Il paese dei Cantautori

Tutto scorre, il «cantautore» resta. Parola (e concetto) di ardua traduzione in lingua estera, il «cantautore» è un baluardo della cultura italiana tra i due millenni, una categoria dello spirito imprescindibile per la coscienza nazionale. Di più. Il passaggio da cantautore a intellettuale può essere questione di un attimo. Franco Battiato è un buon esempio di mancata soluzione della continuità: uno dei suoi meriti è quello di rammentarci che la cultura non è faccenda per tutti e la conoscenza costa fatica: solo pochi iniziati possono arrivare ad acquisirla, anzi ad acquistarla – al termine di un mistico pellegrinaggio – nei migliori negozi di dischi.
 
2 giugno 2010, festa della Repubblica. A Varese, durante le celebrazioni, niente Fratelli d’Italia: il ministro dell’interno Roberto Maroni, leghista, ordina un cambiamento di programma. La banda suona La gatta di Gino Paoli. Provocazione secessionista? Sberleffo goliardico all’inno nazionale? Innovativa proposta culturale? Molte le interpretazioni possibili. Personalmente, la cosa che più mi fa riflettere è la natura dell’alternativa musicale indicata dal dignitario italopadano. Come antiMameli, era facile aspettarsi che il Carroccio proponesse – che so – La bella Gigogin, Madonina o Romagna mia. Invece: sorpresa! Anche le camicie verdi si riconoscono nell’opera di Gino Paoli, artista nazionale se ce ne sono. Perché l’italiano di oggi (polentone, burino o terrone) può essere anche molto radicale, pulirsi il didietro col tricolore oppure – all’opposto – infiammarsi all’appello «stringiamci a coorte, / siam pronti alla morte», ma non c’è ideologia, non c’è credo politico che possa allontanarlo – mazziniano o federalista, berluscoide o postcomunista che sia – dai suoi cantautori. Tutti i valori dileguano e si trasvalutano: il cantautore rimane.
Il neologismo – al quale sembra non esserci alternativa nella nostra lingua – suona ai miei orecchi come uno dei più insipidi, dei più goffi e burattineschi tra quelli emersi nel secolo scorso. Mi è capitato varie volte di doverne spiegare il significato a un interlocutore straniero. La cosa è meno facile di quanto si creda: certo, in inglese esiste singer-songwriter, in francese chansonnier, in tedesco Liedermacher, ma nessuno di questi termini riesce a rendere la pregnanza collosa, la spensierata gravità, nell’uso nostro, della categoria di cantautore (per non dire della filiazione cantautorato’. chi mai ardirà tradurla?). Non cogliere il senso e il peso di questa categoria nella coscienza nazionale significa non capire la cultura italiana tra i due millenni. Ma dove, quando, come e perché spuntò il fatale mot-valise? Chi voglia informarsene, dia una scorsa all’autobiografia del suo creatore riconosciuto: Vincenzo (Enzo) Micocci, direttore artistico della Rea (dal 1957 al 1961), poi della Ricordi (Vincenzo, io t’ammazzerò. La storia dell’uomo che inventò i cantautori, 2009).
Come lui stesso racconta, nel 1960 Gianni Meccia, compositore e interprete legato alla Rea, stava per pubblicare un nuovo 45 giri, Odio tutte le vecchie signore. Micocci, mentre stendeva la presentazione, pensò che l’eccentricità del prodotto andasse in qualche modo giustificata. Nacque così l’etichetta cantantautore, subito raccorciata in cantautore. Il suo inventore ne illustra il senso in un passo del libro: «C’è differenza tra cantautori e cantanti? Be’, sì, i primi vengono a proporre ipotesi alquanto diverse rispetto ai modelli tradizionali, che invece generalmente si occupano dell’amore secondo uno stile che diventa spesso addirittura fastidioso e molto inferiore rispetto alle mille sfaccettature della vita delle persone e delle cose più diverse che accadono nella società nella quale viviamo. Questo fatto comporta delle differenze? Sì, qualcuna, ma va messo l’accento sul fatto che i cantautori sono artisti totalmente coinvolti, e quindi hanno diritto alle loro tensioni, che del resto comportano di per sé un rapporto più articolato col pubblico».
Nelle vaporanti trame ipotattiche della prosa di Micocci, come e più che nei versi dei cantautori, sento alitare lo spirito di quell’Italia che il 2 giugno 2010 ha trovato il suo vero inno.
È un cantautore, Franco Battiato? Diciamo che lo sembra; in realtà – a dispetto della sua crescente somiglianza con Pippo Baudo – è un vero intellettuale, direi un tipico intellettuale italiano di oggi. Uno dei suoi meriti, in questi anni, è stato quello di rammentarci che la cultura non è roba per tutti: la conoscenza costa fatica; solo pochi iniziati possono arrivare ad acquisirla, anzi ad acquistarla – al termine di un mistico pellegrinaggio – nei migliori negozi di dischi.
Il titolo del cd uscito nel 2009, Inneres Auge, a una prima distratta lettura mi suonava latino. Forse per via del kantiano sàpere àude che mi echeggiava in testa, intendevo àuge come imperativo di augére, aumentare. Quegli Inneres che bisognava aumentare, però, restavano un busillis. Cantato dall’autore, il titolo finalmente, mi fu chiaro: ma sì! occhio interiore, in tedesco! E perché proprio in tedesco? E perché no? Chi metterà un freno all’estro dell’artista, al suo respiro planetario? Chi ha stabilito che non si possa scrivere il ritornello in inglese («No tàim, no spéis, / enàser réis ov vaibréscions»), infarcire la strofa di criptocitazioni sapienziali o di aforismi bacioperugini? Per leggere Dante ci vogliono le note; anche per leggere Battiato ci vorrebbero, ma per fortuna non sono previste interrogazioni. Nessuno ti chiederà mai cosa siano «i desideri mitici di prostitute libiche» o «il senso del possesso che fu pre-alessandrino». Battiato riesce a darti la sensazione di far parte di un’élite senza doverlo dimostrare a nessuno. I suoi testi – che da tempo si avvalgono del contributo di Manlio Sgalambro (filosofiere targato Adelphi) – sono una sorta di Sanguineti per le famiglie: un Sanguineti senza ironia, accigliato e ispirato, che esibisca il suo bric-à-brac erudito e cosmopolita agli avventori del locale Bar Sport. Direttamente dalle profondità del Bar Sport sembrano uscire i versi (?) sgalambrici della canzone che dà il titolo al disco: «Uno dice che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato? Non ci siamo capiti, e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti?». Battiato – questo il suo inimitabile talento – riesce a prendere discorsi di tal fatta e – dopo averli avvolti nel noto marzapane sonoro – a cantarli come se fossero versetti celestiali.
Quasi contemporaneamente all’uscita di Inneres Auge appariva in libreria Io chi sono? (2009), un libro-intervista in cui Daniele Bossari, deejay esoterizzante, fervido fan del Catanese, rivolge al suo idolo domande del tipo: «Come si fa ad alzare il velo di maya?» «E possibile trascendere la parola per sperimentare il vero?». Dopo aver premesso di non volere «semplicemente cultura», il giornalista-catecumeno supplica l’autore di Un’estate al mare: «Se li sai, ti prego di svelarmi i piani di Dio!». Di fronte a richieste di questo calibro, un cantautore qualsiasi esiterebbe, forse qualcuno si allontanerebbe con una scusa. Ma Battiato, appunto, non è un cantautore qualsiasi: lui le risposte ce le ha, e te le fornisce senza lesinare, per centotrenta pagine. Il lettore che abbia un’idea solo approssimativa di cosa siano il sesso tantrico o il samsara, non si spaventi: a differenza dei dischi, il libro è corredato da un glossario.
Per una esegesi più approfondita dell’opera di Battiato (e di altri pensautori microfonati) raccomando una visita al blog «Le malvestite» (www.malvestite.net), tenuto da Betty Moore. Oltre a notevoli reperti storici (tra i quali un’ineffabile intervista in video) il lettore potrà gustare la sintesi di Io chi sono? in forma di fotoromanzo. Nella vignetta, il volto paciocco del giovane intervistatore e quello pippobaudesco del suo telecartomante si alternano al ritmo lento e grave di un’esotica melopea, esalando fumetti: «Maestro?» / «Sì» / «Maestro, mi insegni la tecnica della citazione inventata» / «Non credo tu sia pronto, disse una volta un grande mistico tibetano» / «Ma io sono pronto, Maestro!» / «Secondo me, no!, ripeteva un capovillaggio pakistano centenario» […] / «Ma è forse questo un modo per punire qualche mia mancanza spirituale?» / «Pò esse, disse il matematico arabo El Azerbaigian».
In nessun paese al mondo, che io sappia, la canzone viene presa sul serio come in Italia. Gli italiani, che già Leopardi considerava i più perfetti nichilisti «naturali», ridono di tutto e di tutti, si fanno beffe dei più alti ideali; ma quando stonicchiano in coro «le bionde trecce gli occhi azzurri e poi / le tue calzette rosse» sono più compresi e solenni di un ufficiale della RAF che intona God Save the Queen. L’endemica seriosità canzonesca finisce per incombere anche su chi le canzoni le studia per professione. In ogni indagine critico-accademica, nel paese dei Cantautori, è in agguato quello che io chiamo «l’effetto Balanzone»: un Signor Professore in toga e tocco, che nel suo nasale latinorum discetta di agnolotti e salami. Nel saggio Ma cosa vuoi che sia una canzone (sottotitolo Mezzo secolo di italiano cantato, 2010), il linguista Giuseppe Antonelli riesce a evitare quasi del tutto quell’effetto, dissimulando quanto può il proprio coinvolgimento nell’oggetto della ricerca, e riducendo le canzoni «alla nuda componente linguistica: grammatica, sintassi, lessico». L’intento, infatti, non è quello di valutare la qualità letteraria dei testi, ma di ricostruire – attraverso l’analisi delle mille canzoni più vendute dal 1958 al 2007 – mezzo secolo di storia della nostra lingua. Il lavoro di Antonelli mette bene a fuoco il rapporto mutevole e complesso che l’italiano delle canzoni ha intrattenuto negli ultimi cinquant’anni con il parlato, da una parte, e con la norma linguistica e la tradizione letteraria dall’altra; è un peccato, però, che dal campione considerato sia metodicamente esclusa la produzione «alternativa» e di ricerca: senza accedere alla hit parade, il milanese di Jannacci-Fo (rappresentato qui solo da Ho visto un re) o le cantate epiche di Giovanna Marini costituiscono episodi forse non trascurabili nell’evoluzione della nostra lingua.