Fenomenologia dell’immigrato

Servi iperrealisti, terroristi coatti, puttane dal gran cuore (per tacere della Grande Meretrice Circassa). Il fatto è che il racconto non frizionale drammatizza e sfaccetta una condizione collettiva che tanti romanzi finiscono invece per edulcorare. E un bell’eroe extracomunitario latita, essendo la marginalità e la pericolosità i veri tratti dominanti del migrante. Né servono a molto certi buonismi volontaristici. Anzi. Allora, ben vengano autori cinici (sanamente postmoderni!) come Moresco e Eri ciò, capaci di spremere e dislocare gli stereotipi, anche razzisti.
 
Certo, gli stranieri immigrati in Italia non hanno aspettato che i «nativi» italiani si ricordassero di loro, e già da tempo usano la letteratura e la nuova lingua nel frattempo appresa per dire la propria condizione. La consistenza ormai notevole di una produzione mutante di questo genere (con vertici di qualità che si collocano, credo, nei dintorni di autori come Carmine Abate e Ornela Vorpsi) è peraltro stata accompagnata dalle cure della critica: a partire grosso modo dal momento in cui Alessandro Portelli una decina d’anni fa (vedi il n. 3 di «L’ospite ingrato», 2000) salutò la nascita di una «letteratura afroitaliana» suggestivamente omologa all’universo Afro-American. Alle sue spalle d’altra parte c’era già l’appassionato lavoro di Armando Gnisci (basti ricordare la sua ricerca consegnata a Creoli, meticci, migranti, clandestini e ribelli, 1998; e oggi si pensi al progetto da lui coordinato, Kuma, consultabile all’indirizzo www.disp.let.uni romal.it/kuma/kuma.html). Né è possibile, qui, fare altro che sfiorare tale tema e dominio, e puntare invece su scritture di italiani-italiani che rendono conto di vite di immigrati-immigrati, augurandosi altresì che le opposte identità in gioco posseggano una per lo meno provvisoria costanza e riconoscibilità.
Un altro sfioramento, anzi sovrapposizione, dobbiamo per un attimo tuttavia praticare, anche per capire esattamente di che cosa stiamo parlando. Penso cioè a quanto viene presentato da Marco Rovelli nello spettacolo teatrale Servi, messo in scena nell’inverno 2009-2010, di cui lui stesso è interprete. In questa pièce appunto «italiana» figura un attore nero, il senegalese Mohamed Ba, che da anni lavora a Milano come educatore, è perfettamente inserito nella comunità ed è persino in grado di parlare il dialetto locale. Tuttavia non della sua integrazione Mohamed narra (ed è insieme narrato) nell’opera di Rovelli, ma dell’accoltellamento, dovuto a puro odio razziale, da lui subito in pieno giorno a una frequentata fermata di tram appunto milanese. Il cortocircuito è ovviamente spiazzante, per l’inevitabile shock cui anche lo spettatore è sottoposto, con un investimento in termini di indignazione tanto maggiore quanto più una simile forma di aggressione è tollerata dalla società civile e dalle stesse forze dell’ordine (tale è la denuncia di Rovelli-Ba).
Lo slittamento verso forme di moralismo e protesta diventa insomma inevitabile se, come accade in questo caso (di Rovelli ricordiamo inoltre il coraggioso, ben documentato, Lager italiani, 2006, e la sua prosecuzione intitolata – come la rappresentazione scenica che ne è stata tratta – Servi, 2009), la non-finzionalità del racconto ne rende insopportabile la storia, il contenuto. E, del resto – ormai tutti lo sanno –, che cosa c’è di più sottilmente disturbante di quel rimescolamento di spazi, etnie, interessi global e giocai che nel secondo capitolo di Gomorra culmina nella rappresentazione di certe infernali sartorie napoletane dove la penetrazione della criminalità cinese si incarica di rendere ancor più dure le condizioni di lavoro di quei nuovi (sotto)schiavi orientali?
Del resto, i sentimenti di giusto risentimento pubblico che ho appena ricordato (con un di più, poi, di consapevolezza storica e prospettica all’insegna del sottotitolo riuscitissimo di Gian Antonio Stella, Quando gli albanesi eravamo noi, che nel 2002 integrava il titolo L’orda) passano decisamente in secondo piano allorché dalle pratiche del reportage passiamo a quelle dell’invenzione narrativa in senso pieno. E il dato è, davvero, leggermente sconcertante, anche se piuttosto sintomatico. Intanto, come aveva osservato a suo tempo Graziella Pagliano (in occasione del convegno 2008 di Roma Noir curato da Elisabetta Mondello, atti pubblicati da Robin Edizioni, 2008), per lo meno nel genere letterario oggi di maggior successo, il giallo-noir all’italiana, lo straniero difficilmente assurge al ruolo di personaggio in accezione forte, difficilmente può divenire protagonista. Curiosamente, poi, la sua funzionalità, diciamo, attanziale si limita a due ruoli: da un lato quello della vittima (fra i tanti esempi possibili ai più alti livelli, si pensi al grazioso Febbre gialla di Carlo Lucarelli, 1997, i cui pregi derivano forse dal fatto che è un romanzo per ragazzi), dall’altro quello di una sorta di collettività anonima fatta di organizzazioni criminali, o comunque di azioni al limite della legalità («banda di albanesi», «mafia russa», «prostitute nigeriane»: quasi che – nella patria dei «marocchini», dei «vù cumprà», ma anche degli ottocenteschi «croatt» – agisse sempre il tic linguistico di rendere antonomastica e dispregiativa una certa appartenenza etnica, vera o presunta che sia).
Mi sbaglierò, ma l’unica importante eccezione alla dicotomia in oggetto (a prescindere dal valore letterario, con ogni evidenza non eccelso) è offerta dalla figura di Ras Tafari Diredawa, invenzione di Massimo Mongai (di cui vedi almeno La memoria di Ras Tafari Diredawa, 2006): vale a dire un colto barbone etiope che nel quartiere romano della Garbatella contribuisce alla risoluzione di indagini criminali di rilievo anche internazionale. Un detective di colore, insomma, per di più indigente. E tuttavia, a ben vedere, tale anomalia risulta meno interessante, e anzi è sintomatica di una situazione che caratterizza la letteratura narrativa «non» di genere. Vale a dire: il protagonista, o comunque il personaggio di rilievo che appartiene a una diversa etnia, è circonfuso di un’aura buonistica e sublimante che lo indebolisce letterariamente, lo appiattisce, funzionalizzandolo non tanto a un intreccio, a una costruzione romanzesca articolata, quanto a una sorta di sillogismo ideologico, conforme all’imperativo: «adesso vi dimostro che anche uno straniero può agire onestamente, e persino svolgere un ruolo positivo nel nostro paese».
Prendiamo a esempio un romanzo come La badante di Paolo Teobaldi (2004). Intanto, gli spazi della storia – una Pesaro rappresentata come città provincialissima, paesone perfettamente organico a una serena campagna quasi senza tempo – rassicurano circa la lontananza dell’Italia (per lo meno, di una certa Italia) dalle contraddizioni più evidenti della globalizzazione (ruolo, questo, peraltro svolto anche dall’oasi popolare della Garbatella messa in parole da Mongai). E poi il pensionato protagonista, il giudice Pietro Carbonara, appare sin dall’inizio a tal punto idealizzato da consentire alla sua dipendente straniera – una badante moldava – di fingere la propria opera di assistenza, essendo lei ospitata in casa sì e stipendiata, ma senza alcuna vera mansione. Quanto maggiormente colpisce, e davvero rattrista un po’, è che colei che è destinata a entrare nel cuore del protagonista non ha alcuno spessore di personaggio, agisce ma è di fatto priva di parola; e dunque si limita a riempire una casella nel percorso verso un prevedibile lieto fine caratterizzato da un’unione «coraggiosamente» non convenzionale. Una dramatis persona insomma che traduce la proiezione di un desiderio e di uno sguardo maschili ed europei (non per caso, l’immenso appartamento in cui il pensionato si era ritrovato solo, grazie alla sua posizione gli consente di esplorare dall’alto, e di controllare anche voyeuristicamente, i comportamenti dei gruppi di immigrati e dell’amata nella fattispecie).
Non solo, in maniera in qualche modo decisiva rispetto al bilancio del presente discorso, la sfocatissima badante ha un leggero sussulto di vitalità quando – romanzescamente (e per fortuna! ) – il suo passato ritorna: vale a dire quando entra in scena quel marito vilain, proverbialmente violento, che ha ricoperto di cicatrici la sua pelle. Spiace proprio dirlo: ma la vera costante nella rappresentazione narrativa odierna dell’immigrato è il suo legame con un mondo (la terra d’origine) caratterizzato da delitto, male, violenza e ingiustizia; e magari proprio da oscure trame terroristiche. Anche il personaggio più complesso e insieme più innocente si è lasciato alle spalle un inferno, un paese dove l’ingiustizia attivamente praticata è la regola.
Esemplare in questo senso il romanzo di Giancarlo De Cataldo Il padre e lo straniero (uscito nel 1997 e riedito nel 2010). L’amicizia tra un mediocrissimo impiegato romano e un misterioso mediorientale, motivata inizialmente dalla comune sollecitudine nei confronti dei rispettivi figli handicappati, perde molto (per lo meno ai miei occhi) della sua carica provocatoria quando certi stereotipi dell’orientalismo all’italiana a mano a mano vengono a galla: e ogni stazione dell’amicizia fra i due (c’è anche un turco proprietario di hammam con una seconda vita di sadico torturatore) rivela un doppio fondo di intrigo e criminalità. Da questo punto di vista, trovo persino peggiore la morale di Quelle stanze piene di vento di Francesca Di Martino (2009), dove la figura di una professoressa universitaria neopensionata che a Napoli indaga intorno al suicidio di una coppia «mista» di fidanzati (lei italiana, lui arabo e musulmano) riesce infine a scoprire le ragioni profonde dell’impossibile integrazione fra le differenti etnie. Come in De Cataldo insomma, il terrorismo aleggia sopra tutto. E l’attempata professoressa, dopo aver frequentato una comunità musulmana, eleggerà a vera amica l’italianissima madre di un camorrista, perdendo ogni contatto con la famiglia tunisina messa in difficoltà da quel medesimo criminale.
Altre, voglio dire, erano le connotazioni di un filmetto americano molto garbato, The Visitor (2007, regista Thomas McCarthy, circolante in Italia tra 2009 e 2010 con il titolo L’ospite inatteso), dove un demotivatissimo professore universitario di economia si converte all’arte della percussione africana nel momento in cui decide di aiutare un migrante nero, perseguitato dalla (in)giustizia del suo paese ma soprattutto dalle inique leggi sull’immigrazione che regolano la società americana. Un bel passo in avanti – direi – rispetto al perbenismo dei plot italici appena visti!
E tuttavia sospetto che il percorso maggiormente suscettibile di produrre un plusvalore conoscitivo sia proprio quello che mette da parte ogni fantasma politicamente corretto e meglio lavora – ma dall’interno – con la paura del diverso, dell’altro come forza ostile. Le goffaggini di certi romanzi qui esaminati forse coprono, con incerte pennellate di buonismo, una realtà con cui dovremmo far meglio i conti. Mi spiego. E da credere che lo straniero – per riprendere una felice definizione di Peter Sloterdijk – metta in crisi l’identità europeo-occidentale in quanto è l’emblema di un epocale, ineluttabile, «sé senza luogo», che ci ricorda l’esistenza di masse d’individui separati per sempre dalle loro origini e fluttuanti in uno spazio quanto mai incerto; e che tale immagine sia tanto più inquietante perché spesso si installa in luoghi che escluderebbero il sé (non per caso il rom o l’africano che dorme-abita in stazione, a fianco di una ferrovia o di un’autostrada, è forse la sintesi massima – nel nostro immaginario – dello squallore e dell’emarginazione). Di modo che le scritture capaci di far lievitare questo doppio spaesamento hanno le carte in regola per apparire più interessanti e riuscite.
Nel 2010, l’ultima sgangherata ma anche efficace (a modo suo) opera di Antonio Moresco, Gli incendiati (2010), ha persino il coraggio di lavorare con un archetipo, quello della «meretrice circassa» (attivo nell’orientalismo da Voltaire e Byron in giù) tanto frusto da essere stato rievocato nell’estate 2010 in relazione a certe antiche esternazioni contro Oscar Luigi Scalfaro da parte di un facondo ex ministro della Giustizia, Filippo Mancuso. Una specie di avatar del Silvestro di Conversazione in Sicilia, in preda a furori che qualsiasi intellettuale italiano del 2010 condivide d’istinto, fugge non presso la madre ma, postmodernamente, in un resort turistico. Qui avviene l’incontro appunto con la «schiava» circassa, di cui si innamora e che lo conduce allo scontro rocambolesco ed esemplarmente cinematografico con l’altro stereotipo collettivo di turno, peraltro già ricordato: «la mafia russa». Il sogno che Moresco in questo modo ci racconta, la corsa verso una purificazione tanto enfatizzata quanto inverosimile (il rischio è citare – «La fiamma è bella!» – la Figlia di Iorio dannunziana!), a me sembra un invito a interrogarsi appunto sulle residue capacità di agire entro un mondo (il nostro) in cui rovine di icone e di storie si sgretolano e si ricombinano, secondo una logica apparentemente stocastica.
Operazione, questa, in astratto simile a ciò che da un po’ di anni a questa parte persegue Tommaso Pincio, bricoleur astutissimo di miti del nostro tempo, rimontati e straniati nei contesti più inverosimili. Senza che tuttavia in lui alcun moreschiano empito romantico-decadente si impegni a deformare la rappresentazione: che invece deve essere nitidissima, attraversata da uno stile leggermente fané, talvolta persino melodrammatico e comunque piuttosto convenzionale. In Cinacittà (2008) il racconto di una Roma futuribile in cui spadroneggia la comunità cinese e gli antichi abitanti sono diventati un gruppo minoritario ormai in via di sparizione, produce un effetto a un tempo iperrealistico e derealizzante (notevole in particolare il détournement di via Veneto); asseconda e insieme rende incredibili giudizi e pregiudizi intorno alla «cinesità».
E l’ennesimo intellettuale degradato e parodizzato (qui, un Marcello impiegato in una galleria d’arte) si incontra fatalmente con l’ennesima prostituta. Facendo una brutta fine, ovvio. Ciononostante, che il perfido Pincio riservi alla sfortunata Yin un destino di generosità quasi nobilitante, è cosa che forse deve farci riflettere (più di quanto non ci faccia riflettere l’eroismo troppo urlato della moreschiana circassa). Le prostitute au grand coeur chi non lo sa? – sono uno dei più frusti stereotipi ottocenteschi. Ma il lettore postmoderno, credo, proprio deve incespicare per un attimo. E deve porsi quella domanda: la domanda, dico, relativa a certi rapporti di potere e sfruttamento (dei corpi e della sessualità, innanzitutto) dalla quale ogni discorso sullo straniero deve sempre – è da credere – ripartire.