Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le narrazioni a fumetti che mettono a fuoco il momento cruciale in cui il cucciolo d’uomo fuoriesce dal mondo dell’infanzia ed entra nella dimensione delle responsabilità adulte. Le vicende di questi giovani spavaldi e goffi avevano sempre faticato a inserirsi nella gabbia dell’impaginazione fumettistica tradizionale, destinata a un pubblico paraletterario o preletterario. Il graphic novel, al contrario, accompagna il processo di romanzizzazione del fumetto e risponde ai desideri di lettura dei giovani intellettualmente più spregiudicati, che non ne possono più dei supereroi creati da sceneggiatori e disegnatori affetti da infantilismo psichico.
Nei giornalini a fumetti di ieri e di oggi, i personaggi restano sempre identici a se stessi dal principio alla fine della storia o storiella che li riguarda. E appena finita questa, eccoli subito comparire in un’altra nella quale svolgere il medesimo ruolo. Topolino è sempre lui, e così Mandrake, o Braccio di ferro, o Superman, tanto per fare qualche nome relativo ai due versanti fondamentali del fumetto «storico», quello comico e l’avventuroso. Più che di personaggi sarebbe infatti giusto parlare di caratteri, come dicono i narratologi: figure che traggono la loro forza seduttiva da una fisionomizzazione icastica stabilmente definita.
Da vario tempo però nella produzione fumettistica si incontrano anche dei personaggi che subiscono una evoluzione, o magari una involuzione; e insomma, alla fine del racconto non la pensano e non si comportano più allo stesso modo di prima. La vita li ha cambiati, come è tipico succeda ai personaggi propriamente romanzeschi. E il caso del protagonista di un bel libro, anzi librone, Blankets, di Craig Thompson: un ragazzo timido, casto e docile, che viene a conoscere una ragazza più matura, partecipe di una condizione familiare più complicata della sua. La breve relazione tra i due lascia il giovane profondamente mutato, è diventato uomo. Ma a questo punto la ragazza perde attrattiva per lui, e viene lasciata con freddezza da adulto.
Analogo e diverso è l’impianto di Non mi sei mai piaciuto, del canadese Chester Brown: un altro aneddoto sui primi approcci di un maschietto con la femminilità, in età puberale. Il protagonista è carino e interessa alle ragazzette coetanee, che però sono troppo toste e disinvolte: vorrebbero che dicesse le parolacce, come fanno tutti, e se proprio non ce la fa a dire «cazzo», perché la sua mamma non vuole, dica almeno «vagina», che è termine scientifico. Ma il fanciullo si impaurisce e si chiude in se stesso: la relazione sessuale è fallita, non resta che la solitudine masochista.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le narrazioni a fumetti che mettono a fuoco il momento sempre cruciale dell’esistenza in cui si verifica la fuoruscita del cucciolo d’uomo dal mondo dell’infanzia per fare ingresso autonomamente nella dimensione delle responsabilità adulte. Dunque, un cambiamento forte delle modalità di presenza dell’io a se stesso. Siamo nell’ambito più tipico del romanzo moderno, dove risaputamente i personaggi protagonisti non sono più i portatori di un destino fisso e immutabile, come succedeva nell’epica antica, ma possono intraprendere strade diverse, nel bene o nel male, nel successo o nella sconfitta, a seconda delle modalità di incontro e scontro dell’io individuale con l’altro da sé: la gente, i partner sessuali, le gerarchie sociali, le normative etiche della comunità di appartenenza.
Nel mondo del fumetto c’è stato un processo di ammodernamento che potremmo definire romanzizzazione. Per questo è lecito parlare oggi di romanzo a fumetti, graphic novel, come è stato chiamato in area anglosassone. Ed effettuare un riferimento particolare al romanzo di formazione, forse il genere romanzesco più intrinseco alla modernità culturale. In esso assume evidenza piena la differenza strutturale dal fumetto tradizionale, con le sue saghe implacabilmente iterative, sempre diverse e sempre eguali. I personaggi sono più problematici, meno trasparenti, e non votati a reiterare senza fine le loro imprese più o meno bizzarre.
Naturalmente, il linguaggio fumettistico non lascia spazio alle descrizioni analitiche degli stati d’animo, croce e delizia della narrativa letteraria otto-novecentesca. La vignetta è costitutivamente legata alla sinteticità della percezione visiva, non psicologizza la polivalenza delle pulsioni emotive. Però nel graphic novel le battute di dialogo hanno una funzionalità più stretta di quanto sia nel fumetto tradizionale, dove la sequenza dei disegni ha spesso bisogno di un corredo di didascalie puramente esplicative: o al contrario può ritrarre dei personaggi sostanzialmente muti.
Un chiarimento in proposito è offerto da La perdida, dell’americana Jessica Abel. Una brava ragazza di provincia, candida ed entusiasta, se ne va in Messico col proposito di compiere una grande esperienza di cultura e di vita in una sorta dà full immersion terzomondista. Mal gliene incoglie, perché precipita in una realtà fascinosa ma infida, che non si lascia penetrare con faciloneria puerile: guai a prestar fede a tutto quello che ci si sente dire, la credulità fa correre dei brutti rischi. La perdida potrebbe anche essere definito un romanzo di conversazione, per il peso e l’attenzione dedicati al parlato dei singoli personaggi, diversificati nelle loro modalità elocutive troppo spesso fraudolente.
Va precisato però che, pur nella coralità del panorama umano sciorinato, il libro della Abel si adegua a un tratto basilare della narrativa disegnata, di ieri come di oggi: la trama è impostata su una e una sola figura protagonistica. Sono le vicissitudini di un individuale a dominare l’orizzonte narrativo, assicurando la linearità di una storia che ha sempre da essere scorrevolmente leggibile, almeno nel suo flusso narrativo centrale.
Può anche accadere che un libro sia dedicato a un protagonista collettivo, come accade in Tutta colpa del 68, di Elfo, alias Giancarlo Ascari. Ma per l’appunto il soggetto è una entità compatta, il Movimento studentesco dell’università Statale di Milano, considerato un tuttuno senza discrimini interni né scalarità gerarchiche. Così infatti lo vede l’io narrante, con gli occhi sgranati del diciottenne che era al tempo dei fatti narrati. La sua socializzazione consiste in una immissione spontanea nel flusso vitale di una comunità a suo modo organica. La coralità dell’evento storico viene rapportata all’angolazione prospettica di un militante immaturo.
resocontista si attiene fedelmente alla memoria che conserva di un Sessantotto partecipato da un sessantottino in erba. L’autore reale si lascia emergere solo alla fine del racconto, nell’allusione al declino del moto di contestazione ideologica come fosse il tramonto precoce di una relazione amorosa appena sbocciata.
Il libro di Elfo è sorretto da un autobiografismo che porta a ripercorrere il passato in spirito di verità cronistica, senza nostalgie né recriminazioni. E molti graphic novel appaiono sottesi da un rimando autobiografico analogo. Evidentemente il racconto per immagini in sequenza offre una buona via di mediazione fra l’urgenza corposa del vissuto e la libera estrosità dell’inventato. Con ciò stesso, l’elaborazione è portata ad assumere un assetto letterario istituzionalmente riconoscibile.
Bisogna peraltro sottolineare che la fioritura attuale di Bildungsroman a fumetti vale a smentire la convinzione diffusa del declino inevitabile di questo modulo narrativo illustre, per un mutamento di circostanze storiche ritenuto ineludibile: ai nostri tempi non sarebbe più possibile, o plausibile, raccontare un processo di formazione che vada a buon fine, in quanto la cupezza dell’orizzonte socioculturale non lo consentirebbe. Ma qui siamo solo di fronte a una delle tante manifestazioni del catastrofismo apocalittico. E una discussione ideologica sarebbe superflua. Il punto è che lo schema classico del romanzo di formazione prevede che il protagonista venga a fronteggiare una serie di eventi che hanno il valore di prove della sua capacità di comportarsi come un essere avveduto e intraprendente, meritevole di venir integrato a pieno titolo nella comunità degli adulti. Ma non è detto che ciò accada sempre, o per inettitudine del protagonista o per inospitalità delle istituzioni collettive, che lo respingono.
Lo schema narrativo funziona allo stesso modo, anche se l’esito delle prove è infausto. Questa è certamente la prospettiva prevalsa nel passaggio dagli eroi fanciulleschi dell’Ottocento volontarista e ottimistico, si chiamino Pinocchio o Oliver Twist, ai non eroi del Novecento infelice, pensiamo all’Isola di Arturo o a Ragazzi di vita. Ma in ogni caso, anche se il processo di formazione si converte in deformazione o malformazione, vengono messe a fuoco le modalità del passaggio dall’ambito circoscritto del nucleo familiare alla vastità sconosciuta dell’universo sociale, con le sue lusinghe e minacce.
Il fumetto di formazione si mostra aperto a entrambe le prospettive, senza concedere un credito incondizionato ma nemmeno condannare senza appello le istituzioni di civiltà entro le quali le nuove generazioni faticosamente crescono. E il tempo di una attesa, quello che viene fatto vivere ai personaggi fanciulleschi intenti a esercitare le loro possibilità e capacità di vivere o almeno sopravvivere in un mondo che non è un inferno di disperazione ma si configura come un luogo dove non si regala niente a nessuno e la legge suprema è quella dei rapporti di forza.
La penosità delle situazioni psicosociali patite dai protagonisti può essere esemplificata da due graphic novel nei quali la stagione adolescenziale viene funestata dalla scomparsa della madre, in entrambi i casi alquanto scombinata ma amatissima. Nel citato Non mi sei mai piaciuto il piccolo Chester reagisce alla perdita chiudendosi in se stesso, sgomentato dalla spavalderia di coetanee troppo emancipate per lui, ancora bisognosissimo di protezione affettiva. Invece in Mia madre era una donna bellissima di Karlien De Villiers la ragazzetta Karla regge impavida lo sfascio della sua famiglia, le umiliazioni della miseria, i dissidi con una matrigna troppo giovane, in quanto a infonderle energia è il suo paese, in fase di ascesa irreversibile. Siamo infatti in Sudafrica, negli anni di transizione dal razzismo alla democrazia.
Il libro di Brown è tutto calato nelle questioni sempre problematiche dell’esistenza sessuale; quello della De Villiers invece illumina il ricambio generazionale come un fattore dinamico di ringiovanimento civile. Beninteso, la diversificazione profonda degli orientamenti e assetti narrativi è scontata, in un modulo di racconto che ha avuto rapidissima diffusione nell’intero pianeta, in pochi decenni. Si impone però almeno una constatazione d’indole generale: il graphic novel risponde ai desideri di lettura delle ultime generazioni, che non ne possono più dei supereroi creati da sceneggiatori e disegnatori affetti da un percepibile infantilismo psichico.
Il romanzo a fumetti si incardina su personaggi spiccatamente antieroici, rappresentanti di una umanità media e comune, alle prese con gli impegni e impicci della quotidianità. E questo si è rivelato un terreno molto propizio alle trovate inventive concepite col ricorso a un mezzo di linguaggio privo delle patenti di nobiltà letteraria più consolidate. D’altronde la nuova tipologia produttiva ha un presupposto di modernità straordinario, perché si fonda sulla attitudine a sintetizzare due linguaggi, figurazione e scrittura, nella forma spettacolare di un racconto per strisce disegnate di vignette, combinate con battute dialogiche.
La facilità dell’approccio al libro fumettato è ovviamente basata sulla immediatezza della percezione visiva sollecitata dalle vignette disposte in successione geometrica. Ma rinserimento delle «nuvolette» distribuite fra i vari personaggi in scena dà ai singoli riquadri una densità di comunicazione espressiva incomparabile. Così alla massima disponibilità fruitiva può fare riscontro la più idiosincratica personalizzazione stilistica. La sintassi narrativa che si realizza disponendo in sequenza le vignette, variandone la cronologia, il formato, la coloritura ha potuto autorizzare i fumettisti alle manipolazioni formali man mano più sofisticate.
E accaduto insomma che una tecnica di racconto destinata originariamente a un pubblico paraletterario o preletterario, perché poco colto o in quanto minorenne, si sia sollevata tanto da incontrare le attese e le richieste dei ceti giovanili intellettualmente più spregiudicati. Naturalmente ciò non implica l’estinzione del fumetto di confezione più popolare e smercio più largo: ci mancherebbe che dovessimo assistere al tracollo dell’editore Bonelli. Ma l’avvento del graphic novel conferma definitivamente che questa nuova musa, figlia bastarda di un incrocio tra codici linguistici radicalmente dissimili, ha potenzialità di sviluppo del tutto illimitate.
Il fatto è che i grandi rivolgimenti epocali della fenomenologia culturale prendono avvio dal basso ed è con la forza della loro ruvidezza che irrompono nel sistema delle forme espressive canoniche, metamorfosandone l’assetto. Così è stato per l’avvento del romanzo in prosa, così ancor più per il linguaggio filmico. S’intende che la legittimazione delle nuove procedure di comunicazione espressiva avviene per gradi man mano che si realizzano esperienze autoriali capaci di rendere le innovazioni accettabili e gradite alla sensibilità delle élite di gusto più autorevoli. Penso a quel che accadde in Italia nel 1965, con il primo numero della rivista «Linus», che pubblicava i «Peanuts» di Schulz corredati dalle parole di apprezzamento entusiastico di del Buono, Eco e Vittorini.
La tecnica era ancora quella della striscia di vignette autoconclusa. Ma con un coordinamento instancabile della moltitudine di piccoli aneddoti narrativi, fatti valere come variazioni garbatissime sulla psicologia di un’infanzia ancora bambina eppure già molto adulta. La coralità protagonistica di Schulz era un preannunzio della figura più tipica del graphic novel: l’adolescente allo sbando, con la coscienza divisa tra l’ansia di un rafforzamento dell’io e il desiderio di solidarietà con i propri consimili. Può apparire emblematico che uno dei più ampi graphic novel, quello di Craig Thompson, abbia per titolo Blankets, che richiama subito alla memoria la piccola copertina, talismano inseparabile del personaggio di Schulz.
Ma Linus non uscirà mai dal suo trasognamento, come non smetterà mai di succhiarsi il pollice. Il ragazzo di Thompson invece si sbarazzerà senza complimenti della coperta trapuntagli dalla sua ragazza, quando sarà giunto il momento di allacciare relazioni più impegnative. Non per nulla il disegno di Blankets è assai più dinamicamente arioso rispetto alla fissità struggente delle vignette dei «Peanuts».
Le vicende di questi giovani nevrotici, spavaldi e goffi, ansiosi di crescere e facilmente vulnerabili riluttano a essere inserite nella gabbia tradizionale dell’impaginazione fumettistica. La dimensione del singolo riquadro si allarga e si rattrappisce, nell’alternanza di primi piani e panoramiche. La successione delle strisce si fa duttile, tra orizzontalità e verticalità. E gli stili grafici si sbizzarriscono, variando dall’iperrealismo pop alla deformazione caricaturale.
Forse, la tendenza ricorrente più significativa riguarda il contrasto fra la leggerezza della matita e la gravità dei fatti testualizzati, o viceversa. Valgono a esempio due titoli. Lo statunitense Joe Matt in Il bel tempo carica le linee, inturgidisce grottescamente i lineamenti per parlare delle piccole monellerie di un ragazzetto sguaiato, insolente, avido ma pavido e piscialletto; mentre Marjane Satrapi adibisce una elegante sobrietà ironica a pupazzettare i malanni e i guai dei personaggi di Persepolis, ambientato nell’Iran dei cupi ayatollah.