’involontario responsabile della sanguinosa vendetta su cui sta indagando; e in due occasioni il principale collaboratore dei detective risulta essere l’assassino, la cui individuazione avviene soltanto con lo smascheramento dell’identità che ha furtivamente acquisito: quella di un deejay di Radio Montecarlo in Io uccido (2002) e addirittura quella di un sacerdote in Io sono Dio (2009).
Insomma, Faletti si è speso non poco, soprattutto in questi primi quattro libri, per spingere gli avvenimenti lontano da qualsivoglia quotidianità mediocre o media. E lo ha fatto anche optando per ambientazioni internazionali (Montecarlo, ma soprattutto gli Stati Uniti) e la creazione di personaggi appartenenti al jet set cosmopolita: da fuoriclasse di sport d’élite (la Formula 1 e gli scacchi) ad artisti di grande fama (cantanti e pittori), dal sindaco di New York a ricchi uomini d’affari della provincia americana, da avvocati di grido a pezzi grossi dell’esercito, e sullo sfondo la Casa Bianca e i regnanti monegaschi. Sono quasi tutti dei vincenti i personaggi di Faletti, sia che si trovino nel ruolo della vittima sia che si rivelino killer sanguinari. Per essere un personaggio non secondario di queste avventure, chi non appartiene alle classi economicamente e socialmente privilegiate – come alcuni degli investigatori – deve possedere specialissime abilità professionali e umane. Identico discorso vale per i collaboratori esterni e più o meno ufficiosi delle divisioni di polizia di volta in volta chiamate a indagare, che non riescono mai a portare a termine il proprio compito in modo autonomo: il caso estremo è in Fuori da un evidente destino, dove il poliziotto titolare dell’inchiesta di fatto non svolge alcun ruolo, sopraffatto com’è da una squadra composta da uno sciamano, un pilota di elicotteri, una giornalista e un cane.
Anche se così ingegnosi e frenetici, con il loro cosmopolitismo da cartolina e la loro spettacolarizzazione alquanto plastificata, anche se così devoti, agli inizi soprattutto, all’hard boiled statunitense, i romanzi di Faletti si presentano alla lettura con i caratteri di un’onesta e a tratti ingenua artigianalità. Pur tra le maglie di una scrittura a sua volta non libera da affettazioni – come le frasi a effetto, che spesso riescono in scontate frasi fatte –, il lettore si trova a fine libro con la sensazione che la violenza degli omicidi, le corse in auto, le indagini, le agnizioni improbabili e tutto il corollario scenografico da grande industria dell’intrattenimento non contraddicano e non sovrastino la voce narrante così affabile, cordiale e in qualche modo persino fraterna. Nei primi libri il narratore è sì extradiegetico, impersonale e obiettivo, ma insieme è loquace e incline a dilungarsi in descrizioni e commenti, supportati da una schietta verve aforistico-moraleggiante. Pare questa la ricetta vincente del principale importatore e interprete italiano del genere thriller-poliziesco nei primi anni duemila: un mix, solo esteriormente paradossale, di franca umanità ed esibizione spettacolare.
Su quest’ultimo versante, quello sensazionalista, la formula fin qui descritta ha mostrato via via segni di logoramento. A esclusione del libro d’esordio, Faletti ha architettato varie sortite nel paranormale: prima mettendo in scena un mistero medico insoluto al limite dell’umano (Niente di vero tranne gli occhi), poi ricorrendo alla stregoneria indiana (Fuori da un evidente destino), per approdare infine al cristianesimo e a suoi sacerdoti (Io sono Dio). Sarebbe stato arduo proseguire su una simile strada. Forse anche per questo il Faletti più recente ha scoperto una sorta di medietas fatta di emozioni e introspezione: si potrebbe in quest’ottica parlare di un secondo Faletti, annunciato dai racconti del 2008, già ben distinguibile in Appunti di un venditore di donne (2010) e ormai del tutto affermatosi nell’excursus einaudiano di Tre atti e due tempi (2011).
A ben guardare gli Appunti possono venire letti come un romanzo sull’amicizia o meglio sugli inganni dell’amicizia: quella del protagonista, soprannominato Bravo, con il falso brigatista e falso cieco Lucio (davvero troppo facile il gioco di parole) e con i sodali del cabaret Ascot (dietro cui si nasconde il Derby), con in testa quel furfante da due soldi che è il Daytona. Non è un caso che il libro si apra mostrando il gruppo di amici riuniti in una delle loro notti di gioco d’azzardo e cocaina. Ma Appunti di un venditore di donne è anche un romanzo sull’amore e persino un romanzo d’amore: quello del protagonista e di Carla, che insieme percorrono una vera e propria parabola sentimentale. Nei libri precedenti le immancabili faccende di cuore acquistavano spazio e rilevanza solo nel finale, giusto in tempo perché il sipario, sia pure con sagaci varianti e attenuazioni, calasse sugli innamorati che idealmente si allontanavano oltre l’orizzonte. Qui, invece, il rapporto amoroso è uno dei capisaldi dell’intera narrazione. Non poco per un (ex) autore di thriller.
Nella prova del 2010 rimane comunque alto il coefficiente di spettacolarizzazione: basti dire che il rapporto frustrato tra il desiderio fisico e il suo compimento si incarna, letteralmente, in un evirato, e anche qui non manca una clamorosa agnizione finale. Ma nel bilancio complessivo conta molto di più l’abbandono del consueto schema che prevede un killer folle e geniale, una serie di feroci omicidi e l’esito positivo dell’indagine, nonché il venir meno delle ambientazioni internazionali e l’esaurirsi del monopolio da parte della classe dominante nel sistema dei personaggi. Il setting è milanese, e il background è periferico e proletario, anzi sottoproletario, con frequentissime puntate nel sottobosco urbano della malavita più o meno organizzata. Il protagonista – almeno fino alla scoperta delle sue reali origini – si colloca programmaticamente al margine della vita sociale, affetto com’è da una specie di sindrome di non-protagonismo e intento a ripetere ossessive dichiarazioni di anonimato: «Io da sempre sono lo spettatore che vede e si fa gli affari suoi». Tutto ciò si lega a un aspetto primario della rinnovata produzione di Faletti: la rinuncia al narratore esterno a favore di quello intradiegetico, che fornisce definitiva sostanza allo spessore umano – prima soltanto intermittente – della voce narrante, permette la discesa verso l’humilitas di un punto di vista oscuramente individuale e alimenta la carica introspettivo-sentimentale da cui ora le vicende sono percorse.
L’ultimo libro, Tre atti e due tempi, conferma e accresce queste novità. Già la mole del volume, circa un terzo dei precedenti, rivela l’assottigliamento dell’intreccio. La migrazione dal jet set internazionale alla media italianità, ben rappresentata dal gioco del calcio, si compie nel passaggio da Milano a un’anonima cittadina dell’hinterland settentrionale. Ed è significativo che il campionato che fa da sfondo alla vicenda sia quello di serie B, mentre prima ci saremmo trovati di fronte per lo meno la Champions League. Non c’è più traccia di omicidi e indagini, con buona pace dell’editore, che tramite il disegno di copertina ha evidentemente cercato di proporre il romanzo come l’ennesimo thriller falettiano. Qui, invece, la tensione, che pure non manca, è generata senza ricorrere a efferati delitti e diluvi di sangue, e senza premere a fondo il pedale dell’enfasi sul piano della scrittura. Ora al centro dell’interesse, insieme alla semplice vita di provincia e al mondo limaccioso dello sport professionistico, sta la relazione tra un padre e un figlio: prima l’uno, poi l’altro – e quest’ultimo anche per via della lezione ricevuta dal genitore – invischiati in faccende di scommesse illegali. È questo legame conflittuale il fulcro del libro. Persino l’artificio prediletto da Faletti, l’agnizione subitanea e impensata, fa capolino solo nell’ultima pagina, a romanzo ormai quasi chiuso, quando il plot non può più giovarsene: come a volerne sfoggiare l’avvenuto disinnesco e prenderne congedo.
Dunque, ridimensionate le fantasmagorie del reticolo narrativo, viene concesso molto più spazio all’attualità, nonché al passato recente: negli Appunti il contesto è quello degli anni di piombo e del rapimento Moro (ma, sia detto di sfuggita, il ritratto delle Brigate Rosse presentato da Faletti non potrebbe essere più sbrigativo e stereotipato). In questi libri la storia e la cronaca sono diventate imprescindibili scenografie costantemente sotto gli occhi del lettore. Al contrario, in precedenza si manifestavano soltanto sotto forma di riferimenti estemporanei – frequenti quelli alle Torri Gemelle – o di presupposti funzionali appena a far muovere la trama – era il caso dello sterminio dei pellerossa e della guerra in Vietnam -, senza cioè costituire il presente della narrazione, che invece si svolgeva in una generica contemporaneità.
Ma Faletti è sempre Faletti. E non mancano profonde congruenze all’interno del suo percorso letterario, a partire da quelle legate alla visione del mondo che soggiace ai suoi romanzi. Si è detto della presenza invasiva delle classi alte: la principale invariante nella loro raffigurazione è data dalla condanna di cui è fatto oggetto chi, a ogni livello, muove le leve del potere politico economico e militare. Gli esponenti della grande borghesia statunitense non hanno alcuno scrupolo a farsi strada con sotterfugi e violenze, e lo stesso vale, in Tre atti e due tempi, per il presidente di una squadra di calcio di provincia, che trucca una partita affinché i suoi ragazzi perdano, e lui possa vincere una proficua scommessa. E sintomatico che in Io uccido il criminale più infame sia un incestuoso generale dell’esercito, stretto collaboratore della Casa Bianca. Due suoi degni eredi li troviamo in Io sono Dio: un altro gerarca militare, che svela un segreto di stato all’uomo d’affari con cui è colluso, e uno sceriffo, che fa condannare un innocente per favorire il politico corrotto che controlla la contea. Di esempi simili ogni suo libro è ben fornito. Da qui alla stigmatizzazione dei crimini compiuti dagli ufficiali americani nel corso della guerra in Vietnam – per non parlare di quelli perpetrati oltre un secolo prima contro gli indiani d’America – il passo è breve. Identico è il discorso per gli uomini politici, che antepongono la carriera a ogni altra cosa: in Niente di vero tranne gli occhi il sindaco di New York fa condannare suo fratello per un omicidio colposo di cui invece è lui il responsabile. Resta tuttavia il fatto che le critiche di Faletti sono sì pervicaci e sistematiche, ma non strutturali: non viene cioè messo in discussione il sistema di potere nella sua sostanza, ma soltanto le mani in cui di volta in volta può finire. La figura del presidente statunitense ricavabile da una telefonata con cui, in Io sono Dio, ringrazia l’investigatrice che ha risolto un caso spinoso è quella di una divinità affabile che cala dalle vette della propria magnanimità a rendere giustizia alle doti di una comune mortale.
Un’ulteriore sotterranea costante del lavoro di Faletti è il rapporto tra padri e figli, sempre disastroso per responsabilità dei primi: oltre che negli scommettitori protagonisti di Tre atti e due tempi, ci imbattiamo in un ricco politico che paga il migliore amico di suo figlio affinché soffi a quest’ultimo la ragazza (Fuori da un evidente destino) e in un senatore siciliano che lascia evirare il suo primogenito pur di non opporsi al capo mafia in grado di frenargli la carriera (Appunti di un venditore di donne). Non sorprende allora che già nel primo romanzo, Io uccido, all’origine del comportamento del più sanguinario assassino falettiano ci sia un padre ossessivo e dispotico, già alto comandante dei servizi segreti francesi. Insomma, a Faletti poco importa che si tratti della subdola iniquità delle sfere militari e politiche o, peggio, della perversa autorità dei padri: in ogni caso la sua rappresentazione del potere è tutt’altro che lusinghiera. E questa una delle qualità distintive del suo lavoro, capace di proiettarlo al di fuori dei confini dello spietato giallismo in cui la fama l’ha presto incastrato.