Il graphic novel venuto dall’Oriente

Quella dei fumetti venuti dall’Est è una storia «altra» e levogira come il senso in cui si leggono i manga. Una storia costruita da individui intraprendenti che nel dopoguerra si improvvisano editori e inventano una nicchia di prodotti di intrattenimento a basso costo distribuiti nei mercatini e nei chioschi di dolciumi. Una storia che ha come nume tutelare un autore multiforme e geniale come Osamu Tezuka, capace di dare vita per primo a duecentocinquanta pagine di racconto dal montaggio sconvolgente, ma anche di sostenere, nel 1967, «… siamo nella situazione in cui i fumettisti lavorano fino alla morte e sono costretti a sottomissione, servitù e connivenza con i crudeli requisiti del fumetto commerciale».
 
C’è stato un tempo in cui i libri a fumetti sembravano una stranezza destinata all’accolita di adepti di una disciplina misteriosa. Da qualche anno non è più così. Con il nome graphic novel, questi libri hanno conquistato uno spazio importante nei consumi e nei discorsi intorno alla lettura. Il nome inglese del prodotto e la prepotente presenza di libri nordamericani nel settore che le librerie dedicano al fumetto inducono spesso i lettori a credere a un’origine tutta statunitense del fenomeno. Eppure altre nazioni hanno una storia articolata e composita di fumetti lunghi, spesso non seriali, destinati a un pubblico anche adulto e venduti in forma di libro.
Il Giappone è – per volume di affari, quantità di titoli e articolazione dell’offerta – il mercato del fumetto di gran lunga più grande del mondo. Quella enorme distesa di pagine in cui si mescolano parole e immagini viene offerta ai suoi lettori in formati e moduli diversi. Da un lato c’è lo spazio per la serializzazione dei personaggi più importanti che appaiono periodicamente sulle pagine delle riviste vendute in milioni di copie nelle edicole e nei negozi virtuali di applicazioni per i tablet pc (iPad in testa); dall’altro c’è il formato destinato a un consumo meno veloce e a essere conservato, il libro.
Le origini di questo modulo narrativo, indistinguibile da quello che da noi si chiama graphic novel, affondano lontano, ma fortunatamente la loro storia è nota al punto di permetterci la chiara identificazione dei dati di nascita: luogo, data e nome dei genitori.
Osaka, 20 agosto 1946: durante la prima riunione dei fumettisti della rivista «Manga man», lo sceneggiatore Sakai Shichima affida a un ambizioso disegnatore diciannovenne, che aspira a diventare tanto un chirurgo quanto un autore di fumetti, la storia Shin Takarajima, La nuova isola del tesoro. Shichima ha letto Il diario di Machan, una serie di strisce pubblicata dal ragazzo su un quotidiano, e ne apprezza già il talento. Quello che lo sceneggiatore non può sapere è che, con quel semplice gesto, ha appena segnato in maniera indelebile la storia del fumetto giapponese perché quel ragazzo lo rivoluzionerà: il suo nome è Osamu Tezuka.
Nelle intenzioni di Ikueisha, la casa editrice di «Manga man», e dello stesso Shichima, La nuova isola del tesoro deve essere un akahon: una storia di poche pagine (tra 24 e 48), stampate male e copertinate con cartoncino leggerissimo.
La sconfitta bellica ha provato e impoverito tremendamente il popolo giapponese e l’editoria sta attraversando una terribile crisi legata principalmente agli alti costi di produzione dei libri. Per permettere ai più giovani di leggere, alcuni individui intraprendenti si improvvisano editori, stampatori e distributori e inventano una nicchia di prodotti di intrattenimento a basso costo. Gli akahon raggiungono così il proprio pubblico muovendosi su un canale alternativo a quello dell’editoria ufficiale: appaiono nei mercatini e nei chioschi di dolciumi, infilati in espositori a essi specificamente dedicati.
Una nicchia commerciale resa ancora più esigua dalla peculiare localizzazione del fenomeno: questi editori operano principalmente nella zona del Kansai, e in particolare a Osaka, la città in cui vive anche Tezuka. Nelle pagine di questi libriccini vengono proposte storie brevi in una limitata varietà di generi, principalmente umoristico e fantastico. Le tavole hanno una struttura regolare composta di tre o quattro vignette orizzontali, che richiamano la prospettiva fissa e la disposizione dei personaggi della tradizione del teatro giapponese.
Tezuka è un avido consumatore di fumetto e cinema americani. Questa passione ha formato il suo sguardo al punto di rendergli inaccettabile il vincolo dell’inquadratura fissa tipica del manga di quei giorni: un limite che riduce le possibilità del racconto, smorzando le caratterizzazioni dei personaggi e il movimento nelle scene d’azione. Quando il giovane fumettista consegna la prima versione della Nuova isola del tesoro, Shichima si trova tra le mani un oggetto completamente nuovo: duecentocinquanta pagine di racconto, caratterizzate da un montaggio sconvolgente, fatto di continui cambi d’inquadratura, controcampi, primi piani e dettagli, che permettono al disegnatore di esprimere un ampissimo ventaglio di emozioni.
La paura di pubblicare un prodotto troppo diverso da tutto quello cui i lettori giapponesi sono abituati induce l’editore a operare un taglio al numero di pagine e ad apportare molte modifiche alla storia. Nonostante questo pesante intervento editoriale, La nuova isola del tesoro diventa un immediato successo e arriva a vendere un numero impressionante di copie tra i giovani lettori. Stime assai imprecise indicano una forbice di vendite tra le 400 e le 800mila copie, una quantità tale da aver toccato un’intera generazione: uno shock nel consumo di storie capace di creare un pubblico che, da quel momento, non avrebbe più smesso di leggere fumetti. Il successo di quel singolo libro trasforma in modo radicale il mercato degli akahon, che, anche grazie a questa insperata iniezione di vitalità, vive un decennio luminoso, tra il 1948 e il 1958. Il solo Tezuka ne disegna altri trentacinque fino al 1953, quando si trasferisce definitivamente a Tokyo. Il successo della Nuova isola del tesoro e degli altri libri di Tezuka produce un duplice effetto: da un lato spinge gli editori a pubblicare racconti sempre più lunghi, e dall’altro convince tantissimi autori emergenti, ansiosi di seguire le orme del maestro di Osaka, ad accettare paghe misere e ritmi di produzione serratissimi per realizzare volumi sempre più corposi. L’aumento delle pagine si traduce, inevitabilmente, in un aumento dei costi: alcuni titoli arrivano a superare il prezzo di 100 yen, una cifra decisamente troppo alta per i ragazzi cresciuti durante il dopoguerra. Uniche alternative per grandi e piccoli lettori sono le kashihonya, librerie che, per la modica cifra di 10 yen, permettono di prendere in prestito libri e riviste: per gli editori di akahon questo nuovo canale di vendita significa salvezza dal fallimento certo; per gli autori l’insperata esposizione rappresenta la concreta possibilità di raggiungere un pubblico assai più ampio del numero di copie stampate.
Alla fine degli anni cinquanta, il mercato del fumetto è completamente cambiato: i giapponesi si sono ripresi dalle ristrettezze del dopoguerra e hanno conquistato una nuova sicurezza economica che consente loro di aumentare la spesa per l’intrattenimento. Le librerie kashihonya iniziano a chiudere e, con loro, gli editori improvvisati di Osaka che su quegli spazi hanno costruito il proprio successo. Tokyo diventa il centro produttivo del fumetto e l’industria editoriale collocata nella metropoli capisce che per soddisfare le aspettative dei lettori bisogna ridurre i contenuti educativi delle riviste per ragazzi in favore dell’intrattenimento a fumetti. A effetto di questa trasformazione, le vendite aumentano esponenzialmente, così come le reazioni di orrore e disgusto delle famiglie e degli insegnanti.
Nel frattempo i primi lettori della Nuova isola del tesoro sono cresciuti e, con l’età, sono cambiati anche i loro gusti. Gli editori sopravvissuti a Osaka cercano di assecondare questa evoluzione dei consumi, smarcandosi dai modelli produttivi di Tokyo, con la produzione di storie dai temi più adulti: nascono i kurai, antologie mensili che raccolgono fumetti dai toni cupi, influenzati dalla letteratura e dal cinema hard-boiled statunitensi. In particolare, sulle pagine delle riviste «Kage» e «Machi», un gruppo di giovani autori sperimenta tecniche e forme del racconto che prendono le distanze dalla serialità e dai generi del fumetto di Tokyo, di cui Osamu Tezuka è diventato il massimo esponente. Nel 1957, guidato dal fumettista Yoshihiro Tatsumi, un gruppo di giovani autori annuncia ai propri lettori la nascita del movimento gekiga, che si fa latore di un nuovo genere di fumetto, più realistico e specificamente pensato per un pubblico adulto. In breve il gekiga arriva anche a Tokyo, ospitato dalle riviste settimanali destinate a un pubblico che oggi definiremmo di young adults. Le migliori condizioni di lavoro inducono gli autori di stanza a Osaka – tra questi lo stesso Tatsumi – a spostarsi nella capitale.
In pochi anni, la competizione tra le case editrici di Tokyo cresce al punto da rendere necessari processi produttivi serratissimi e un controllo stringente sulla serialità e sui contenuti dei fumetti perché essi assecondino il più possibile l’idea che i caporedattori hanno dei desideri del pubblico. Gli autori provenienti da Osaka patiscono in modo particolare queste interferenze: scoprono di dover quadruplicare le pagine disegnate ogni settimana e vedono svanire la totale libertà che veniva loro concessa dagli editori, quasi sempre improvvisati, con cui si erano confrontati fino ad allora.
In questo difficile contesto, Katsuichi Nagai decide di fondare, nel febbraio del 1964, una rivista di fumetti politici, «Garo», dedicata alle storie di impianto ideologico comunista del fumettista Sampei Shirato. La leggenda vuole che Nagai, scoprendo che la tubercolosi gli avrebbe lasciato poco da vivere, avesse deciso di investire tutti i propri risparmi nella pubblicazione di un mensile, importante e utile, per il quale essere ricordato. Un destino con un forte senso dell’umorismo avrebbe poi permesso a Nagai di far parte del comitato di redazione fino al 1996, anno della sua morte.
La copertina del primo numero di «Garo» è dedicata a «Kamui den», serie dedicata al ninja Kamui con cui Shirato vuole raccontare l’opprimente sistema feudale giapponese del XVI secolo, in cui il popolo sfruttato è una metafora delle masse contemporanee giapponesi entro la società industriale avanzata. Il fumetto ha una carica di rivalsa sociale e di lotta di classe così forte che, quando gli studenti giapponesi occupano le università alla fine degli anni sessanta, il ninja Kamui è una presenza costante sugli striscioni delle proteste. Le avventure di Kamui, sulle pagine di «Garo», continuano senza sosta fino al 1971.
Probabilmente stimolato dalla presenza delle riviste gekiga, e di «Garo» in particolar modo, Osamu Tezuka, nel 1967, decide di pubblicare «COM», un mensile di manga in cui gli autori possano presentare i propri fumetti, senza preoccuparsi di vincoli editoriali e diktat normativi. «COMics, COMmunication, COMpanion», precisa Tezuka nell’editoriale del primo numero, chiarendo che «COM» è la rivista che «pubblica le storie che gli autori vogliono disegnare», la rivista che «ospita le storie della nuova generazione di mangaka». E poi, prosegue: «Si dice che il manga sia oggi nella sua età dell’oro. Ma quanti sono i lavori davvero eccellenti pubblicati? Siamo nella situazione in cui i fumettisti lavorano fino alla morte e sono costretti a sottomissione, servitù e connivenza con i pesanti requisiti del fumetto commerciale. Non vi pare? Con questa rivista voglio mostrarvi cosa sono i veri manga».
Sono parole dure ed esplicite in modo inconsueto. Tezuka finge di ignorare il nome con cui il fumetto realistico è noto ai suoi lettori, gekiga, e lancia una sfida al mercato, usando parole che anticipano i manifesti delle avanguardie del fumetto europeo (espressi quasi tutti negli editoriali dei primi numeri di riviste di rottura).
E la durezza di quelle parole è inasprita dal ruolo che Tezuka ha per il fumetto e per l’animazione giapponese. Egli è l’autore più importante, quello che di lì a poco sarà definito «il dio dei manga». I ritmi e i vincoli cui l’industria lo sta costringendo lo portano a cercare uno spazio di libertà. «COM» è la rivista ideale per riproporre il suo progetto più ambizioso, La Fenice, la cui pubblicazione è stata interrotta con la chiusura di «Manga Shonen», periodico che ne ha ospitato i primi capitoli. Questa nuova Fenice avrebbe seguito una nuova impostazione: la creatura mitologica che dà il titolo all’opera non è più protagonista assoluta ma personaggio secondario, lo strumento con cui Tezuka può affrontare temi più adulti rivolgendosi a un pubblico più maturo. Nel dicembre del 1975 «COM» chiude i battenti: sulle sue pagine autori come Shinji Nagashima e Shotaro Ishimori hanno pubblicato le loro opere più sperimentali e sincere; il progetto «Grand Companion», isola felice in cui lettori, autori più esperti e nuove leve del fumetto potevano incontrarsi e interagire per contribuire alla formazione della «élite del fumetto», ha permesso ad autori dell’importanza di Azuma Hideo (noto in Italia per «Ichi the Killer» e «Homunculus»), Minori Kimura e Katsuhiro Otomo (che di lì a poco sarebbe diventato il regista del film Akira, tratto dalla sua opera più importante) di muovere i primi passi. La Fenice invece, orfana della rivista che l’aveva ospitata, prosegue il suo percorso sulle pagine di diverse riviste, compiendo di volta in volta quel processo di morte e resurrezione che è al centro della storia che racconta: è la sintesi della vita e del pensiero di Tezuka: una creatura che sopravvive a formati, stili e generi diversi.
Con questa straordinaria parabola, Tezuka è il nume tutelare di tutti i generi e di tutti i formati editoriali giapponesi. Ha avuto una carriera così multiforme e articolata da rendere possibili, prima che evidenti, tutte le sfumature che l’industria nipponica riesce oggi ad assumere.
L’attuale forma del mercato del fumetto giapponese è, soprattutto, merito suo. Uno spazio che permette i modelli di produzione e di lettura più disparati: dalle lunghissime serie con struttura iterativa e consolatoria, che abilitano la produzione di merchandising e prodotti crossmediali (animazioni, videogiochi, gadget e pupazzi), ai prodotti specificamente destinati a ogni fascia d’età o segmento di utenza potenziale. Fedeli all’insegnamento di Tezuka, molti autori continuano a cimentarsi nel fumetto, abbracciando, di volta in volta, la produzione seriale, il lungo manga con struttura e volontà romanzesca e, addirittura, le sperimentazioni narrative e visuali più spinte. Muovendosi tra l’enorme quantità di fumetti giapponesi presenti anche nelle nostre edicole, fumetterie e librerie, il lettore italiano può godere di una gamma di racconti che, mentre evidenzia fin dal senso levogiro di lettura dei libri l’enorme distanza culturale, mostra capacità e possibilità irreperibili nel fumetto e nel graphic novel occidentale.