Dolorosamente, il precariato non è un argomento come tanti, ma uno dei fenomeni più importanti e diffusi del mondo tardoindustriale: un fenomeno evidentemente strutturale e di lungo periodo, forse irreversibile. D’altro canto non è scontato che la letteratura riesca a dare una rappresentazione adeguata di una realtà così insensata e inospitale da parere quasi indigeribile. Eppure nell’ultimo decennio non pochi scrittori hanno provato a raccontarci la nuova realtà del lavoro, in forme diverse, qualche volta sui confini della non fiction, altre volte più letterarie, con risultati di aspra efficacia, certo salutari rispetto all’evasività manierata di tanta nostra letteratura.
Circa cinquant’anni fa, nel cuore del dibattito su Industria e letteratura, aperto dall’omonimo numero 4 del «Menabò», Franco Fortini interveniva con uno dei suoi saggi più memorabili, Astuti come colombe («Menabò», n. 5, 1962; poi in Verifica dei poteri, 1965), stigmatizzando con durezza ogni lettura ingenuamente contenutistica del mondo industriale: «la serietà assoluta dei processi produttivi e delle loro implicazioni sociali […] è tanto grande da imporre alla metafora letteraria un livello molto arduo; l’industria non è un tema, è la manifestazione del tema che si chiama capitalismo». Oggi, non c’è bisogno di nessuna forzatura per riprendere le indicazioni fortiniane, riformulandole senz’altro così: «il precariato non è un tema, è la manifestazione del tema che si chiama capitalismo». Detto più rozzamente: non stiamo parlando di un problema fra tanti, stiamo parlando del cuore del mondo in cui viviamo.
Non è certo questa la sede per approfondire le dinamiche e gl’imperativi della terza rivoluzione industriale, che, come ci ha insegnato Jeremy Rifkin (La fine del lavoro. Il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato, 1995 e 2002), produce come suo effetto strutturale l’espulsione dal lavoro di masse enormi di terziario, cioè di ceti medi alfabetizzati colti. Notiamo, en passant, che questi ceti sono gli stessi che consumano e producono cultura e letteratura: il che significa anche, novità drammaticamente decisiva, che si è rotto il vincolo virtuoso fra acculturazione e possibilità di ascesa sociale. Allo stesso modo, possiamo qui soltanto accennare ai nessi profondi fra l’onnipervasività del precariato e i processi migratori, da un lato, e, dall’altro, la delocalizzazione degli apparati industriali, troppo spesso e troppo frettolosamente definita deindustrializzazione. La logica è evidentemente la stessa: si spostano le persone, o si delocalizzano le produzioni, per aumentare il profitto spendendo meno per la forza lavoro; il mero fatto di lavorare smette di essere un diritto e diventa una specie di privilegio, così che il potere dei datori di lavoro frantuma le fragili conquiste dei lavoratori e in genere le protezioni sociali del vecchio Welfare. Ho detto datori di lavoro, non capitalisti: una delle caratteristiche portanti, e sconvolgenti, del nuovo universo lavorativo è infatti che in moltissimi casi i lavoratori vengono assunti da terzi (le agenzie interinali), che ne vendono la forza lavoro alle aziende produttrici.
Gl’imperativi categorici del nuovo capitalismo sono, sistematicamente: alleggerire; snellire; velocizzare; aumentare la produzione e diminuire il personale; indebolire lo stesso legame fra padrone/azienda e lavoratore. Si vedano, fra le altre, le pagine di Zygmunt Bauman (in Modernità liquida, 2000) sulla sparizione del «modello Ford», cioè di un’azienda che costruisce un rapporto di fedeltà dei propri dipendenti: come, da noi, accadeva per la Falck, o per le industrie tessili dei Crespi. Un solo numero, vertiginosamente simbolico: sul piano «astratto» dei valori finanziari, il flusso dei valori nominali scambiati nel mondo in un giorno è pari a 72 volte il valore delle merci scambiate nel mondo nelle stesse ventiquattr’ore; non è un refuso, avete letto bene. Sul piano della irriducibile concretezza delle persone, questo flusso forsennato di valori e merci produce come suo inevitabile correlato la vertiginosa movimentazione della forza lavoro, degli uomini sempre più omologati a merci, in un mercato fatalmente sempre più spietato perché sempre più globalizzato. La «politica della precarizzazione» (un’espressione di Pierre Bourdieu) è insomma un fatto strutturale, di lungo periodo, se non irreversibile.
Le conseguenze della precarizzazione, a ben guardare, vanno a colpire le radici stesse delle possibilità di espressione letteraria: il lavorare a pezzi, per brevi periodi, senza garanzie, facendo lavori diversi, per di più in «aziende che vengono continuamente fatte a pezzi e ristrutturate» (Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, 1999) mina infatti il costituirsi stesso dell’esperienza e dell’identità personale, impedendo alla quotidianità di farsi progetto e prospettiva, di trovare senso, cioè anche senso narrativo, e forma «di racconto ben congegnato»; come spiega ancora Sennett, «una coerenza del genere oggi è assente dalla vita reale». Alla difficoltà profonda, quasi costitutiva, di trasformare in racconto vicende biografiche frammentate e contraddittorie si aggiunge una certa difficoltà della scrittura letteraria a maneggiare una realtà talmente inospitale e sgradevole da inibire a priori qualsiasi possibilità di sublimazione, e dunque (conseguenza tutt’altro che trascurabile) qualsiasi valore consolatorio. Senza contare poi gli storici deficit della cultura umanistica di fronte alla rappresentazione della realtà del lavoro, per la quale era ed è ancora normalmente incompetente. Ma le cose stanno cambiando: proprio perché ora i precari e i disoccupati, del terziario soprattutto ma anche dell’industria, hanno diplomi e lauree, qualche volta persino il dottorato. Alcuni di loro, così, possono rappresentare la nuova realtà socioeconomica con una dolorosa competenza acquisita sul campo: il che contribuisce non poco a rendere i loro libri efficaci, scritti come sono dall’interno, e anche decisamente a caldo, non solo a ridosso dell’esperienza, ma addirittura durante. Così è avvenuto per il vivacissimo esordio di Michela Murgia (1/ mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, 2006), nato addirittura da un blog, ma anche per il bruciante romanzo (post)industriale di Francesco Dezio (Nicola Rubino è entrato in fabbrica, 2004), scritto per lo più, come racconta l’autore nella quarta di copertina, «a fine turno» o addirittura «durante le pause di lavoro».
Certo se, in generale, la letteratura italiana degli ultimi anni sta provando in molte maniere a riavvicinarsi alla realtà, di cui sembra avere una vera e propria fame, questi libri danno un contributo importantissimo in questo senso, e, complessivamente, si può condividere il giudizio di Aldo Nove, secondo il quale «Esiste una nuova, potente letteratura del lavoro, ma non ha alle spalle la promozione del critico che ama gli scrittori americani e i giallisti tanto rilassanti, tanto bravi e consumabili» (Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, 2006). Siamo, in altre parole, in presenza di una pattuglia ormai non sparuta, forse destinata a infoltirsi, di scrittori coraggiosi, mordenti e mordaci, dotati di uno sguardo sociale e psicologico acutissimo, capaci di rimescolare le carte, di trovare nuove strade per perforare la realtà anche in virtù di un tratto non dico naif, ma certo sanamente privo di maniera. Questa letteratura, certo, è costretta a rinunciare a ogni funzione consolatoria; ma d’altro canto si riappropria energicamente dei compiti di critica, di rivendicazione, di rifiuto senza mezzi termini del presente. Lo scrittore si fa così coscienza non più solo inquieta ma decisamente incazzata, anzi furiosa, doppiando o piuttosto surclassando la rabbia e la frustrazione storiche per la propria marginalità nel sistema dell’economia moderna con una rabbia e una frustrazione nuove, più profonde e più gravi: perché stavolta ne va della propria sopravvivenza, della possibilità stessa di fabbricarsi una vita degna di questo nome.
Così mostra, dolorosamente ad abundantiam, il sopra citato libro-inchiesta di Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, che raccoglie e commenta quattordici interviste, realizzate per «Liberazione» fra il 2004 e il 2005. Non è esattamente un libro di letteratura, anche se nelle introduzioni alle varie interviste Nove torna a fare lo scrittore: ma sono tentato di dire che è una lettura necessaria, perché ci permette di «vedere» dall’interno, quasi senza filtri, le vicende, purtroppo esemplari, di persone non più giovani (più quarantenni che trentenni), che cercano di fare il loro mestiere, o anche un altro mestiere, o vari altri, costrette a una vita forsennata e frammentata, sottoposte a ogni sorta di ricatti e vessazioni (psicologiche e non solo) per conservare lavori che a malapena permettono di mettere insieme guadagni sotto la soglia di povertà. Nella maggior parte dei casi siamo di fronte a lavori che dovrebbero essere qualificati, e alcuni di questi lavori avrebbero dovuto esprimere le migliori potenzialità della nuova economia mediatico-informatica: il grafico pubblicitario, il programmista e regista televisivo, le professioni del web, la moda. La new Economy ha clamorosamente fallito, dunque; più in profondità, l’economia italiana, clamorosamente incagliata, non riesce a ripartire: ma i figli costretti a prolungare indefinitamente la loro giovinezza, a fare conto sui soldi dei genitori, sono il segnale di una situazione strutturale allarmante; come dice lucidamente uno degli intervistati, Leonardo: «siamo una generazione che vive erodendo il capitale raccolto nel passato». Un impressionante denominatore comune di queste storie è la necessità di adattarsi a vivere in una specie di eterno presente, nell’impossibilità totale di costruirsi prospettive di vita che vadano oltre la casa da pagare alla fine del mese, ammesso che si riesca ad avere un’abitazione propria. In queste condizioni, crescere diventa quasi impossibile:
«Quando ho scritto Superwoobinda, dieci anni fa, volevo raccontare una generazione di trentenni privi di futuro. / Dieci anni sono passati. / Il futuro, lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle, non è ancora arrivato. / Siamo ancora tutti, nostro malgrado, dei bambini».
Sul piano letterario, in prima approssimazione, questa situazione parrebbe corrispondere al venir meno delle condizioni di possibilità del genere romanzesco più importante dell’Occidente moderno: il romanzo di formazione. Anche senza trarre conclusioni troppo drastiche, certo è che tutti i libri sul lavoro precario ci mostrano una condizione irrimediabilmente individuale, in cui la provvisorietà condanna alla solitudine e a una disperata competizione. La stessa forma narrativa si colloca sempre dalle parti dell’autobiografia, più o meno romanzata, e intreccia l’adozione di un’ottica fortemente soggettiva, con una frammentazione interna molto pronunciata, che pare riprodurre la parcellizzazione, nonché della vita lavorativa, della vita tout court. Il trionfo fatale dell’individualismo, anche nelle sue residue possibilità di rivolta, colpisce forse ancora di più quando prende corpo nel mondo della fabbrica, dove ci si aspetterebbe una qualche sopravvivenza di lotta collettiva. Il romanzo di Francesco Dezio, Nicola Rubino è entrato in fabbrica (2004), è un libro implacabile, che ha fra i suoi molti meriti anche quello di ricordarci che la fabbrica esiste ancora, eccome, anche se sempre più spesso si allontana dalla nostra vista. Dezio ci dà una rappresentazione durissima, senza ombra di sublimazioni possibili, di una realtà agghiacciante, irredimibile, fatta ancora di ritmi ossessivi, sottoposti a un controllo militarizzato, di gesti sempre uguali e di pericoli reali, come ricorda brutalmente un «docente» di sicurezza: «Nella fabbrica ci si fa male, oggi come ieri […]. I casi di gente macellata dalle macchine non si contano». In prima approssimazione, siamo di fronte a una efficacissima ripresa dell’epos negativo della catena di montaggio, delle macchine che inglobano l’uomo come una propria appendice sostituibile: una realtà resa con travolgente vena mimetica, capace, a dispetto dell’apparente immediatezza, di autentiche performance virtuosistiche. Ma l’universo della fabbrica, non-luogo sottoposto a un’irresistibile legge omologante, non è più in grado di generare una solidarietà di classe, una lotta collettiva: l’io non diventerà mai un noi, e non riuscirà in alcun modo a passare al «Vogliamo tutto» di balestriniana memoria.
L’imposizione e l’interiorizzazione della competitività, programmaticamente alimentata dalle ideologie pseudoidilliache della mission aziendale, accomuna la fabbrica ai cali center, vero trionfo della precarizzazione, del caporalato delle agenzie interinali e della mercificazione integrale della forza lavoro: da questo punto di vista, è impressionante constatare le analogie tra il nuovo proletariato industriale di Dezio e il terziario proletarizzato rappresentato dalla Murgia, nel già citato Il mondo deve sapere. In entrambi i casi, l’unica forma di rivolta possibile per il protagonista sarà andarsene: unica amara rivincita, che almeno segna uno stop al circolo dello sfruttamento e permette, ma sì, di odiare in pace, sia pure rimpiangendo uno stipendio, per quanto miserabile, e con esso un qualsiasi possibile futuro. Sia Dezio, sia la Murgia compiono peraltro un prezioso lavoro di demistificazione sull’inganno dei contratti a progetto (secondo la Legge 30 del 2003, impropriamente nota come Legge Biagi) e delle false promesse di assunzione. A essi conviene associare il documentario, lucido non meno che coinvolgente, di Ascanio Celestini Parole sante, dedicato alla vertenza del più grande cali center italiano, l’Atesia di Roma, del gruppo Cos-Almaviva, un’azienda che lavora per innumerevoli altre aziende: circa 4.000 dipendenti, al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro. Edito nella forma del dvd con volume (2008), Parole sante è un’interessante occasione di conoscenza multimediale, comprendente, oltre al racconto di Celestini sulla storia del documentario, gli atti formali della vertenza, da cui davvero si impara molto, per dirla con sintesi ultraschematica, sia sul nuovo schiavismo dell’economia globalizzata, sia sulle forme specificamente italiane di aggiramento delle più elementari norme di tutela del lavoro.
Tornando al libro della Murgia, sarei fortemente tentato di dire che non è un romanzo: ma precisando che non si tratta di una riserva, bensì della necessità di trovare qualche termine più soddisfacente. Il mondo deve sapere si presenta infatti come una sorta di diario di un mese di lavoro, dal 13 gennaio al 13 febbraio, come telefonista il cui compito è quello di combinare incontri per la vendita, casa per casa, del famoso, costosissimo e misterioso aspirapolvere multifunzione Kirby, reclamizzato come frutto di un brevetto nientemeno che della Nasa: sottolineo peraltro che la ditta Kirby esiste realmente, e si chiama proprio così. I trenta giorni infernali di lavoro della protagonista e narratrice sono però ulteriormente scanditi in poco meno di sessanta capitoletti, ognuno dotato di un titolo, ben evidenziato in grassetto maiuscolo, che conferiscono al libro un ritmo indiavolato, e danno anche visivamente il senso di uno stile fortemente individuato proprio nella sua programmatica varietà, che rimescola, senza soluzioni di continuità, stereotipi pubblicitario-mediatici, linguaggio colloquiale-volgare e citazioni colte; pochi esempi, tanto per assaggiarne il gustoso, aspro sapore: «LA TELEFONATA / COME TI INCHIAPPETTO LA CASALINGA IGNARA», «IO E SIGMUND / LO FACCIO PER SOLDI, CRIBBIO», «IL KAMASUTRA DEL MARKETING», «UNA MANO LAVA L’ALTRA / E TUTTE E DUE PARANO IL DIDIETRO», «CHIACCHIERE E DISTINTIVO», «LA VITA SEGRETA DEGLI ACARI». Coltissima e spregiudicata, la Murgia dà luogo a una sarabanda esilarante e agghiacciante, capace di penetrare, nonché nella tremenda realtà dei co.co.pro., nella psicologia perversa ch’essi contribuiscono a creare, mettendo in opera, a tutti i livelli, una guerra di tutti contro tutti, fondata sul ricatto permanente, sullo sfruttamento sistematico delle debolezze e dei rapporti di potere, sul mobbing eretto a sistema.
Nell’impossibilità di rendere conto più analiticamente di una produzione ormai cospicua, mi limiterò a qualche breve cenno su altri due libri: un altro romanzo in forma diaristica, Un anno di corsa di Giovanni Accardo (2006), e una raccolta di racconti, Buon lavoro. Dodici storie a tempo indeterminato di Federico Platania (2006). Accardo mette in scena la vicenda, ancora una volta tragicomica, di un insegnante precario, siciliano emigrato al Nord, costretto a condividere un piccolo monolocale con un coetaneo leghista, e a fare mestieri di ogni sorta per sbarcare il lunario: distributore di volantini pubblicitari, cameriere in un ristorante specializzato nel combinare matrimoni, cercatore di clienti per un mobilificio, venditore porta a porta di aspirapolveri ad acqua, persino strangolatore di polli in una polleria. Nel frattempo, la disintegrazione della quotidianità e del futuro lo riempiono, nonché di rabbia, di fantasiose paranoie: ha paura, per esempio, che il soffitto della cucina si abbassi per soffocarlo, e tiene di solito le mani in tasca, perché teme che gli si stacchino dal corpo, trasformandosi in meduse o pappagalli. Di contro a questa varietà di invenzione fantastica, i racconti di Platania scelgono invece una ripetitività calcolatamente straniata, costellata di atti mancati, di gesti compulsivi e incompiuti, di oggetti tecnologici che a loro volta smettono sempre di funzionare. Sfidando impavidamente la monotonia, sia sul piano stilistico che sul piano strutturale, Platania mette in scena un universo lavorativo popolato da un terziario supposto avanzato, che si occupa di attività dai contorni sempre vaghi, delle quali sfugge il senso e financo il merito. In questi racconti, dedicati rispettivamente all’assunzione (i primi tre), al lavoro o sedicente tale (i sei centrali), al licenziamento (gli ultimi tre), un io narrante rasoterra, talvolta protagonista, talvolta testimone, sempre impacciato, depresso e demotivato mette in scena un’infelicità senza desideri tanto coinvolgente quanto antiempatica, in una sorta di perenne Aspettando Godot, ma reiterato e degradato a misura di Fantozzi.
In un panorama sistematicamente connotato dalla rabbia, e da un’attonita impotenza, nonché dall’assenza di qualsiasi visione prospettica, il tenero e intenso romanzo d’esordio di Roan Johnson, Prove di felicità a Roma Est (2010), osa invece, nonostante tutto, riavviarsi sulla strada del romanzo di formazione. Eppure il protagonista e narratore, Lorenzo Baldacci, si dedica a una professione davvero esemplare di un universo non solo precario, ma caratterizzato dalla crescita esponenziale del ruolo della ristorazione pubblica: egli è infatti un pony portatore di pizze, precario fra i precari, quasi emblema di una vita integralmente tradotta in corsa perenne e soddisfazione di bisogni primari (altrui). Il recupero di una possibile parabola di crescita può avvenire perché, a rompere il cerchio di un’individualità ferocemente chiusa su se stessa e sulle proprie frustrazioni, interviene l’amore, cioè la relazione con l’altro: con i rischi connessi, è vero, di cedimento agli eccessi di sentimento. Ma Johnson è bravo a tenere a bada queste tentazioni, anche grazie alla felice invenzione di un personaggio femminile insieme enigmatico e quanto mai «normale» nella sua duplice non integrazione, la nordafricana ribelle Samia, amorosa e irriducibilmente poligama, portatrice di uno sradicamento ancora più radicale, e perciò anche del bisogno profondo, anzi dell’ansia senz’altro, di crearsi una nuova identità. Anche in questo caso non ci sono consolazioni possibili, né soluzioni, neanche al livello narrativo: eppure, fra le righe ma neanche tanto, balena l’ipotesi che sia ancora possibile provare a costruire una qualche nuova comunanza umana, e magari, addirittura, diventare grandi.