Dedicato «alle amiche e a quelli che fanno l’acciaio», l’opera d’esordio di Silvia Avallone innesta il Bildungsroman femminile entro le strutture del romanzo sociale: il percorso di crescita di Anna e Francesca si intreccia con le vicende del quartiere operaio, regolato dai ritmi micidiali dell’acciaieria e dalle pause di sballo. I corpi dei giovani operai di settima generazione e delle protagoniste tredicenni pulsano di un’analoga, bruciante energia: il «senso grandioso di schifo e di ribellione» di chi crede di avere la vita davanti e non intende patirne gli assalti con arrendevolezza spaurita, convinto come è di aver capito tutto, perché «il movimento elementare della macchina è uguale alla vita».
Acciaio di Silvia Avallone ha un primo indiscutibile merito: ha spazzato via dal dibattito critico il ricorso all’etichetta «post». Il romanzo ambientato in un quartiere operaio di Piombino non è postmoderno, postavanguardista, posthuman e nemmeno postumo. E, semplicemente, verrebbe da dire finalmente, un romanzo del nuovo millennio che poco o nulla concede al confronto con ciò che c’era prima, con ciò che si è perso. Il libro racconta le «cose che accadono» ai giovani della provincia italiana e lo fa con una strategia compositiva estranea alle convenzioni narrative di fine Novecento: mescolanza di generi alti e bassi; ironico pastiche metaletterario; montaggio sincopato da zapping, personaggi sballati ed eccentrici, stile patinato o lingua ipermedia. La rappresentazione della nostra modernità evita, con pari coerenza, la vulgata semplificatoria della «società liquida», senza confini e costellata di non-luoghi, priva di conflitti sociali, schiacciata sugli effetti della virtualità mediatica che vanifica ogni esperienza, di scrittura e di lettura.
Nell’opera d’esordio, Avallone guarda il mondo com’è, senza smanie destrutturanti o ipercitazioniste, convinta che i discorsi sulla fine – della storia delle ideologie delle narrazioni – poco servano a dare conto della realtà, che continua a stare lì, inossidabile come l’acciaio. In una sequenza minore, sul teleschermo passano le immagini del crollo delle Torri Gemelle: chi vi assiste reagisce prima con un senso di incredulità spaesata: «“Boia!” Ma era una cosa assurda dall’altra parte dell’oceano e del mondo»; poi subentra un’ansia di straniata condivisione: «sentì che c’era la storia, la storia che è una cosa smisurata e incomprensibile, eppure lei ne faceva parte». Al di là del giudizio storico e politico, il senso di appartenenza alle sorti collettive tanto più «meraviglia» e inquieta quanto più sollecita un desiderio di comunanza non virtuale: «le mancava Francesca», perché ci sono «eventi per cui si deve stare vicini per forza» (pp. 227-228). Per tutto il corso della narrazione tg, spot e reality show si innervano nel flusso degli accadimenti, senza mai annullarne lo spessore corposo.
A fondamento del libro sta la scelta prioritaria delle strutture della fiction romanzesca: lo dichiara la più classica delle rubriche paratestuali – «Nomi, personaggi e luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio» –, lo conferma la citazione in epigrafe di Don DeLillo, l’autore del grande Underworld.
Acciaio, composto di quattro capitoli per oltre 350 pagine, punta a restituire un affresco totale di realtà, accantonando anche il modello dominante dell’inchiesta giornalistica, dove in primo piano si accampa la soggettività testimoniale di chi scrive, modello Saviano. Silvia Avallone, aliena da ogni intento di denuncia, recupera tempi spazi e figure dalla propria breve esperienza di vita, ma li romanzeggia con vigoroso estro immaginoso – «via Stalingrado non esiste a Piombino» –, e dedica l’opera alle sue «migliori amiche e a tutti quelli che fanno l’acciaio». L’accoppiata colpisce e va dritta a bersaglio: ribadita dalla copertina, sgradevole ma di sicuro impatto visivo, e dal titolo, tanto audace quanto desueto. Il nesso vincolante fra le ragazze e gli «operai della settima generazione» che lavorano alla Lucchini è il perno nevralgico del libro, ambientato dentro i palazzoni sorti nei pressi di «via Nenni e via Togliatti», fra l’ariosa distesa marina e l’incombente altoforno, il «gigantesco ragno» dell’Afo 4. Chi narra ha vissuto in quella cittadina costiera a sviluppo industriale, ha bazzicato la fabbrica con il carroponte alto dodici metri, la «fossa» con le carcasse dei macchinari in disuso, gli spazi aperti del pattinodromo e le più riposte tane, dove i relitti algosi nelle insenature offrono rifugio ai gatti macilenti ma anche alle coppie di bambine giocose e di giovani amanti. Da quei luoghi e da quella stagione, l’io narrante si è ormai allontanata, seppur da poco. Per rievocare le vicende accadute a un gruppo di ragazzi, lungo un anno – dal giugno 2001 all’estate successiva –, l’osservatorio prescelto è esterno, posto però a una distanza ravvicinata che consente di cogliere la virulenza aspra e abbagliante di toni e colori. In primo piano balza il «senso grandioso di schifo e di ribellione» di chi crede di avere davanti a sé la vita intera e non vuole patirne gli assalti con arrendevolezza spaurita. Lo stile volutamente trasandato, talvolta anche sporco, immette nella catena del racconto, senza pause e commenti, i mozziconi dei discorsi diffusi, le battute secche dei dialoghi, i numerosi discorsi indiretti liberi. Timbri patetici e voci melodrammatiche si accavallano in un ordito sintattico che corre veloce, e solo rallenta nelle sequenze di maggior intensità: e allora è un furore algido, al calor bianco, a inchiodare il lettore.
Il focus è concentrato su Anna e Francesca, ragazzine di tredici anni, sicure che «Il mondo arriva con i quattordici». È un’ulteriore conferma che gli adolescenti sono i protagonisti della migliore narrativa recente, anche a firma femminile: se I giorni della Rotonda di Silvia Ballestra schizza, in un trittico cupo e desolato, il ritratto dei ragazzi degli anni ottanta, traditi dalla droga e dal terrorismo (2009), Lezioni di arabo di Rossana Campo (2010) capovolge la prospettiva fallimentare affidando l’iniziazione della quattordicenne Betti alle note irridenti dell’eros.
In Acciaio l’adolescenza è dichiaratamente «un’età potenziale», aperta a un futuro di cui si ignora tutto, salvo la certezza che del passato non c’è nulla da rimpiangere: «“Si drogano e basta. Era quasi meglio quando c’era il Partito Comunista.” “Boia!” sbottò qualcuno» (p. 163).
All’orizzonte si staglia la sagoma dell’Elba, il «paradiso. L’unico veramente vero» (p. 17), o meglio l’Ilva, antica denominazione dell’isola e primo nome dell’Acciaieria Lucchini: «Boia! Come dire che il paradiso e la merda si chiamano uguale» (p. 284). L’esclamazione, tic gergale reiterato, traduce in sintesi la sostanza fragile delle idee di una generazione che non sopporta chi «snocciola paroloni», come «quei bavosi sfigati di Sinistra». A Piombino, davanti alla complessità sociale, ci si fa beffe dei ragionamenti e delle mediazioni intellettuali o ideologiche: «il movimento elementare della macchina che è uguale alla vita. A volte, per resistere alla noia o alla paura, ti dovevi sedere in un angolo e sbottonare la patta» (p. 25). Di queste figure spavalde e insieme sbigottite e frastornate, l’io narrante rappresenta le singole reazioni «a pelle», senza giudicarne gli effetti, senza censurarne i comportamenti; il montaggio opera un cortocircuito che salda l’ansia di futuro, il paradiso, con le condizioni feroci del presente: l’impatto di lettura è assicurato, il rischio è la resa immediata di emozioni e sentimenti che bruciano tutto, come capita dentro l’Afo 4. E in questa prosa scarna, al limite della sciatteria, le descrizioni del «corpo» della fabbrica spiccano per turgore metaforeggiante: «Cisterne munite di ruote che assomigliavano a creature primordiali. […] Il metallo era ovunque, allo stato nascente. Ininterrotte cascate di acciaio e ghisa lucente e luce vischiosa. Torrenti, rapide, estuari di metallo fuso lungo gli argini delle colate e nelle ampolle dei barili […] Ha un nome e una formula. Fe26C6. La fecondazione assistita avveniva in un’ampolla alta come un grattacielo, l’urna rugginosa di Afo 4 che ha centinaia di braccia e di pance, e un tricorno al posto della testa. Ma non basta. Ci volevano altre pance» (pp. 22-23).
D’altra parte, è questo il motivo di maggior interesse del libro, per molto tempo stabile in testa alle classifiche: l’innesto della struttura del Bildungsroman entro le coordinate del romanzo sociale. La macchina narrativa procede spedita, con una tenuta che sorprende in un’autrice esordiente: il percorso di crescita di Anna e Francesca si intreccia e si scontra con le vicende del quartiere operaio, regolato dai ritmi micidiali dell’acciaieria e dalle pause di sballo, altrettanto devastanti: se la coca dilaga dovunque, accomunando lavoro e scopate, il lasciapassare per il «mondo che arriva» è la rivendicazione sprezzante di non appartenere alle file degli «sfigati». A capeggiarne la schiera sono i genitori, e la prima sfida si gioca in casa. A chi incarna la virilità matura Acciaio non concede nulla: i padri oscillano fra la latitanza, infantile e truffaldina, e la furia gelosa e possessiva che educa solo all’«odio per tutti gli uomini». I modelli femminili, anche se meno nefasti, sono inerti, chiusi nella rassegnazione impotente: Sandra, la madre di Anna, conduce una battaglia politica contro «la classe bastarda e nullafacente» dei padroni, ma nulla oppone alle millanterie gaglioffe e losche del marito Arturo. Rosa, l’altra madre, a poco più di trent’anni, è già rinsecchita in un silenzio duro, sopraffatta dalla brutalità violenta e morbosa del ras di famiglia, Enrico, il padre di Francesca.
Il libro si apre su una sequenza memorabile. Enrico spia dalla finestra di casa la figlia che sta giocando con Anna in spiaggia: «aveva cacciato fuori un culo e un paio di tette irriverenti». E lui è pronto a tutto, a chiuderla in casa, a picchiarla fino a romperle il naso, purché gli altri non godano della vista di quel corpo splendido e impudico. La prima reazione a quello sguardo feroce è il «gioco» dello spogliarello che tutte le mattine le due ragazzette inscenano davanti allo specchio, a vantaggio degli abitanti dei quattro edifici che dalle cento finestre ficcano gli occhi dentro l’appartamento. E alla fine del libro, papà Enrico, pachiderma ottuso e immobilizzato su una poltrona, nulla potrà contro gli sguardi degli uomini che sbavano davanti alla lap dance di Francesca, mentre si esibisce nella discoteca Gilda: «L’aveva sverginata il suo datore di lavoro, in un motel un pomeriggio di aprile» (p. 318).
Ad Anna va un po’ meglio: anche a lei il nucleo familiare non offre aiuti o modelli, ma almeno l’incontro con la mascolinità non è all’insegna della rivalsa masochista, e chi la inizia al sesso, lungi dall’essere un manager avido e untuoso, è Mattia, l’amico del fratello Alessio: «bello. E forte e adulto, e sicuro di sé». Oddio, qualche anno prima ha dovuto lasciare Piombino, dopo un furto con morto, ma ora rientrato in Lucchini e «in pace col mondo» lavora sul «mulo» trasportatore e sogna scopate e gite all’Elba.
Nel loro percorso di crescita in attesa del «mondo che arriva», le due quasi quattordicenni possono contare solo sulla loro «forza» vitale: la natura sta «dalla loro parte» perché le ha dotate di una bellezza raggiante. «Le loro coetanee, quelle sfigate in crisi totale di fronte allo specchio, non le potevano proprio soffrire. Anna e Francesca te lo sbattevano in faccia che erano belle» (p. 90). Dovunque possano: in spiaggia, al velodromo, di fronte alle finestre spalancate, nella poltiglia puzzolente della palude. «Sfacciate» e «perverse»? No: per chi narra sono ragazzette normali, che «non hanno idea», desiderose solo di far esplodere «quella specie di furia che c’è all’inizio nel corpo, quando hai tredici anni». Al termine della storia, dopo una separazione che le ha sottratte alla stagione dei giochi infantili, si ritroveranno insieme, nuovamente «combaciami», quasi non fossero due distinte figure, ma il doppio volto di una femminilità acerba, in cui paura e baldanza, introversione e aggressività gioiosa, rifiuto dei maschi e istinto di seduzione fanno tutt’uno. Il guaio è che la scelta di ricongiungersi si rivela unico debole argine alla violenza ulcerante delle «cose che accadono»: il tempo trascorso non ha corroborato le risorse energetiche dell’io adolescente, ha maturato un riconoscimento penoso dei condizionamenti ineludibili di realtà: «La realtà esige. La realtà vince comunque, qualsiasi cosa fai o pensi» (p. 350). Così riflette Francesca mentre, stanca e stropicciata, torna a casa, dopo una notte di «lavoro» al Gilda, in attesa finalmente di prendere con Anna il traghetto per l’Elba. Ormai la sicurezza irridente di «non essere sfigate» è sfumata e sull’orizzonte, oltre l’isola, sempre più incombente si staglia l’Afo 4. Il libro che innesta il Bildungsroman femminile entro le strutture del romanzo sociale, con dedica alle amiche e a quelli che fanno l’acciaio, approda a una duplice ambigua conclusione. Lo scioglimento della vicenda non avviene sullo sfondo solare della marina, ma sotto i capannoni asfissianti della Lucchini, e mette in scena una stupida, incredibile morte sul lavoro. Mattia, fatto di coca, con l’ansia di finire presto per «spaparanzarsi» e pensare alla prossima scopata, schiaccia sotto le ruote del cingolato l’amico Alessio, operaio della settima generazione, iscritto alla Fiom, ma elettore di Forza Italia «Perché Berlusconi di sicuro non è sfigato»’. «Non un pensiero. Una buccia di pensiero fluttuante nel cervello, come dentro lo scarico della doccia. Questo, questa poltiglia qui, è un gatto […]. Grumi, trucioli di ossa sparsi insieme ai tondi d’acciaio, le tonnellate rifulgenti, inargentanti. Impossibile che fosse un uomo. […] Il suo cervello continuava a dire “gatto”. Il suo cervello continuava a ripetere solo e soltanto “gatto”» (pp. 340-341).
Invece sotto il «mulo» c’è il «fratello fico, biondo e muscoloso» di Anna reso poltiglia mentre, in una pausa di lavoro, parla concitato al cellulare. Dall’altra parte del telefonino c’è Elena, la donna della sua vita, dai tempi della scuola. Anche lei è bella come le due protagoniste; anche lei a quattordici anni si esibiva al pattinodromo, ma, a differenza di Anna e Francesca, lei è la figlia del primario dell’ospedale, ha fatto l’università fuori Piombino e ora, giovane manager, lavora in fabbrica, ma negli uffici sopra il carroponte, là dove si decide la lista dei cassintegrati. Ad Alessio, in nome dell’antico amore, può solo concedere il favore padronale di non licenziarlo; perché non è vero che «il movimento elementare della macchina è uguale alla vita» né, tanto meno, che basta avere la «natura» dalla tua parte per vincere la sfiga.