Il modello di lavoro di «cultura creativa» della casa di produzione di Toy Story, Cars e Alla ricerca di Nemo è capace di calamitare, da discipline diverse, persone che lavorano quotidianamente insieme per sciogliere i problemi che dividono il concept di un’idea narrativa dalla sua trasformazione in storia raccontata. Una linea di condotta in cui non è la logica piramidale a creare la dorsale operativa, quanto piuttosto il lavoro di squadra al servizio di una storia. Non si tratta – non ancora – di andare a lezione di editing da Saetta McQueen, ma l’avventura Pixar svela inedite potenzialità per altri settori creativi dove la storia continua a essere regina, compreso il lavoro editoriale.
Dell’avventura della Pixar e di John Lasseter molto si è scritto, molto hanno parlato i protagonisti, molto si è premuto sul case history. I termini in cui la Pixar è entrata nella letteratura sono comunque e sempre leggendari. A buon titolo, va detto. E senza dubbio il tempo degli approfondimenti comincia ora. Non è un caso che Edwin Catmull, presidente e cofondatore dei Pixar Animation Studios, stia licenziando un volume dal titolo estremamente significativo: The Creative Culture.
Rammento rapidamente la storia della Pixar. John Lasseter è un fanatico di cartoni animati. Fra i suoi primi impieghi, il ruolo di guida nel Jungle Cruise del parco Disneyland di Anaheim. Comincia a lavorare all’interno degli studios nel reparto animazione ed è affascinato dalle possibilità del computer design. Entra successivamente nel reparto animazione della Lucasfilm insieme a Ed Catmull e Alvy Ray Smith. Catmull è un accademico geniale e lungimirante (viene dall’università dello Utah e dal New York Institute of Technology). La Pixar Imaging Computer è un segmento ridotto della Lucasfilm, con obiettivi confinati alla messa a punto di hardware e software, e soprattutto un segmento improduttivo (anche se si spera di implementarne le possibilità nella ricerca medica). Si fanno avanti per acquisirla la Generai Motors e Steve Jobs. E il 1986. Con 10 milioni di dollari Jobs la porta a casa e la avvia. Ma ci vogliono cinque anni per la svolta decisiva, nuovi investimenti e l’ingresso della Disney, che partecipa con 26 milioni di dollari alla produzione di un pacchetto di tre film. E solo allora che comincia la storia della Pixar, come la conosciamo. E il primo grande progetto è Toy Story, un progetto che, peraltro, alla Disney non piace. Non piace il titolo, non piace il personaggio protagonista – Woody, il cowboy-giocattolo. Eppure, il film va in porto ed è un successo planetario. Seguono A Bug’s Life. Megaminimondo (1998), Toy Story 2. Woody e Buzz alla riscossa (1999), Monsters, Inc. Monsters & Co. (2001), Finding Nemo. Alla ricerca di Nemo (2003), The Incredibles. Una «normale» famiglia di supereroi (2004), Cars. Motori ruggenti (2006), Ratatouille (2007), Wall-E (2008), Up (2009), Toy Story 3. La grande fuga (2010), Cars2 (2011).
Il corpus di opere, relativamente ampio, rivela una compattezza piuttosto straordinaria. Si avverte, anche in assenza di informazioni sulle caratteristiche aziendali della Pixar, una fortissima spinta propulsiva di squadra che incide sulla stessa identità stilistica e narrativa. Rispetto alla consuetudine del lavoro «collettivo» degli studios cinematografici americani, e più in particolare rispetto alla concertazione produttiva degli studi di animazione (i Disney, ma non solo), qui si avverte un più convinto intervento sul rapporto fra contenuti, mezzi espressivi e brand awareness. E come se la cifra dell’azienda fosse consustanziale alle opere, come se la «missione» fosse ispirazione e obiettivo della scrittura cinematografica.
Si pensi per esempio a uno dei temi ricorrenti nei film Pixar, quello dell’amicizia che salda e salva. Woody e i suoi compari sono una compagine che ha costruito il proprio legame sulla dipendenza dal ragazzino Andy, che li ha illuminati con la sua fantasia e con il gioco: nei confronti di Andy (nell’ultimo episodio ormai cresciuto) nutrono una progressiva e sempre più difficile forma di lealtà, e devono combattere, insieme, e ogni giorno, contro il tempo che li sottrae all’amore e al gioco attivo, al playtime. In una parola, lottano per restare sempre giocattoli, e lottano per restare sempre insieme, perché insieme sono cresciuti. Sono amici, non meno di James P. «Sulley» Sullivan e Mike Wazoski in Monsters Inc., non meno di Remy e Alfredo Linguini in Ratatouille, non meno delle automobili derelitte sulla derelitta Route 66 in Cars, non meno dei pesci dell’acquario del dentista in Finding Nemo, non meno di Cari Fredricksen, dello scout Russell e del cane Dug in Up. E il tema dell’amicizia è così forte che, significativamente, Randy Newman, nelle canzoni di alcune colonne sonore, ne celebra la forza e ne fa un triplice inno: in Monsters, Inc. con I Wouldn’t Be Nothing if I Hadn’t You, in Toy Story 2 con You Have a Friend in Me e in Toy Story 3 con We Belong Together. «You and me together / that’s how it always should be / one without The other / don’t mean nothing to me / Yes, I wouldn’t be nothing / if I didn’t have you», «And as The years go by / boys, our friendship will never die / you’re gonna see it’s our destiny / you have a friend in me» e «Talk about friendship, and loyal things / talk about how much you mean to me / and I promise I’il always be by your side / whenever you need me». E come se quel «Non sarei nulla se non avessi te», quel «la nostra amicizia non morirà mai» e quel «sarò sempre al tuo fianco» alludessero a un clima, a una febbre, a una consuetudine non soltanto sentimentali, e non soltanto fictionous. Insieme si può vincere, insieme si può sopravvivere, insieme si può superare ogni sorta di difficoltà.
Siamo di fronte a un tema e a un modello che nella cultura americana vengono da lontano (basti citare Twain, e i suoi Tom Sawyer e Huckleberry Finn) e che soprattutto sembrano riemergere quando si impone una svolta radicale (sociale, produttiva, creativa). E la svolta radicale, nel caso della Pixar, è senza dubbio rappresentata dalla tempesta di possibilità scatenata dalle nuove tecnologie e soprattutto dalle loro applicazioni. Una tempesta contagiosa che finisce con il richiamare intorno al nucleo fondatore una vera e propria «comunità di artisti», come la chiama Edwin Catmull in How Pixar Fosters Collettive Creativity. Non specialisti in tecnologie grafiche. Non creatori del software RenderMan. E inoltre: comunità. Non management. Non società. L’impennata di innovazione – lo sentiamo ripetere come un mantra declinato con accenti diversi in molte interviste, compresa quella televisiva condotta da Charlie Rose (ottobre, 1996) che vede affiancati SteveJobs e John Lasseter – è la qualità del lavoro di squadra e la priorità dell’entertainment. Il «brain trust» della Pixar è composto da Lasseter e otto registi (Andrew Stanton, Brad Bird, Pete Docter, Bob Peterson, Brenda Chapman, Lee Unkrich, Gary Rydstrom, Brad Lewis). Scrive Ed Catmull: «Quando un regista e un produttore hanno bisogno di assistenza, convocano il gruppo al completo (e chiunque altro ritengono necessario) e presentano la versione corrente dell’opera a cui stanno lavorando. Seguono due orette di vivaci scambi d’opinione: obiettivo, migliorare il film. Nessuna traccia di ego. Niente buone maniere all’ingrosso. E così si può fare perché tutti i partecipanti hanno imparato ad avere fiducia e rispetto l’uno dell’altro. Tutti sanno che è meglio siano i colleghi a mettere a fuoco i problemi mentre c’è ancora tempo per scioglierli, piuttosto che affrontarli quando è il pubblico a sollevarli ed è troppo tardi. E davvero eccezionale come siano davvero capaci di scioglierli i problemi, e vederli all’opera stimola solo a far meglio […]». E la cosa avviene anche per i cosiddetti «giornalieri»: «Si mostra il lavoro non finito all’animation crew, e sebbene sia il regista a prendere l’ultima decisione, ciascuno è invitato a dire la sua».
Per quanto sia lecito immaginare la complessità e le contraddizioni di un modello di lavoro siffatto (basterebbe la damnatio memoriae di un grande personaggio come Alvy Ray Smith, escluso dal website della compagnia malgrado sia stato tra i cofondatori), è pur vero che il gruppo Pixar è venuto consolidandosi nella forma che conosciamo e che, nella sua ventennale esistenza, rivela una insistenza – non solo teorica – dentro (il catalogo delle autocitazioni è lunghissimo, una per tutte, la comparsa di Woody fra i giocattoli di Boo in Monsters Ine.) e al di là delle opere prodotte (l’accorta politica del merchandise). Quando Brad Bird negli extra del dvd di Ratatouille dice: «La creatività non si forza, bisogna invece dar forma a un ambiente capace di favorire la creatività», sappiamo che lo dice con ragione di causa, sappiamo che sta parlando di un concretissimo iter di lavoro che non teme la condivisione di ogni segmento della creazione e della produzione, e che, anzi, da quel «controllo» si aspetta, a ogni nuova avventura, una veritiera e feconda conferma sul piano dell’entertainment, sul piano della qualità, e naturalmente sul piano del business.
Catmull sottolinea spesso come non ci sia stata mai una idea «acquistata» all’esterno, come insomma la Pixar abbia preferito investire sul consolidamento della «comunità» e sul lavoro degli «interni» piuttosto che andare a cercare «prestazioni» altrove.
Sembra di poter riconoscere una linea di condotta in cui non è la mera logica dell’organigramma piramidale a creare la dorsale operativa e strategica degli studios, quanto piuttosto quella che privilegia il lavoro in comune e le figure che, in quel lavoro, guadagnano autorevolezza e la sanno applicare in un gioco di squadra collaudatissimo.
La qualità si costruisce semmai attraverso la tentazione del vincolo amicale (John Lasseter dice che le prime persone che gli vengono in mente per fare una vacanza sono i suoi sodali della Pixar) piuttosto che con una politica aziendale verticalizzata.
Siamo di fronte a un processo che, correttamente, Ed Catmull chiama «cultura creativa»: un processo capace di calamitare, da discipline diverse, persone che lavorano quotidianamente insieme per sciogliere gli aspetti problematici che dividono l’high concept di un’idea narrativa originaria dalla sua trasformazione in storia raccontata. Dice John Lasseter: «La tecnologia ispira l’arte, e l’arte sfida la tecnologia». È vero, stiamo parlando di cartoni animati, o se volete di cinema, ma non riesco a non sentire una relazione con tutta l’industria culturale, con la potenziale «cultura creativa» che esprimono, o dovrebbero esprimere, case editrici, televisioni, istituti culturali.
E allora veniamo al titolo di questo intervento.
«La regina è la storia» dice Lasseter, e lo dice a fronte del fatto che, per quanto lo scatto tecnologico sia stato fondamentale, gli autori della Pixar sanno che l’obiettivo vero è narrare e che la narrazione deve essere conseguente e convincente. Nel termine «story» è evidentemente compreso sia lo schiocco di dita dell’idea (che so, che la paura ha bisogno di essere alimentata onde la società parallela dei mostri – non meno politicamente complessa di quella umana – possa sopravvivere) che il lavoro sul dipanarsi di quell’idea, sull’approfondimento dei personaggi che ne incarnano le linee guida, sulle loro voci, e sulla «voce» dell’opera nel suo complesso. Dove la storia è regina la stessa identità di autore sembra ritrarsi in una dimensione appena arretrata – preromantica, premoderna, malgrado o proprio in ragione della modernità degli strumenti. L’idea forte è autorale, o pluriautorale (e non a caso esiste un ruolo che si chiama story supervisor), ma la vera efficacia della storia è misurata nel lungo, defatigante processo che verifica la fondatezza di ogni sequenza e il legame che lega l’una sequenza all’altra. Qui è necessario, sia pur rapidamente riassumere le tappe di un film Pixar. Lo ha fatto con precisione e humour Anthony Lane sul «New Yorker» (16 maggio 2011, The Fun Factory. Life at Pixar): «Prima hai un’idea, giocattoli che parlano, il parenting ittico, l’ultimo robot del mondo. Cose così. Poi si scrive un soggetto che si dà a tutti nella bella masnada di amici […]. Una volta che hai il tuo bel racconto, si crea uno storyboard, che a sua volta si trasforma in uno storyreel: una serie di immagini appena schizzate, con un sonoro da coordinare, che può essere letto, tanto per capirci, come un flip book. Le voci le prestano, temporaneamente, gli impiegati della Pixar. Il dipartimento arte si fionda nella ricerca dettagliata, i set dresser riempiono gli sfondi, i modeller mettono a fuoco i personaggi, e intanto c’è chi provvede a fornire un layout con immagini e movimento. Vengono quindi chiamati gli attori veri e propri a registrare le battute […]. Poi tocca agli animator, che conferiscono al tutto succo e vividezza. A volte riescono a produrre due secondi di girato al giorno […]. Seguono gli effetti speciali dove l’animazione lo richiede. Quando tutti questi settori hanno fatto il loro lavoro, arriva il momento del rendering. Vale a dire il momento in cui le immagini animate sono trasformate in frame digitali – un film va a 24 frame al secondo, e nei film della Pixar ci sono singoli frame così densi di informazioni che richiedono anche 40 ore di rendering […]. L’ultima parte del lavoro tocca ai mixer, che sincronizzano musica, dialoghi ed effetti sonori nella pista audio. Così si fa un film alla Pixar. Scivola via come l’olio. Normalmente, ci vogliono quattro anni».
Ma torniamo alla «storia regina». John Lasseter ha anche detto: «Le nuove tecnologie ci offrono una nuova matita molto costosa, ma non è diversa dalle matite della tradizione Disney […]. Noi disegniamo storie». Se c’è la storia, c’è il film. E c’è il film se la costosa matita interpreta lo spirito della storia e lo dispiega, per l’appunto, in racconto. Quel che risulta fascinoso, nell’avventura Pixar, è come questi «racconti», nel senso più alto della tradizione postmoderna, siano effettivamente narrazioni complesse, intrattenimento attivo a gradi diversi di assimilazione: quello semplice e immediato (che vorremmo chiamare «infantile» ma solo per rendere ragione dell’intelligenza ricettiva dell’età), quello emotivo (che si contenta della stupefazione e della rotondità del messaggio) e infine quello più esercitato che, sia pure a fronte di una inevitabile assimilazione di primo grado, decodifica poi la raffinatezza della costruzione, la pertinenza drammatica e figurativa delle citazioni, il sofisticato esito delle applicazioni informatiche. E in effetti il «racconto Pixar» è anche una grande riflessione «in atto» sulla narrazione, come codice capace di produrre significato.
Quando Pete Docter dice, a proposito di Up che ha scritto e diretto insieme a Bob Peterson, che alla Pixar la sfida è la sorpresa che ogni nuovo film dovrebbe riservare, sottolinea con semplicità lo sforzo titanico di legare l’originalità di un’idea narrativa a una sequenza ininterrotta di invenzioni altrettanto originali. Ma dove il concetto di originalità non coincide mai con il non mai scritto, il non mai visto. Docter sa bene che la figura del vecchio burbero e misantropo e quella del piccolo rompiscatole ottimista non sono, in sé e per sé, «nuove». Ma nuova è la spinta che li lega, attraverso una tale molteplicità di invenzioni vicarie (dal cane con collare telepatico all’uccello non volante Kevin), e soprattutto di dettagli e microdettagli, che la storia maggiore finisce con il muoversi «naturalmente» su binari effettivamente «nuovi». La sorpresa non è dunque né la meraviglia (in senso tradizionalmente barocco) né l’esclusività, quanto piuttosto la verifica, frame dopo frame, della pertinenza logica e fantastica di una storia. Cari Fredricksen e Charles F. Muntz sono entrambi vecchi incattiviti: uno redimibile, l’altro no. Più dickensianamente che shakespearianamente, Docter e Peterson danno a entrambi una possibilità e su questa «possibilità» si muove la storia. L’effetto Pixar è che noi aspettiamo veramente di sapere come il burbero sarà conquistato e il cattivo sarà punito, non senza dimenticare che il quartiere di Cari è stato distrutto da «altri» ignoti cattivi (e questo è un colpo di coda che torna sempre nei film Pixar: la fabbrica di Monsters Inc., il supermercato di Toy Story 2, gli umani di Finding Nemo e i grassi dell’astronave Axiom di Wall-E).
La particolarità nel lavoro dell’animazione è che non si può contare su scene girate diversamente che si scelgono in sala di montaggio. I costi già elevatissimi esploderebbero. Dunque, ogni scena dev’essere pertinente e perfetta. E la pertinenza discende da una verifica in storyboard e in storyreel.
A partire da questa logica della pertinenza (nonché dal rapporto vivificante con la tecnologia) non posso non pensare a una prossimità fra l’avventura Pixar e le potenzialità che si aprono per altri settori creativi dove la storia continua a essere regina, ivi compreso il lavoro editoriale. Si fa tanto parlare del lavoro dell’editing, perlopiù vanamente, quando invece sarebbe giunto il momento di parlarne, sì, ma alla luce di una più severa concezione del rapporto fra creazione e contributo al processo creativo. Senza una meccanica traduzione dall’una all’altra esperienza, è pur evidente come il modello Pixar (molto più di quanto tradizionalmente accade nel cinema) mette in crisi la genialità isolata e l’isolamento altrettanto marcato di agenti, editor, redattori, uomini di marketing. Ed è egualmente evidente come l’editoria digitale apra orizzonti all’esperienza della scrittura e del lavoro editoriale, al di là della mera traduzione dalla carta al digitale.
Come scrive Michael Rubin in Droidmaker, prima degli anni novanta le produzioni della Pixar Image Computer vogliono solo dimostrare le potenzialità del graphics hardware (quantunque Cattmul e Smith sognassero sin da allora un vero e proprio film), ivi compreso il corto Luxo Junior da cui discende la celebre lampada da tavolo del marchio Pixar. Di pari passo con l’insuccesso dell’hardware andò la consapevolezza di poter investire sulla computer grafica per realizzare storie (malgrado una prima forma di indifferenza di Jobs) e l’influenza di Lasseter poté dispiegarsi pienamente. Pur stabilendo le debite proporzioni, ci troviamo di fronte a una crisi in cui l’offerta tecnologica è alta e gli apparati tradizionali di produzione e commercializzazione sono spaventati. Esistono ottimi artigiani (e non dimentichiamo che la Lucasfilm passò in dote alla Pixar la valorizzazione del dettaglio, la consapevolezza della cesellatura, la padronanza di un mestiere), esistono scrittori che hanno compreso, senza cedere alla tentazione dello scandalo, che la narrativa è, anche ai più alti livelli, una forma di intrattenimento. Esistono, sia nel cinema che nell’editoria, ottime scuole. Sul fronte tecnologico naturalmente esistono tools in cui l’una e l’altra destrezza vengono «ospitate». Manca la sfida motivata e motivante di un lavoro di squadra che sia al servizio della regalità di una storia.
Ogni volta che rivedo un film Pixar (e i fantastici extra dei loro dvd) non posso non pensare dove e come l’opportunità di un lavoro diverso potrebbe prendere velocità e cominciare a mostrarsi.
Ma questo è forse il tema di un incontro collettivo.