Non è un paese per giovani. Tanto più se autori di fumetti. Per tutto il Novecento le storie disegnate, in Italia, sono state capaci di raccontare la società; oggi, la fine del benessere dovrebbe essere materia per i fumettisti più giovani, quelli che vivono sulla propria pelle l’instabilità del lavoro, la difficoltà di staccarsi dalle famiglie, la diffidenza nei confronti della politica, la perdita di fiducia nella società tutta. Eppure, non succede: vittime del precariato, di un mestiere che impone la clausura coatta, del mito bello e dannato (e datato) di Andrea Pazienza, gli autori nati dalla fine degli anni settanta evitano di confrontarsi con il proprio tempo. Con poche notevoli eccezioni ai confini dell’impero.
L’immaginazione divertente non ha solo lo scopo di distrarre e dare immediata soddisfazione e consolazione ai suoi fruitori. Da sempre è immersa in un bagno di realtà e, nei momenti più felici, riesce a raccontare, in presa diretta, la vita dei suoi autori e lettori. E non lo fa solo quando si dedica a narrazioni mimetiche e realistiche. Come ben sappiamo, i prodotti di consumo culturale, dalla letteratura di genere alle serie televisive, fino a giungere ai videogiochi, riescono spesso a offrire ai propri pubblici uno sguardo, talvolta addirittura illuminante, sulla vita quotidiana. E dovrebbero farlo anche oggi, mentre la crisi del sistema di produzione e distribuzione delle merci e dei servizi incide direttamente sulla forma dei nostri contratti di lavoro, che divengono sempre più instabili e precari.
Per tutto il Novecento il fumetto in Italia è stato capace di raccontare la società, anche spingendo sulla serialità e utilizzando i generi narrativi come chiavi di lettura del mondo e dei rapporti tra le forze sociali. Il più delle volte, ovviamente, ha prodotto letture semplificate e stereotipiche; ma, in alcuni casi sporadici, è riuscito ad affondare il proprio racconto nelle vene aperte di questo paese. Pare che questa capacità sia andata persa nel tempo e, infatti, è difficile riuscire a trovarne traccia nelle storie prodotte durante il primo decennio del Ventunesimo secolo.
Chi disegna fumetti presidia un osservatorio privilegiato sul mondo del precariato. Perché il suo è un lavoro atipico, solitamente fatto di ore di solitudine, al tavolo da disegno, a riprodurre ambienti, persone e relazioni che vivono fuori di quella stanza. E un po’ come un qualsiasi altro lavoro di scrittura. Solo che, per raccontare la medesima quantità di eventi, nella maggior parte dei casi, richiede più tempo.
In questo paese i fumettisti, oltre che della clausura coatta, sono anche vittima di un autore che è stato mitizzato più per la propria biografia scapestrata da rockstar che per i propri fumetti: Andrea Pazienza. Nell’ultima pagina di Pompeo (1987), suo capolavoro e testamento, il fumettista pugliese scriveva «non ho mai pensato al soldo, mentre disegnavo, casomai subito prima o subito dopo, mai durante», e ancora, «voglio dire che alla fine ho sempre fatto quel che ho voluto, senza badare acché ’ste cose si potessero poi rivendere di su o di giù».
Un lascito a generazioni di fumettisti che, dalla seconda metà degli anni ottanta (dalla morte di Pazienza, appunto), si sono ritrovati a confrontarsi con un mercato in chiusura, che assisteva a un progressivo standardizzarsi dei formati di produzione e pubblicazione. Fumettisti intimiditi dalla vita solitaria in studio, costretti a sostenere il peso di un mito che invitava a non vendere la propria arte.
Ma c’è una differenza enorme tra i personaggi di Andrea Pazienza e quelli degli autori che, pur sentendosi influenzati da lui, non hanno, per ovvie ragioni anagrafiche, potuto leggere le sue storie mentre venivano disegnate e pubblicate: i primi sono figure che vivono la contemporaneità del proprio autore, i secondi sembrano avulsi dal contesto in cui nascono. Negli undici anni in cui pubblica fumetti, dagli esordi del 1977 alla morte, trentaduenne, il 16 giugno 1988, Pazienza mette in pagina studenti fuoricorso che cercano di strappare una promozione a un esame per rimandare il servizio militare, tossicomani in astinenza che trascinano i piedi lungo le strade di città riconoscibili, bande di liceali allontanati dalle differenze di ceto ma tenuti gli uni accanto agli altri dalla voglia di riempire il vuoto che gli insopportabili anni ottanta stanno loro aprendo dentro, campeggiatori alla ricerca di sesso e di hashish, yuppie meneghini, insegnanti di disegno… Tutti personaggi riconoscibili che si muovono in ambienti noti, intessono relazioni credibili e parlano linguaggi che il loro autore reinventa partendo dal rumore della realtà.
La volontà di raccontare la società e la complessità e le contraddizioni del vivere caratterizza in quegli anni tutta la produzione di fumetti, anche quella commercializzata con le regole di una serialità più serrata. I mensili Bonelli ospitano un aggiornamento della forma del racconto iterativo e consolatorio fino a consentire la nascita di Dylan Dog, eroe manifesto di una generazione che ha superato il punk con difficoltà e si immerge – tardivamente – in una postmodernità fatta di citazionismo e intertestualità. Sulle pagine di «Topolino», la disoccupazione di Paperino e i suoi rapporti con lo zio miliardario continuano a fornire agli sceneggiatori italiani materiale narrativo per parafrasi della realtà.
A partire dagli anni novanta, con la progressiva chiusura delle riviste di fumetti gli autori assistono alla scomparsa di spazi periodici sulle cui pagine sperimentare e sperimentarsi. Questa sparizione costringe autori, editori e lettori a identificare nuovi formati: tra questi il libro a fumetti, denominato «graphic novel», risulta essere il più idoneo a ospitare storie che non possono essere inserite in albi seriali da edicola. Un nutrito gruppo di autori trova sulle pagine del graphic novel lo spazio adatto a raccontare le proprie storie: Igort, Vanna Vinci, Davide Toffolo, Gipi, Paolo Bacilieri, Elfo, Davide Reviati…
La fine del benessere può e deve essere raccontata principalmente dagli autori più giovani, quelli che vivono sulla propria pelle l’instabilità di un lavoro sempre più precario, la difficoltà di staccarsi dalle famiglie, la diffidenza nei confronti della politica, l’assenza di centri di aggregazione, la perdita di fiducia nella società tutta. Autori giovani che sentono addosso il peso degli insegnamenti di Andrea Pazienza, un mito che non possono aver letto con consapevolezza mentre veniva pubblicato.
Ed è incredibile osservare come nella quasi totalità degli autori nati dopo la metà degli anni settanta e pubblicati dalle case editrici italiane manchi la volontà di confrontarsi con il proprio tempo, anche quando esso potrebbe essere trasfigurato attraverso i generi.
Ci sono fortunatamente delle eccezioni ed esiste anche un libro straordinario, uscito nel 2007 per Coconino Press di Bologna, capace di antologizzarne, se non tutte, molte. Si chiama Gli intrusi, è curato da Pasquale e Roberto La Forgia con Michele Casella, ed è illuminante fin dal sottotitolo: Appunti da una terra vicina. Scrive Goffredo Fofi nella prefazione del volume: «Ci vuol poco a pretendere di possedere un immaginario e a crederlo originale e diverso: anche l’immaginario nasce dall’esperienza del mondo e, per esempio, è obbligatoriamente antropomorfo anche quando si crede o si vuole d’avanguardia e pretende di parlar d’altro. Soprattutto, per avere originalità e senso, l’immaginario non può essere la semplice ripetizione di un immaginario altrui e deve ancorarsi a qualcosa».
I dieci autori inclusi negli Intrusi, nati quasi tutti dopo il 1975, sono saldamente ancorati al contesto che li ha espressi, e dopo quel libro inatteso hanno proseguito il proprio cammino autoriale producendo altri fumetti che non smentiscono questa forte pulsione a essere contemporanei a loro stessi. Prendiamo, per esempio, due dei fumettisti presenti nell’antologia e guardiamo i libri che hanno pubblicato quest’anno. Alessandro Tota è uscito con Yeti, un graphic novel, edito da Coconino/Fandango. Il libro, caratterizzato da una colorazione ultrapop, si apre con una sequenza da picture book, che richiama, in qualche modo, le avventure dei Barbapapà di Annette Tison e Talus Taylor, per poi trasformarsi in una storia di lavoro precario e difficile integrazione delle diversità dell’immigrato. Manuele Fior, dopo il bellissimo La signorina Else, adattato dal romanzo breve di Arthur Schnitzler, ha pubblicato Cinquemila chilometri al secondo, storia di tre ragazzi che per crescere, lavorare, sopravvivere alle delusioni amorose e cambiare devono allontanarsi, abbandonando l’Italia per disperdersi in Norvegia e in Egitto. Una storia fitta e pregnante come lo scroscio di pioggia annunciato fin dalla prima pagina che racconta la difficoltà di definire la propria identità non solo durante l’adolescenza, ma quotidianamente, anche da adulti.
Questi due libri a fumetti non hanno equivalenti nella produzione italiana. Ed è illuminante osservare come entrambi siano stati pubblicati in italiano come opere importate: Yeti è uscito in Francia, per Sarbacane, con il titolo Terre d’accueil, il libro di Fior è stato inizialmente edito in Svizzera da Atrabile con il titolo Cinq mille kilomètres par seconde. Sembra quasi che non ci sia lo spazio perché un fumettista, adeguatamente retribuito, possa raccontare in questo paese storie capaci di raccontare l’Italia del dopobenessere. Ed è paradossale, infine, osservare che lo stesso Gli intrusi sia stato reso possibile da un finanziamento proveniente dal mondo extraeditoriale. Una di quelle istituzioni di cui è sempre più difficile fidarsi, la Provincia di Bari, ha garantito un compenso ai collaboratori e ha coperto in larga parte le spese di produzione del volume.