Per i narratori della generazione trenta-quaranta, due snodi appaiono ineludibili: la questione anagrafica e quella del territorio. Tra manifesti generazionali e manifesti di poetica, gli autori scelgono di giocare con i generi e danno vita a una narrativa ibrida, tra autofiction e reportage narrativo, che affronta i disagi della postmodernità e approda alla presa di coscienza delle proprie origini.
«La rabbia, nello scrittore, è amore»: Mario Desiati – è lui che parla – dice di avere scoperto questa verità ad alcuni anni di distanza da Vita precaria e amore eterno, il suo primo libro pubblicato con Mondadori, dopo gli esordi in una culla di numerosi talenti, peQuod, con Neppure quando è notte e in LietoColle con i versi di Le luci gialle della contraerea. In quel romanzo scriveva «storie di ragazzi che avevano lasciato il Sud con felicità e con rabbia», ricorda, salvo scoprire a posteriori con Naipaul che «l’amore lo capisci andando via. Lo capisci attraverso la nostalgia».
Desiati è nato nel 1977 a Martina Franca, provincia di Taranto. Oltre ai libri già citati ha pubblicato Foto di classe. U uagnon se rìasciot, un racconto in prima persona sull’emigrazione dall’Italia del Sud per la collana «Contromano» di Laterza e il romanzo con il quale nel 2011 ha concorso al Ninfeo di Villa Giulia nella cinquina per il Premio Strega, Ternitti. È, oltre che poeta e romanziere, direttore editoriale di Fandango. Con lui facciamo il punto su due snodi della nostra narrativa under 40: la questione anagrafica e quella del territorio.
Tra i promotori di Generazione TQ, il movimento Trenta-Quaranta (ma anche Tarantino Quentin) nato a primavera 2011, ne è però presto uscito: «Se si partecipa bisogna farlo sul serio, essere attivi, e io non lo ero. Limitarsi a essere nell’elenco dei firmatari non mi sembrava una cosa seria» dice. «Ma il movimento aveva un suo motivo se, solo sulla base di un articolo uscito sul “Sole 24 Ore”, il 29 aprile scorso duecento precari dell’editoria, bibliotecari, scrittori, si sono riuniti. E se ne sono nate cose significative, come l’occupazione simbolica della Biblioteca Nazionale a Roma.» (L’11 ottobre 2011 Generazione TQ, Valle occupato, bibliotecari, in uno scenario paradossale, hanno trovato la polizia in tenuta antisommossa a presidiare le porte chiuse della Biblioteca di Castro Pretorio, ndr.)
Non crede che più che manifesti generazionali gli scrittori dovrebbero firmare manifesti di poetica? Oggi non sono piuttosto gli editori che per operazioni di mercato battezzano coorti anagrafiche, come negli anni novanta fece «Stile Libero» Einaudi con i Cannibali?
Sì, quella fu un’operazione a tavolino. Ma la questione generazionale è, per uno scrittore, quasi fisiologica: ti confronti con i tuoi coetanei, poi puoi rifiutarli o solidarizzare.
Se dovesse fare un punto generazionale sull’oggi, cosa direbbe?
Parlerei della narrativa ibrida, tra autofiction e reportage narrativo, insomma tutto ciò che non è romanzo puro. Oggi gli scrittori giocano con i generi e con la demolizione dell’evoluzione psicologica tipica del personaggio. È in atto un ritorno alla realtà: parlerei di poeticizzazione del realismo e di postrealismo. Penso a chi di noi si è occupato di lavoro, quando raccontavamo il precariato: Andrea Bajani, Giorgio Falco, Francesco Dezio, Michela Murgia, io. E stato casuale, erano le condizioni a dettarci il tema: eravamo tutti dei ventenni che entravano nel mondo del lavoro con il pacchetto Treu e la Legge Biagi. Così è nata la nostra narrativa postindustriale. Per me c’è un punto in cui tutto questo nasce: nel marzo 1999 con il discorso alla Bocconi di D’Alema che, primo ex comunista presidente del Consiglio, inneggiava alla flessibilità. Lì si sono aperte le dighe. Il precariato è Berlusconi? No. Il precariato è, per cominciare, il pacchetto Treu. E nei nostri libri di questo si prendeva atto. Infatti i nostri personaggi erano tutti non politicizzati, a differenza di quelli della letteratura industriale italiana.
Passiamo al territorio. Si tratti di un paesaggio meridionale avvelenato, come nel Paese delle spose infelici, si tratti di un Sud che i personaggi si lasciano alle spalle o di una Roma, o una Svizzera, in cui approdano, è protagonista nei suoi libri. Perché?
Sto seguendo un percorso legato alla presa di coscienza del posto da cui vengo. L’amore, come diceva Naipaul, lo capisci andando via. Ma il mio è un pezzo di paese la cui storia recente è connotata da fatti innegabili. Il 1991, con la nave Vlora che approdava con 27mila albanesi: fu quello il nostro Muro di Berlino, in quel pomeriggio d’estate sul molo di Bari. E poi le grandi crisi, il Petrolchimico di Brindisi, e Taranto, dove il cielo è color ruggine e dove c’è il tasso più alto in Europa di malattie polmonari. Io non volevo scrivere un libro sull’Italsider ma per forza lì sono arrivato. Verso la Macchina sentivo piuttosto la fascinazione degli scrittori di fine Ottocento. Ma io e i miei coetanei tutti abbiamo avuto un genitore o un parente stretto che lavorava lì e che si è ammalato. E poi c’è Cito. Dall’87 Giancarlo Cito è in consiglio comunale e nel 1993 diventa sindaco. Prima di Berlusconi è lui che con le sue tv sollecita la vanità portando la gente comune in tv e il voyeurismo con i programmi notturni porno. Le tv locali fanno crescere dei piccoli ras. Perciò non credo che a risolvere i nostri problemi basterà mandare via Silvio Berlusconi.
Lei, pugliese, sente una mano della tv dentro il delitto avvenuto nella pugliese Avetrana?
In una cosa: noi nel Sud siamo abituati al silenzio, alla gente che, avvenuto un delitto, sfugge e tace, magari omertosa. Invece ad Avetrana tutti vogliono apparire e dire la loro.
Lo vedono come un reality?
Sì.
Torniamo al territorio. La sua importanza sulla pagina le sembra un dato più generalmente meridionale?
Cambia da scrittore a scrittore. Io vivo un’attrazione quasi ossessiva per la terra da cui vengo. Mi sembra la Terra Santa, coi muri a secco e le pagliare, elementi di un’altra epoca. Il simbolo della mia terra sono le pietre fossili, preumane, un tempo tirate fuori dai contadini per lavorarci e costruire. Cesare Brandi diceva che sono le anime dei morti che tornano, come in Palestina e in Medio Oriente. Sono, perciò, un simbolo del mio tentativo di raccontare la modernità come un ritorno alle origini.