Negli ultimi tempi sono usciti romanzi di esordienti, che mostrano un minimo comune denominatore: una franca, temeraria tensione verso la Storia collettiva. Accade così con la rappresentazione del Risorgimento nel romanzo di Alessandro Mari, con la Prima guerra mondiale in Andrea Molesini, con la guerra cecena in Andrea Tarabbia. È probabile che si tratti di un segnale rilevante: mettere in scena e ripensare la grande Storia, lontana o vicina, permette di confrontarsi senza remore con i temi della vita e della morte, del bene e del male: rischiando magari qualche eccesso, ma con la ferma, programmatica intenzione di restituire alla letteratura il suo prestigio, la sua forza simbolica e la sua fame di assoluto.
Negli ultimi tempi sono usciti vari romanzi di esordienti, o quasi, che, pur nella varietà delle soluzioni formali e delle tematiche, mostrano un robusto e quasi direi costitutivo minimo comune denominatore: una franca e quasi temeraria tensione verso la totalità, intesa anche e proprio come totalità storica. Gli autori si dedicano a vicende specifiche, e particolarmente rilevanti, della Storia collettiva, ma adoperandole come una sorta di maxicorrelativo oggettivo di una più generale condizione umana, che le situazioni estreme della Storia e soprattutto della guerra contribuiscono a rivelare.
Prendiamo, anzitutto, il monumentale romanzo d’esordio del trentenne Alessandro Mari, Troppo umana speranza (Premio Viareggio 2011): oltre settecentoquaranta pagine, in un ampio affresco dedicato agli anni fra il 1839 e il 1849, cioè alla parte mediana del nostro Risorgimento. Lascerò però subito da parte il discorso Sull’Unità d’Italia. Con un po’ di approssimazione, si potrebbe parlare di un quadruplo, anzi quintuplo romanzo di formazione: ci sono infatti quattro linee narrative, che si alternano liberamente, imperniate sulle vicende di cinque personaggi giovani: il sedicenne Colombino, orfano del contado milanese, adottato dal parroco; il poco più che ventenne pittore Lisander, anch’egli tragicamente orfano, omonimo del Manzoni e dell’autore; la diciannovenne Leda, pure orfana, all’inizio prigioniera in un monastero femminile; e poi José, cioè Giuseppe Garibaldi, poco più che trentenne, all’epoca delle sue guerre sudamericane, all’inizio in Brasile, dove conosce la sensuale e dolce Ana Maria de Jesus Ribeiro, detta Aninha, cioè Anita.
Non è questa la sede per raccontare nel dettaglio le peripezie dei protagonisti, intrecciate costruendo innumerevoli simmetrie e rimandi, spesso creando coincidenze senza nessi causali, a suggerire qualcosa che assomiglia a (quasi)junghiane sincronicità. C’è anche qualche coup de théatre al limite del fiabesco, o del romance (come la miracolosa sopravvivenza di Colombino precipitato in un «grotto», o la fuga di Leda nel finale): ma la vigorosa capacità di controllo su una materia narrativa così ampia e complessa è ammirevole. Mari costruisce un narratore francamente onnisciente, ma con sistematiche incursioni nei punti di vista dei personaggi di rilievo. Anzitutto, di Colombino, che per amore della bella Vittorina dai grandi «occhi di mucca» attraversa a piedi l’Italia, per chiedere un improbabile intervento del papa: intanto affronta sofferenze indicibili, spaccandosi ossa e rischiando la morte. Incarcerato perché accusato ingiustamente di collaborare alla Carboneria, verrà liberato e diventerà per caso attendente di Garibaldi. Lisander, dal canto suo, ama la prostituta Chiarella, e si diletta pure con una nobildonna; pittore squattrinato, partecipa a un gruppo paravanguardista, i Romantici di Sbieco, e poi però svilupperà la nuova arte della fotografia (che fa balenare benjaminiane prospettive di riproducibilità tecnica dell’arte), arrivando a fare i soldi come protopornografo, con le «callopornie», ma anche a fotografare le Cinque giornate. Leda invece verrà liberata dalla sua prigionia grazie all’intervento di una tetra rete spionistica reazionaria, che l’assolda e la ricatta, spedendola in missione a Londra, a spiare il Maestro, cioè Giuseppe Mazzini, che briga con la sua controversa Giovine Italia. Anche Mazzini ha un ruolo non indifferente, anche se viene sempre visto dall’esterno. Durante la Repubblica romana del 1848 incontrerà l’altro eroe della storia, José Garibaldi, quasi sempre inquadrato attraverso lo sguardo innamorato dell’intensa, luminosa Aninha, che seguiremo fino alla morte per febbri malariche.
Fondamentale nel romanzo è il ruolo di Colombino: che mette in gioco il punto di vista dello stupido, che non capisce nulla e per questo va per il mondo, pagando un prezzo altissimo per la propria insipienza. Ma Colombino è anche, fin dalle prime righe, il «menamerda», cioè colui che porta il concime, e dunque ha a che fare con la «materia» bassa per eccellenza, disgustosa e però positiva, perché dalla merda nascono le piante, il pane e la vita. Puzzolente e santo, idealista fino al cretinismo, sommamente ingenuo e ignorante, ma proprio per questo dotato di purezza d’animo sconfinata e persino carismatica, Colombino è un po’ dostoevskiano idiota e un po’ contadinesco Forrest Gump. In lui il patetico e il comico convivono al massimo grado, negandosi e ribadendosi (come del resto accade anche con il suo inseparabile compagno, il mulo Astolfo), sotto il segno convergente dell’amore purissimo e dell’esibito, impurissimo basso corporeo, che più basso non si può.
La bruta materia corporea ha davvero un’importanza strategica: presente un po’ ovunque, e financo nei traslati, spinge verso il comico, ma anche verso il tragico, nella rappresentazione ricorrente (specie nel filone narrativo che riguarda Garibaldi, ma non solo) dei corpi offesi dalla guerra, aperti, mutilati, con gli umori e le viscere squadernati a terra, e pur tuttavia proprio così innalzati a un’imprevista, dolente epica. Del resto, il confronto con la corporeità fa tutt’uno con la rappresentazione della morte, che i personaggi non solo rischiano, talora soccombendo, ma anche infliggono: tant’è vero che a uccidere sono anche personaggi insospettabili, come (preterintenzionalmente) Lisander, ma anche, in modo consapevole, le fragili (si fa per dire) Leda e Aninha. Il fatto è che niente come la corporeità, meglio di qualsiasi altra più nobile dimensione, rivela ed espone l’essere umano, e più in generale il vivente, nel suo nudo esistere, nella sua indifesa creaturalità, cogliendolo nella sua irriducibile singolarità, nel suo irripetibile essere nel mondo, e proprio così esaltandolo, proprio laddove appare più ignobile la materia di cui è fatto: che pure è la stessa materia da cui nascono i sogni. In presenza di tanti personaggi giovani e innamorati, infatti, il corpo appare anche come infinita risorsa di possibilità vitali, come unica, impareggiabile fonte di esperienza e di piacere, nonché come sede delle più nobili aspirazioni: anche se il mondo è orrendamente colmo di violenza. Il piacere e la gioia si mescolano così infinitamente con i più atroci dolori, mentre la sofferta nascita delle identità individuali, spesso destinate a essere rapidamente distrutte, s’intreccia con i destini collettivi, forse sottolineando che la grande Storia pubblica è fatta sempre di piccole, ma proprio per questo grandi, storie personali.
L’accentuazione della corporeità, intesa anche e proprio come creaturalità, si ritrova anche, con ogni evidenza, nei romanzi di Molesini e di Tarabbia. Andrea Molesini, sessantenne docente universitario di Letterature comparate e noto narratore per ragazzi, con il suo esordio nella narrativa maggiore, Non tutti i bastardi sono di Vienna (Premio Campiello 2011), ci parla, reinventando documenti storici, di una vicenda avvenuta fra il 1917 e il 1918: una vicenda in cui, di nuovo, la storia privata si incontra duramente con la Storia pubblica, che la vira e torce verso l’epica collettiva. Dopo Caporetto la nobiliare Villa Spada, a qualche chilometro dal Piave, viene occupata dai soldati austroungarici: nei confronti dei quali, inizialmente, il protagonista e narratore Paolo non riesce a provare odio, ma piuttosto ammirazione. La vita di prigionieri in casa propria è disagiata, ma a prima vista non così terribile: il procedere della guerra, e il coinvolgimento di Paolo in azioni di spionaggio a favore degli alleati dell’Intesa, provocheranno però una progressiva accentuazione degli aspetti tragici.
Paolo, nato emblematicamente nel 1900, tira con sicurezza le fila della storia: narratore interno, in parte protagonista e in parte testimone, mostra spesso capacità d’interpretazione e di spiegazione da narratore esterno, anche perché si trova ad assistere direttamente o quasi a molti eventi bellici rilevanti. D’altro canto il suo è per molti versi soprattutto un romanzo di formazione, in cui i luoghi dell’infanzia, sconvolti dagli eventi bellici, costringono dolorosamente a prendere atto della realtà del mondo, carica di sofferenza e di violenza. Anche se la guerra consente alle figure maschili di assumere ancora ruoli violenti e talora eroici, come accadrà anche e proprio a Paolo, l’articolato sistema dei personaggi assegna un ruolo privilegiato alle figure femminili: dall’energica zia Maria, nubile benché avvenente, che governa con mano fermissima la villa; all’ancora autorevole e piacente nonna Nancy; alla cugina Giulia, «matta, bella, rossa. Uno schiaffo di lentiggini», di alcuni anni più grande del narratore, che la ama, e ne viene estrosamente riamato: capricciosa, indipendente, testarda, Giulia può far pensare alla Pisana di Nievo, così come Villa Spada evoca a tratti i sapori del Castello di Fratta. O, ancora, si pensi alla cuoca Teresa, che, pur nelle frequenti tonalità comiche, rimanda a una fedeltà indistruttibile, a valori stabili che si stanno perdendo: non a caso il libro si chiuderà su di lei, che «è come l’erba, nata per restare ferma, al centro del misero splendore del tutto che passa». In prima approssimazione, l’energia autoritaria delle figure femminili fa rilevare una debolezza, o sia pure una delicata fragilità, delle figure maschili, incarnate soprattutto dall’amabile e ironico nonno Guglielmo. E forse è la stessa incombente crisi della virilità a far risaltare i gesti con cui Paolo si appropria dei simboli della virilità stessa: la pipa, poi il coltello, infine un revolver, con il quale anch’egli si troverà a uccidere. E vero anche però che molti personaggi maschili sono soldati e spie, impegnati in prima persona nella violenza della guerra, e certo non peccano in debolezza: come il custode Renato, o l’aviatore inglese Brian Herrick, e gli stessi ufficiali austroungarici, dall’esemplare sebbene irrigidita cortesia. D’altro canto, nel libro aleggia una costante polemica contro la guerra, terribile affare da uomini, che una civiltà governata dalle donne certo eviterebbe; sul piano storico, la guerra appare una mostruosa manifestazione della fine, irreversibile, della civiltà delle buone maniere, una civiltà di cui il libro fa balenare una persistente, accorata elegia.
In qualche momento le vicende di guerra virano verso l’avventuroso, specie nel rocambolesco finale. Ma dovunque, e soprattutto nella sequenza in cui Villa Spada, nel giugno 1918, diventa retrovia della battaglia del Piave, Molesini sa trovare toni di vibrata, intensa partecipazione, accumulando davanti agli occhi del narratore, e dei lettori, visioni di sofferenza, di mutilazioni e di morte. Di nuovo, risalta irresistibilmente la corporeità come creaturalità, dimensione fragile, materialissima (come segnala la presenza ricorrente e invincibile dei cattivi odori), e tuttavia proprio per questo umanissima, degli esseri che la guerra maltratta, tormenta, violenta fisicamente e moralmente, sconcia e uccide. Ed è certo significativo che, fin dalle prime pagine, il romanzo metta ripetutamente in scena stupri e violenze sessuali (che coinvolgono anche la figlia di Teresa, Loretta, con tragiche conseguenze): a ribadire che la violenza è soprattutto cosa di maschi.
Con Il demone a Beslan, Andrea Tarabbia, classe 1978, slavista e scrittore, già autore fra il 2010 e il 2011 di altri due testi narrativi, affronta le immani violenze della guerra cecena: che, come non si dirà mai abbastanza, è poco meno di un genocidio, consumato sotto gli occhi di una comunità internazionale impotente e silenziosa. Tarabbia sceglie di narrare uno dei più atroci atti di terrorismo della storia, la strage di Beslan, avvenuta fra il 1° e il 3 settembre 2004 in una scuola, in corrispondenza della festa di inizio anno scolastico, con il sequestro di oltre un migliaio fra bambini e genitori, sfociata nel massacro di trecentotrentaquattro ostaggi (se si tiene conto dei soccorritori, delle forze speciali e dei terroristi, i morti sono trecentottantasei). Pochi sanno che non tutti i trentadue terroristi furono uccisi nel cruentissimo attacco delle forze speciali russe; uno infatti, che nella realtà si chiama Nur-Pashi Kulayev, è incredibilmente sopravvissuto. Per quanto efferati e spietati, i terroristi ceceni sono però anche i figli di vent’anni di violenza scatenata dei russi. Con programmatica audacia, Tarabbia reinventa il personaggio del terrorista superstite di Beslan, qui protagonista e narratore, capace di raccontare dall’interno una vicenda di violenza così atroce ed estrema da trasformarsi ipso facto in un confronto corpo a corpo con il bene e con il male. Il risultato, diciamolo subito, è di non comune intensità narrativa.
Nella finzione di Tarabbia, dove non pochi dei nomi dei terroristi coincidono con quelli reali, il superstite si chiama però Marat Bazarev: a evocare il rivoluzionario francese assassinato da Charlotte Corday, ma forse anche il Marat/Sade di Peter Weiss, così come l’amletico e donchisciottesco Bazarov, protagonista di Padri e figli di Turgenev. Sul piano tematico, Marat Bazarev è uno che è già stato testimone dei massacri russi, e per questo ha preso le armi, insieme all’amico Shamil: la sua militanza nei gruppi terroristici indipendentisti appare così ben motivata dall’odio, dal desiderio di vendetta e insieme di liberazione, persino di giustizia. D’altro canto fin dalle prime righe Bazarev diventa una sorta di incarnazione della morte, come testimoniato dalla testa di forca che porta sempre alla cintura. Sul piano della strategia narrativa, Bazarev è il narratore principale, ma non l’unico; l’asse della storia, sorretto dal memoriale che Bazarev redige in carcere, percependo la propria scrittura come un’azione al tempo stesso necessaria e di incerto significato, è infatti intervallato sistematicamente da altre due voci: quella del bambino Petja e quella, doppiamente complementare, del vecchio Ivan. Petja è un bambino imprigionato nella scuola insieme alla sorella e alla mamma: sono morti tutti, e tuttavia Petja parla, apparendo a Bazarev come incubo ricorrente e voce del rimorso. Petja è anche un altro testimone da dentro la scuola; mentre Ivan è un vecchio dalla vista incerta, testimone perciò leggermente paradossale, ma comunque portatore dello sguardo di chi stava fuori, perché si trovava accanto alla scuola durante il sequestro: anche se non ha potuto vedere molte cose, proprio per questo ha visto, cioè ha visto cose che Marat non poteva vedere. Mano a mano si scoprirà che Ivan è un essere fisicamente mostruoso, una specie di Elephant man, il cui volto è una massa informe di carne: orrendo, ma buonissimo, e in questo speculare ai cattivissimi «normali»; respinto dagli uomini, e tuttavia in cerca di affetto, che riversa sul gatto Aleksandr Sergeevic (il nome di Puskin).
L’intreccio dei narratori si complica con quello dei destinatari del discorso, dei narratari: infatti sia Petja sia Ivan parlano a Bazarev; questi invece oscilla fra un «tu», indirizzato volta a volta a Shamil, a Ivan, a Petja, alla guardia carceraria, e un «voi», spesso rivolto agli odiati russi, ma non di rado anche ai lettori, con i quali inscena un rapporto percepibilmente conflittuale: col risultato, conturbante, non certo di chiamarci in causa e coinvolgerci in un’impossibile empatia, ma di tenerci a distanza, imponendoci la misura già riservata all’odio inestinguibile che colpisce gl’invasori. Nel capitolo unico dell’ultima parte, infine, le tre voci principali si alternano in continuazione, sottolineando il progressivo aumento della temperatura narrativa ed emotiva. Lo sguardo e la voce del narratore principale, alle prese con le apparizioni e le voci degli altri narratori, vanno così via via precipitando in una prospettiva sempre più deformata e delirante, in parallelo con lo sviluppo sempre più tragico dell’azione, mentre in Marat si accumulano tensione, esaltazione, stress, paura, stanchezza, effetto di droghe, disperazione, fino alla fulminea, terrificante stretta finale. A completare l’impianto narrativo ci sono poi otto tragiche storie di donne, coinvolte direttamente o indirettamente nella strage. La stessa complessa articolazione narrativa scandisce la vicenda, conferendole un ritmo, è il caso di dirlo, infernale, mentre tutta la vicenda resta sospesa nell’inutile attesa di una soluzione che già sappiamo impossibile.
La violenza scatenata, ancorata alla relativa assolutezza (l’ossimoro è d’obbligo) dei corpi, riesce a mettere insieme allo stesso tempo una condensata concretezza (ribadita dall’uso ossessivo dei deittici) e una crescente astrazione, che culminerà nel dostoevskiano (fin troppo) dialogo fra Marat e padre Aleksej, dove le ossessioni del bene e del male, della giustizia e della colpa, dell’umano e del non umano, dell’amore e dell’odio assumono connotati ancora più espliciti. Correlativamente, anche Tarabbia insiste quasi a ogni passo sulla corporeità, sui corpi straziati e le mutilazioni, gli stupri, le deiezioni e i cattivi odori, con fatale corredo di animali disgustosi (come nell’allucinata rappresentazione di una scolopendra predatrice di scarafaggi). D’altro canto, la forza espressiva del romanzo si alimenta anche di una strategia lessicale ad alta selettività, cui si affianca la messa in opera rigorosa, implacabile di figure retoriche di ripetizione (a cominciare dal martellio costante dei poliptoti). Il cortocircuito alto-basso, sia tematico sia stilistico, non potrebbe essere più marcato.
Ho il sospetto che le analogie rilevabili fra questi libri siano un segnale interessante. Mettere in scena e ripensare direttamente la grande Storia, lontana o vicina nel tempo e nello spazio, sembra essere infatti un modo per confrontarsi senza remore con i temi estremi della vita e della morte: rischiando magari qualche eccesso di emotività e di stile alto, ma con la ferma, programmatica intenzione di restituire comunque alla letteratura tutto il suo prestigio, la sua forza simbolica e, perché no, la sua fame di assoluto.