Le scrittrici reagiscono al presunto «crepuscolo dei letterati» riannodando il dialogo con il pubblico più vasto dei lettori, oltre la comunità delle lettrici. Accantonata la misura breve del racconto, privilegiata finora dalle esordienti, ritrovano il gusto di raccontare storie ad arcatura medio-ampia. Punto di forza delle opere prime al femminile è la fisionomia dell’io narrante, che adotta la prima persona ma sceglie un’ottica romanzesca: il sistema dei personaggi si allarga e compone dinamiche di socialità riconoscibili, in una trama in cui a prevalere non sono gli incontri sessual-erotici, ma i rapporti parentali e intergenerazionali.
C’è un elemento che colpisce in questa stagione letteraria: la ricchezza dei libri delle autrici esordienti, in buona compagnia, peraltro, dei maschietti anch’essi alla loro prima opera. Colpisce innanzitutto per l’effetto di reattività propositiva con cui la giovane generazione risponde alle tendenze cupo-depressive dei detentori del gusto più togati, inclini alla deprecatio temporum, condita con spezie letargiche che non danno rifugio né scampo: se le etichette del postmoderno, fine della storia delle ideologie delle narrazioni, sono ormai buone per tutti gli usi, la geremiade sulla scomparsa del libro, vittima illustre delle tecnologie digitali, proietta sull’area letteraria ombre desolanti.
A fronte di questo orizzonte asfittico e chiuso, le autrici più giovani che si cimentano con la fiction testimoniano una rinnovata fiducia nella scrittura narrativa e nel dialogo con i lettori. Non solo la quantità non uccide la qualità dell’offerta, ma i processi di internazionalizzazione dell’immaginario collettivo, lungi dal deprimere l’estro creativo, ne sollecitano inedite forme di reinvenzione. Sulla scia del favore conquistato dagli under 40 – nell’ultimo decennio i libri italiani tradotti all’estero sono aumentati del 93 % – si è rinvigorito il gusto di raccontare storie che affrontano conflitti paure aspirazioni del nostro inquieto presente. Che non sia solo una strategia di marketing, come tante, troppe volte è stato lamentato, lo testimonia la molteplicità delle case editrici che hanno pubblicato e promosso le firme esordienti: accanto ai colossi Mondadori e Rizzoli, con le nicchie di casa Einaudi e Marsilio, vi sono Fandango, e/o, Salani, cui si affiancano le sigle minori, Elliott, o minime, Eclissi editrice. Qualcuna scala la classifica dei successi; molte partecipano alle selezioni finali di premi importanti, e capita pure che li vincano.
La provenienza anagrafica delle autrici conforta, su scala nazionale, il rilancio complessivo della narrativa italiana: si parte dal Nordest e, passando per Genova, Pescara e Roma, si arriva fino in Sicilia; di lì, poi, si raggiunge l’Europa e si varca anche l’oceano. A tale varietà geografica corrisponde, entro l’orditura dei testi, la ricchezza molteplice degli scenari spazio-temporali, entro cui, di volta in volta, si dipanano le trame e si muovono i personaggi.
A dare compattezza alla galassia delle firme esordienti è, piuttosto, una scelta preliminare che riguarda la morfologia di genere, in senso specificamente letterario: la riscoperta della narrazione ad arcatura medio-ampia. Accantonata la misura breve del racconto, tipologia privilegiata tradizionalmente dalle autrici in erba – valgano per tutte mosca più balena di Valeria Parrella e Sleepwalking di Laura Pugno – Manzon e compagne puntano dritto a «raccontare storie», per dirla con la celebre definizione adottata da Foster per illustrare gli aspetti del romanzo. Acciaio di Silvia Avallone ha indicato il percorso, con clamoroso e meritato successo.
Diversissimi per scelte espressive e tecniche di montaggio, Di fama e di sventura, Le giostre sono per gli scemi, Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra, Storia naturale di una famiglia, Volevo essere una gatta morta, Mia madre è un fiume, La donna che morì bevendo il caffè, La vita accanto, Settanta acrilico trenta lana, La teoria del caos hanno tutti come comun denominatore un’orditura romanzesca, volta a rappresentare un quadro di relazioni private proiettate su un orizzonte collettivo. Rispetto alle «sorelle» maggiori, l’opzione romanzesca implica un mutamento altrettanto cruciale, questa volta di gender, culturalmente inteso: le storie raccontate sono elettivamente rivolte al pubblico largo e indefinito, non solo alla comunità delle lettrici. A essere rifiutata è la condizione di «diversità», o forse meglio di «differenza» che, nella stagione conclusiva del Novecento, suggeriva alle giovani autrici la ricerca delle «parole per dirlo», nella difficile conquista della «città proibita». L’assalto, partito dal numero 0 di «Tuttestorie. Racconti letture trame di donne» (1990), era felicemente approdato a Ragazze che dovresti conoscere. The sex anthology, dove le firme di Vinci Stancanelli Muratori Santangelo si affiancavano a quelle di Ambrosecchio Postorino Ciabatti.
Oggi, l’impegno di scrittura delle esordienti si fa più ambizioso: le vicende di donne, perlopiù giovani ma non solo, riguardano tutti: il sistema dei personaggi si allarga e, pur continuando a far perno sui ruoli femminili, compone dinamiche di socialità riconoscibili, in una trama in cui a prevalere non sono gli incontri sessualerotici, ma i rapporti parentali e intergenerazionali.
Il romanzo di Ester Armanino, ventottenne genovese, è uscito nella prestigiosa collana dei «Coralli» Einaudi; il titolo esemplare suona Storia naturale di una famiglia’, l’aggettivo «naturale», sia chiaro, è riferito all’ottica prescelta, prossima all’indagine entomologica, non alle coordinate strutturali che, in un percorso di Bildung, vedono l’adolescente Bianca, protagonista e narratrice, uscire dal focolare domestico: perché, sono parole materne, «crescere è abbandonare». A rifrangenza speculare, una foto di madre e figlia, posta oltre la conclusione, è sottoscritta da una dedica in cui riecheggia un ritornello costante in molte opere prime: «per ogni volta che hai detto: raccontami una storia, bella o brutta che sia, purché sia tua».
I libri più interessanti scritti da questa generazione di esordienti sono, appunto, storie di vicende familiari che si svolgono fra interni ed esterni, su uno sfondo cittadino e metropolitano: La vita accanto, Settanta acrilico trenta lana, Di fama e di sventura.
In quest’ottica, Volevo essere una gatta morta di Chiara Moscardelli paga un prezzo di scipitezza per la fedeltà alle convenzioni di genere e di gender’, l’interlocuzione pivilegiata con il pubblico femminile, è vero, si modella sui timbri scanzonati della chick lit, ma l’intreccio allinea le solite disillusioni amorose e scoperecce. E non basta il pizzico di autoironia con cui la protagonista Chiara si dipinge simile a Bridget Jones per riscattare una trama sentimentale in rosa, povera di figure in rilievo. La catena degli incontri con gli uomini sbagliati conferma solo la primazia odiosa delle donne che ci sanno fare: le altre, per le quali al «peggio non c’è mai fine» come recita il penultimo capitolo, devono unicamente consolarsi con gli amici e far buon viso a cattivo gioco: «Bisogna imparare a stare da soli finché non si incontra la persona giusta». Per chi s’atteggia a «pollastrella», pronta a intrattenere le lettrici con brio spregiudicato, non è un gran traguardo.
La scelta pseudoautobiografica di Moscardelli fa risaltare, a contrarii, il motivo di maggior suggestione degli ultimi romanzi a firma femminile: l’adozione di tecniche compositive funzionali, di volta in volta, a schizzare la fisionomia di chi regge le fila del racconto. La stragrande maggioranza delle opere prime, e fra queste le più riuscite, privilegia l’omodiegesi: sono le protagoniste a narrare le storie che le hanno coinvolte in prima persona. Le cadenze di stile adottate sono difformi – algide da entomologa (Armanino), aggressivamente arroventate (Di Grado), affabulanti in onda lunga (Manzon), defilate e radenti (Veladiano) –, ma in tutte è palese la ricerca di un’intonazione capace di raffigurare l’esperienza idiosincratica dell’io, senza rinunciare a coglierne i rapporti con la collettività più ampia.
La vita accanto, uscito dal colto vivaio del Premio Calvino, è l’unico che ha conquistato le vette della classifica dei successi. Rebecca è brutta, irrimediabilmente brutta e sin dall’incipit chiarisce quale sia il punto di vista da cui racconta la propria vicenda: dall’«angolo», in cui la condizione di «vergogna e paura» l’ha «stretta» sin dall’infanzia, osserva il mondo, ne ascolta le voci e riesce a intuire, da indizi labili e squarci di luce, i conflitti latenti che tramano l’orizzonte cupo della sua città, Vicenza.
Il dettato piano ed elegante, appena mosso da increspature e vezzi di stile, segue il percorso di formazione della brutta bambina, suggerendo, più che rappresentando, gli inciampi, gli ostacoli, le piccole conquiste; le tensioni familiari, in cui si aggrovigliano follie superstiziose, tensioni morbose, silenzi colpevoli, la feriscono lasciandole ulcere più o meno dolenti. A sorreggerne il cammino sono figure femminili che non appartengono alla cerchia parentale: la tata Maddalena, la maestra Albertina, la prima compagna di banco Lucilla. In controluce, la provincia del profondo Nordest è sempre dominata da un bigottismo retrivo, incline a «confidenze pelose» che, nate da inibizioni e paure, si traducono in complicità crudeli. Su tutto e tutti svetta l’impotenza dei padri: dal genitore di Rebecca che, medico, non cura la figlia deforme – e bastano pochi ritocchi chirurgici per attenuarne la bruttezza –, al padre di Lucilla che abbandona la famiglia e pretende poi di ritornarvi, innescando una reazione di pari violenza, fino al capostipite incestuoso della famiglia De Lellis, famosa in città per l’estro concertistico della svampita «vecchia signora» e la serietà del figlio Alberto, maestro di piano. Da loro due la protagonista viene iniziata alla musica e avviata alla scoperta di tabù e scandali, che il fiume Retrone, attraversando i quartieri cittadini, ora occulta ora fa aggallare dal fondo limaccioso.
Nella prima parte, l’intonazione «a margine», accompagnata da uno sguardo radente su cose e persone, crea un’atmosfera perturbante, gravida di segretezze indicibili; poi l’arcatura della trama offusca i contrasti e attenua i timbri. Il pianoforte, è vero, salva Rebecca che, abituata a «esistere in punta di piedi», si ritaglia un cantuccio protetto, ma il racconto che ne rievoca gli incontri e la raggiunta maturità declina verso una conclusione mortificante. Non solo perché la somma di attese iniziali si illanguidisce, disperdendosi entro una progressione d’intreccio senza picchi; ma perché la scrittura colta e studiatamente fluida elude, nelle sequenze di maggior acme, gli urti e le asprezze, quasi a cancellare l’aggressività oscena che la bruttezza femminile non può non suscitare in chi le vive «accanto». Smorzata ogni tensione, ignorato inspiegabilmente ogni confronto con la sessualità, anche gli impulsi di astio ostile, che esplodono in un’aula scolastica, sono riassorbiti nel flusso memoriale che, frammentandoli, li attutisce. Così, gli assilli metafisici sulla grazia, pietà, bellezza che pure risuonano con frequenza – «una bambina brutta è figlia del caso… Di certo non è figlia di Dio»; «Non ho tesi su Dio, non so se esiste oppure no» – più che aprire interrogativi, riecheggiano frasi di altri libri e testi. Tutto alla fine si risolve nel titolo: la vita passa davvero accanto a Rebecca e il suo racconto sfiora, senza turbarlo, il lettore che l’accompagna sull’eco pulita dei ricordi.
Al polo opposto si colloca Camelia, la narratrice di Settanta acrilico trenta lana, Premio opera prima Campiello. Anche lei rievoca la sua vicenda di figlia, in una famiglia segnata dal lutto; ma, a differenza di Rebecca, si affida a una scrittura che apre gorghi narrativi e si arroventa in pointes espressive di estro talentuoso. Lo stile di Viola Di Grado, ventitreenne siciliana residente a Londra, è dominato da un metaforeggiare rigoglioso e visionario che, restando leggibilissimo, punta a restituire la violenza dello sfacelo in cui la protagonista precipita all’indomani della morte del padre. L’incidente, avvenuto mentre l’uomo era in macchina con l’amante, getta in un silenzio delirante e depressivo la bellissima madre, lasciando alla figlia il compito di accudirla, in un rovesciamento di ruoli sempre più nevrotizzante.
Sullo sfondo gelido di Leeds, sotto un cielo metallico da cui cade una pioggia insistente e noiosa, la resistenza della ragazza poco più che ventenne trova un unico conforto nello studio della lingua cinese; peccato che a farle da maestro sia Wen, cultore di Confucio, tanto abile sarto quanto amante deludente e schivo. La frustrazione è massima ed è resa ancor più urticante dall’arrivo dell’altro cinesino, fratello di Wen, forse disadattato ma di ben altra potenza amorosa. L’impossibile rivalità fra i due aggrava la condizione di rabbioso malessere in cui si agita la protagonista, che, per scaricare i plurimi sensi abbandonici, si accanisce a tagliuzzare maglioni e vestiti recuperati in un cassonetto della spazzatura. Quando la splendida madre esce dall’afasia, ricomincia a comunicare con il mondo e incontra pure un bellissimo vedovo, pronto a sposarla, be’ alla povera Camelia non resta che far scoppiare la sua disperata aggressività, lasciandosi andare a un gesto di violenza assurda e gratuita. Solo così potrà ricostruire il claustrofobico bozzolo domestico, in cui rifugiarsi in regressivo infantilismo.
Ancora una volta, il fulcro del racconto sta nell’intonazione che l’io narrante assume per raccontare una vicenda palesemente esagerata, in cui le tinte sovraccariche sono insistite e nel contempo erose e sbeffeggiate. La ragazza che per vivere traduce istruzioni per lavatrici e dialoga con la madre attraverso sguardi muti è figura troppo squinternata e perdente per non indurre il lettore a prenderne le distanze; d’altronde troppo abile è la voce che ne racconta i deliri rovinosi per non lasciarsene catturare, magari in reattivo straniamento. Sulla scia di un’esuberante tradizione narrativa siciliana, in primis Silvana Grasso, la scrittura di Viola Di Grado opera una sorta di cortocircuito ghiribizzoso fra un andamento discorsivo sovraeccitato, ricco di virate timbriche e sussulti temporali, e un materiale malconcio e sbrindellato: l’acrilico prevale sempre sulla lana negli scambi dialogici, nel tratteggio dei personaggi, nella descrizione livida degli interni ed esterni. Alla fine, in mezzo alle molteplici acrobazie metalinguistiche, metanarrative e pure metaiconiche – le fotografie dei «buchi» scattate dalla madre –, rifulge l’eredità, di buona fibra, che il padre lascia a Camelia: il gusto di andare in giro a raccattare storie, perché «Lo sai, piccola, le storie sono dappertutto» (p. 74) e ci offrono l’unico argine per lenire il senso abissale di solitudine.
Le fa eco, seppur su altre note, Manzon che dedica Di fama e di sventura «alla mia famiglia, che mi ha cresciuto in mezzo alle storie». A conferma del ritornello che si rimpallano, di testo in testo, le giovani autrici che hanno ritrovato il gusto di raccontare.
Il libro dell’esordiente friulana, vincitrice del Premio Carige Rapallo e finalista al Campiello, è il romanzo più romanzesco fra le opere prime a firma femminile. La vicenda si sviluppa su orizzonti larghi e distanti, da Trieste alle foreste del Canada, copre un arco temporale molto ampio, quasi un secolo, e mette in scena, con sicura abilità compositiva, una varietà di personaggi, figure e figurine che restano impressi per vivezza di profilo. A partire dall’incipit: un pranzo di Pasqua in una casa di marinai concluso dal colpo di pistola che il capofamiglia «uomo bello e inquieto», pronto a giocarsi a carte la paga dei lunghi viaggi intercontinentali, si spara in bocca: l’unica forse a capirne la ragione è la piccola Vittoria, la sola figlia femmina, la più intelligente, «la peste amore di papà». Da questa scena, rievocata con toni da antica saga familiare, prende avvio una trama sussultoria che intreccia vicende multiple, fissando il perno su Tommaso, il nipote prediletto di Vittoria. La sua è la storia avventurosa di un ragazzino che, per reazione alla condizione di orfanità irredimibile – padre ignoto, madre morta di parto, nonna lontana e assente –, abbandona le visioni adolescenziali del cielo stellato per scalare con cinismo spregiudicato i mercati della finanza.
Manzon mostra mano esperta, rara nelle esordienti, nell’organizzazione di una trama volutamente costruita sul vortice di incontri, scambi e coincidenze; nel gioco raffinato dei tempi verbali, i salti cronologici e le dissonanze di voce imprimono al racconto un ritmo fluente e accattivante. A governare la macchina romanzesca è una narratrice, Luce, che si presenta all’inizio con una fisionomia enigmatica e un’intonazione inafferrabile. E la ragazza che Tommaso incontra durante l’adolescenza passata in collegio, quando ancora contempla la volta celeste, ma è già pronto a fregare l’amico del cuore; la ritrova in Canada al culmine del successo, ormai sposato, divorziato e padre di un figlio, a cui non sa dedicare tempo e affetto. Nei tre ampi capitoli che rievocano le stagioni remote, l’io narrante, mossa dall’ansia di recuperare le tracce del percorso tortuoso che ha condotto il ragazzo con la faccia di indiano a diventare un pescecane delle speculazioni, intreccia, letteralmente, i racconti i discorsi le profezie le malevolenze che ne delineano la storia e ne disegnano il destino: il punto d’avvio è l’epoca, avvolta di fulgore confuso, di nonna Vittoria, figura di fascino fiero e audacia indomita, incapace, nondimeno, di aiutare chi ama.
Grazie a un osservatorio, prossimo ai personaggi ma estraneo agli eventi, la scrittura di Di fama e di sventura, virando su cadenze ora melodrammatiche ora di incisiva limpidezza, scolpisce figure e allinea sequenze di grande suggestione. Nella quarta parte, quando Luce è sulla scena, accanto a Tommaso, e ne riporta in diretta la caduta rovinosa, il dettato si incupisce, la progressione d’intreccio diventa più lenta e faticosa, fino a uno scioglimento con duplice morte, non solo padre ma anche figliolo.
Forse per il nodo di sentimenti che troppo coinvolge la narratrice, forse per l’ambizione autoriale di affrontare di petto la bolla finanziaria dei subprime, i timbri affabulanti su cui si distendeva la narrazione ora si offuscano. Il calo di tensione non è solo questione di stile: è come se Manzon caricasse sulle spalle del protagonista, che ha deluso nonna Vittoria, bruciando i suoi sogni e sfuggendo a ogni responsabilità d’affetto, le assenze e le cecità di tutti i padri del libro.