Lo sappiamo, «il verbo leggere non sopporta l’imperativo». E allora – per una volta, ribaltiamo la domanda – perché ci sono ancora giovani che, tra mille esperienze possibili, si accostano alla lettura? Perché la fatica di leggere viene ripagata, se appena si riesce a valorizzare e a godersi il lavoro di elaborazione fantastica che ogni incontro con la pagina scritta di qualche spessore comporta. Superate le diffidenze, evitate accuratamente le letture scolastiche e/o raccomandate, il contatto con autori e opere offre ancora occasioni vitali di crescita.
Perché non leggono? Per quale motivo tanti giovani dedicano così poco tempo alla lettura? Come mai frequentano così poco il mondo dei libri?
Questioni del genere sono pressoché d’obbligo nelle indagini sulle abitudini di acquisto e di «consumo» di libri, promosse periodicamente da singoli editori, associazioni di categoria, soggetti istituzionali vari, interessati alla difesa e alla diffusione (o alla non sparizione) della cultura libraria.
Ci sarebbe qualcosa da dire sulla sempiterna categoria dei «giovani» (con doppia «g» opzionale), spesso utilizzata in modo piuttosto retorico e generalizzante, ma l’insistenza e la preoccupazione per questo target si giustificano, considerando la moltitudine dei ragazzi e giovani adulti che, malgrado il buon livello scolare, disertano il mondo dei libri o mantengono con esso un rapporto debole, sporadico, apparentemente poco significativo, privo di un vero in vestimento affettivo.
Qui però la domanda di base sul rapporto tra giovani e libri forse andrebbe riformulata, o meglio, ribaltata.
Perché continuano a leggere? perché diavolo (quelli che leggono, per quanto poco) ne sentono ancora il bisogno? che cosa cercano, cosa si aspettano dai libri (che non possono trovare da altre parti)?
A questi interrogativi si dà di solito una risposta convenzionale, basata sulla contrapposizione – spesso accompagnata da toni edificanti e vagamente malinconici – tra il (buon vecchio) libro e una pletora di forme di consumo culturale più «giovani», potenti, dinamiche, eccitanti. Multimediali, interattive, polisensoriali, se proprio vogliamo infierire.
La pressione dei nuovi media, la miriade delle soluzioni d’intrattenimento, l’espandersi delle occasioni di facile aggregazione: tutto sembra congiurare nel senso di un accantonamento senza rimedio delle pratiche di lettura in quanto isolanti, faticose, silenziose.
E però anche remunerative, se appena uno riesce a valorizzare e a godersi il lavoro di costruzione, elaborazione fantastica, ricomposizione ecc. che ogni lettura di qualche spessore comporta.
Insomma, nell’esperienza della lettura è presente un tratto distintivo d’impegno cognitivo-affettivo individuale e d’intimità ri-creativa, ben noto ai forti lettori di giovane età (che certo non mancano), ma occasionalmente apprezzato anche dai giovani lettori più distratti e refrattari alla pratica del leggere.
A questo punto però occorre aprire una parentesi.
Le rilevazioni sulle abitudini di lettura non sempre distinguono con chiarezza gli acquisti/consumi librari del loisir da quelli dello studio e del lavoro.
Dal punto di vista del pubblico (dei giovani scolarizzati) lo spartiacque è quanto mai evidente. Da una parte, le letture per scelta, piacere, passatempo; dall’altra, le letture imposte, subite, dettate da scelte altrui, contrassegnate e gravate dal dovere (programmi, esami da sostenere ecc.)
Letture private e letture scolastiche, in poche parole. Dove queste ultime sovente si mangiano tutto il tempo e le energie disponibili, azzerando la lettura per passione, anzi, trasformandola in un fenomeno in via d’estinzione.
Per chi non ha appreso «naturalmente» ad amare i libri e il leggere entro i 13-14 anni d’età (condizione comune a chi è destinato a diventare un lettore appassionato), è la scuola che cerca di provvedere: l’apprendimento della lettura, e l’acquisizione di un gusto del leggere, nel doppio senso di un godimento e di un canone estetico, in fondo rientrano tra i suoi compiti principali.
Su questo piano però i risultati sono spesso deludenti. Basta parlare con qualsiasi lettore (debole) appena laureato o diplomato per rendersene conto: forse riconoscerà gli sforzi di questo o quell’insegnante per fare scaturire un briciolo di passione verso autori e testi di valore, fuori dalle gabbie del programma scolastico e potenzialmente adattissimi ai gusti e alla mentalità degli studenti, ma svelerà anche lo scarso successo di tali sforzi, a dispetto della qualità delle opere consigliate.
Che si tratti di Calvino o di Musil, di Buzzati o di Yourcenar, di Tondelli o di Garcia Màrquez, non fa gran differenza: è la fonte che sembra essere sospetta. Il fatto stesso che sia la scuola a suggerire l’esperienza di lettura impedisce di apprezzarla, introducendo un elemento di aprioristica svalutazione che neutralizza sul nascere la carica affettiva, e quindi le opportunità estetico-formative di quell’esperienza.
Quali che ne siano i motivi latenti, la scissione tra i libri prescritti o consigliati dal sistema educativo ufficiale e quelli scelti e «consumati» di propria iniziativa appare un dato di fatto, come se appartenessero a due regimi estetici diversi, privi di punti di contatto.
Se non nasce dalla scuola, il gusto per la lettura, quando riesce a emergere, si costituisce per altre vie. Per quanto residuale e circoscritto, il bisogno/desiderio di leggere riesce infatti a trovare ancora un suo spazio nella ressa degli stimoli e dei consumi (più o meno) culturali del presente.
Le conversazioni con i giovani lettori sono istruttive, a questo proposito.
Senza dubbio il divertimento, l’intrattenimento, l’ammazzatempo sono moventi non secondari di lettura e acquisto librario, sovente potenziati da attrattive contingenti: lanci in grande stile, complementarità con i film ecc.
Innegabilmente, molti dei successi librari riconducibili non ai lettori forti e abituali, ma a quelli deboli e saltuari, giovani o meno, fanno leva su emozioni forti, non proprio su sentimenti delicati e mezze tinte: delitti efferati, misteri, trasgressioni, eccessi, amori, passioni, smascheramenti, e così via.
Ma certo non è tutto. Se appena si gratta la superficie del facile consumo e della soddisfazione immediata, emergono esigenze e motivazioni di lettura più profonde. Una dieta protratta a base di crimini e misfatti, sangue e sesso, vicende accattivanti e firme di successo, si fa stucchevole anche per chi legge poco, e che forse anche per questo comincia a desiderare di leggere meglio, però non sa bene come scegliere. Senza un’effettiva competenza di base, infatti, i criteri di valutazione sono precari, e scarsa la dimestichezza con l’universo dei libri, sterminato e in perenne espansione.
Malgrado ciò, le spinte verso letture di maggiore sostanza e significato sono ben visibili. Pur senza ripudiarne i vantaggi, si tende a prendere le distanze dalla pratica di lettura come mero godimento epidermico, veloce, effimero, per cercare effetti ed esperienze più durevoli.
Vengono così a delinearsi, in modo più o meno consapevole, aspettative di un apporto maturativo e «filosofico» della lettura proprio nel senso della sua capacità di contribuire alla conquista di una visione di sé, degli altri, del mondo, che nessun altro oggetto culturale può dare in modo altrettanto organico. E una richiesta che si fa strada proprio intorno ai vent’anni, con l’approssimarsi di una condizione adulta e il rafforzarsi delle esigenze di comprensione, orientamento, individuazione.
Il contatto occasionale con autori e opere di qualche spessore offre possibilità di rispecchiamento e corrispondenza che modificano pian piano gli schemi abituali del semplice intrattenimento. Procedendo su questa linea di esperienze speculari, il soggetto comincia ad attivare riflessioni e pensieri non banali, scopre di poter accedere a una migliore conoscenza di sé, di poter cambiare in modo significativo.
La presa (o ripresa) di contatto con le pratiche di lettura, per i lettori «deboli» di questa fascia d’età, sembra perciò appoggiarsi anche a un insieme di motivazioni più «serie», di tipo formativo – o meglio ancora, autoformativo – che sembrano soddisfatte dal libro più di ogni altra cosa. Si potrebbe dire che la lettura così intesa diventi (o ridiventi) lo strumento essenziale di una possibile Bildung personale e autogestita.
È interessante notare che il precisarsi delle istanze autoformative non di rado è accompagnato da fantasie o progetti di costituzione di una biblioteca privata. Ciò non solo corrisponde a un’esigenza di stabilità e durata, ma è rivelativo di un possibile processo di idealizzazione e reinvestimento del libro come oggetto culturale.
Più analiticamente, si può osservare che i giovani mossi da istanze di formazione personale e intenzionati ad avviare o a recuperare un rapporto non solo consumistico con la lettura manifestano un’ampia gamma d’interessi e aspirazioni comuni, sotto il duplice segno delle spinte all’autoaffermazione, in una fase cruciale della maturazione individuale, e delle necessità di adattamento a una realtà esterna (e interna) quanto mai instabile e complessa.
Non è facile stabilire corrispondenze precise tra l’offerta libraria e i moventi, non sempre consci, delle letture con ambizioni autoformative. E possibile però indicare alcune esigenze che ricorrono con una certa regolarità, a orientare le scelte e le esperienze di lettura.
La più riconoscibile di tali esigenze è forse quella di dotarsi di qualche strumento razionale, anche provvisorio ma non superficiale né manipolatorio, per decifrare la realtà caotica e mutevole in cui si è immersi. Un buon libro (non la tv o simili) può appagare il bisogno di ricostruire o inquadrare gli eventi, i rivolgimenti, i problemi più clamorosi della storia/vita contemporanea, dall’esplosione demografica all’impatto delle nuove tecnologie, dalle crisi economico-finanziarie ai mutamenti climatici, dalla criminalità organizzata all’illegalità diffusa.
Un’altra area d’interesse (sempre con valenza autoformativa) ha a che vedere con l’acquisizione di una propria «filosofia» o «visione della vita», al di fuori però di apparati concettuali troppo ardui, o comunque specialistici, adatti solo a chi dispone di un retroterra culturale adeguato. L’orientamento è piuttosto verso forme (o formule) di pensiero sufficientemente agili, semplici, accessibili a chiunque, senza appesantimenti dettati dal rigore scientifico o dalle regole dell’accademia. Ciò che conta è la capacità di sintesi e la possibilità di facile appropriazione del testo. Una produzione libraria d’immediata colloquialità, talvolta di taglio aforistico o con venature orientaleggianti, va incontro a una domanda del genere. A queste condizioni, diventa anche possibile avvicinare questioni etiche o religiose di particolare rilevanza, trovando indicazioni o risposte facilmente utilizzabili.
Un ulteriore ordine di esigenze e interessi autoformativi riguarda l’ambito, abbastanza difficile da delimitare, della psicologia individuale e relazionale. Siamo in un’area non troppo distante da quella «filosofica» appena segnalata, ma dominata soprattutto da urgenze introspettive, di esplorazione e conoscenza della propria psiche. La preoccupazione di fondo sembra essere quella di capire meglio (e forse sciogliere) i nodi e i grovigli emotivi, affettivi, relazionali con cui ci si confronta nella vita di tutti i giorni. Il risvolto pratico e privato è abbastanza evidente: affinare le proprie competenze psicologiche spontanee e acquisire qualche chiave di lettura in più per muoversi efficacemente nello spazio delle relazioni con gli altri.
Sarebbe troppo impegnativo tentare un censimento di opere e autori in grado di soddisfare le esigenze conoscitive e autoformative appena segnalate. A titolo di esempio, di può dire che entro questi progetti e modalità di lettura trovano posto, oltre ad alcuni intramontabili (Hesse, Gibran, Fromm ecc.), autori come Bauman e Galimberti, Rifkin e Odifreddi, Saviano e Travaglio (ma anche Enzo Biagi, Stella, Rampini ecc.), qualche psicologo/psichiatra di moda (visto in tv), un pizzico di Osho e Deepak Chopra, i libri di Terzani, un po’ di Schopenhauer in dosi omeopatiche (L’arte di essere felici e simili), Coelho (più o meno tutto), e altri ancora.
Con tutto ciò, tuttavia, il quadro delle letture di (auto)formazione non pare del tutto esaurito. Spesso le istanze autoformative assumono una coloritura più viva e vigorosa. I saggi, gli esperti, i guru, gli osservatori qualificati, i cronisti intelligenti sembrano non bastare più. Le formule, i begli aforismi, le spiegazioni, per quanto convincenti e ben documentate, risultano incapaci di restituire il sapore, le risonanze, i valori dell’esperienza diretta, di cui si avverte la necessità.
Si va allora in cerca di un contatto più intenso e immediato, attraverso l’identificazione con un «eroe» non solo cartaceo: una persona reale, un testimone diretto, una figura esemplare ma anche sufficientemente vicina e affine a sé: per ideali, sensibilità, costumi, stili di relazione.
Non solo e non tanto figure d’invenzione, dunque, ma proprio persone (giovani, in linea di massima). Che raccontano di sé, delle proprie vicende, di drammi e difficoltà, pericoli e sentimenti, mettendosi direttamente in gioco o utilizzando in modo trasparente un doppio, strumentale al discorso autobiografico.
Possono essere figure del mondo della musica o dello spettacolo, particolarmente capaci di entrare in risonanza col pubblico giovane (Fabio Volo è un buon esempio), oppure personaggi dalla vita avventurosa, che hanno visto la morte in faccia e che si sono lasciati alle spalle esperienze limite e prove severissime, venendone fuori, non certo come perdenti. Due esempi, tra i tanti, sono il protagonista di Shantaram di G.D. Roberts o il «criminale onesto» di Nicolai Lilin (Educazione siberiana).
Non si può escludere che la fascinazione dello stravolgimento, della vita dissestata (dal caso, da uno sbaglio), della lotta per la sopravvivenza e della realizzazione di sé pur in condizioni estreme valga come un succedaneo indiretto delle esperienze d’iniziazione, che la società attuale non è più in grado di offrire (non istituzionalmente, quanto meno).
Antropologi e psicoanalisti si sono resi conto da tempo del vuoto lasciato dai rituali d’iniziazione dismessi e delle gravi conseguenze che ciò comporta per un giovane in termini di qualità e senso del vivere.
Potersi rispecchiare in chi ha affrontato e superato un peculiare processo iniziatico – che implica sempre una morte simbolica e una rinascita – e introiettare le sue esperienze (più o meno) vissute è un effetto non banale e costituisce un ottimo motivo per continuare a leggere libri.
Il risultato estetico non sarà sempre straordinario, ma la funzione autoformativa è pienamente assolta.