Cronache del declino

Mentre l’Italia decresce, non proprio felicemente, l’anniversario della spedizione dei Mille ha ispirato centomila reportage, inchieste, cronache, ricognizioni e indagini sulla penisola. Come risposta alle delusioni della modernità avanzata, parecchi hanno optato per uri andatura – e un’attitudine – «slow» e si sono avventurati a piedi, sui pedali o in treno verso cantucci immutati, al riparo dai venti d’Oriente. Altri hanno preferito raccontare chi la globalizzazione l’ha sfidata, con fatica e senza svendersi, cercando di adattarla alle proprie risorse. Nicchie, certo, precarie e non troppo capienti. Ma questo abbiamo.
 
Erano in Mille, ma a un secolo e mezzo dalla loro impresa sono stati in centomila (quasi tutti maschi, di nuovo) a mettersi sulle tracce dei garibaldini, scorrazzando su e giù per la penisola. Un diluvio di inchieste, reportage, cronache, ricognizioni e indagini tese a esplorare febbrilmente cuore, ventre, viscere e qualunque altra frattaglia di questa povera Itaglia. Ma povera davvero? Povera in che senso? Per comprenderlo occorre partire dalla trasformazione del concetto di necessario, lampante se si sfogliano libri come Outlet Italia, di Aldo Cazzullo, o L’Italia spensierata, di Francesco Piccolo, dove luccicano le paillette di uno sfrenato consumismo di massa, tra autogrill, centri commerciali, notti bianche e parchi giochi, mentre in ogni angolo ronza un televisore perennemente acceso. E dunque non c’è da stupirsi se qualcuno, come Cristiano De Majo e Fabio Viola in Italia 2, si è inoltrato in uno Stivale d’invenzione, offrendo prospettive inedite su luoghi pesantemente mediatizzati, dove «siamo sempre stati senza esserci mai andati», come San Giovanni Rotondo, Predappio, Cogne, Sanremo. Beninteso, gli italiani sono sempre gli altri. Orripilati o divertiti, indignati o comprensivi, gli sguardi di questi osservatori giungono da una distanza siderale, accesi a tratti da lampi di disprezzo. Un sentimento condiviso e dilagante, in un paese che non ha stima né di se stesso né delle proprie istituzioni e percepisce ormai la democrazia come una spesa discutibile.
E ciò che emerge anche dal miglior sopralluogo sulla crisi sociale in atto nella nazione, ovvero Ex Italia. Viaggio nel Paese che non sa più chi è, in cui Giampaolo Visetti individua una serie di problemi – a volte cronici, sempre cruciali – e li focalizza su scala regionale, con scelte sorprendenti. Considera per esempio la Valle d’Aosta per ragionare sulle storture della mano pubblica, la Lombardia per intendere il dramma di un’agricoltura senza contadini, l’Abruzzo per lo sfruttamento del mare. Visetti parte dal basso, tratteggiando con piglio incisivo vicende di singoli individui, che assumono un valore paradigmatico. A conti fatti, la favola del federalismo si trasforma in un incubo popolato da avvoltoi e comuni in bancarotta, ridotti a massacrare il territorio per cavare quattro lire dagli oneri di urbanizzazione. Anziani indisposti a tutto versus giovani migranti decisi a conquistarsi una vita migliore. Periferie ribollenti e borghi semideserti, privati di medici, scuole e trasporti pubblici, secondo il modello disastroso prefigurato dalla Liguria interna. In questo clima finisce col ritrovare linfa – oltre al razzismo – una vena di antiurbanesimo pauperista, esemplificata come meglio non si potrebbe dal voltafaccia di Gavino Ledda, che adesso si dice convinto di avere sbagliato tutto. Meglio i padri padroni di un tempo dell’odierno stuolo di servi e camerieri incattiviti.
Figurarsi allora quanti rimpianti e idealizzazioni possa suscitare l’immagine di un’Italia arcaica, paesana o agreste, in chi neppure ha avuto modo di conoscerne violenze, ingiustizie e grettezze. Come antidoto alla crisi, come risposta alle delusioni della modernità avanzata, ci si risolve a frugare tra le pieghe per trovare l’Italia che «resiste», estasiati ogni qual volta emerga un vestigio di come campavano i nonni. Si tratta di tirare il fiato, cambiare ritmo, ritrovare un’andatura slow, adatta ad accompagnare una sana e consapevole decrescita. Ecco dunque che gli inviati abbandonano l’automobile per inforcare la bicicletta o attendere un espresso, come ama fare Paolo Rumiz, riconosciuto maestro del genere, protagonista di varie perlustrazioni traslocate dalle colonne di «Repubblica» alle pagine di un libro. L’ultimo, Id Italia in seconda classe (arricchito dai disegni di Altan), offre una perfetta combinazione del consueto andirivieni tra nostalgia e disfattismo: l’Eurostar sfreccia come una supposta infilata a velocità supersonica dove sappiamo, mentre sulle linee secondarie i giardinetti delle stazioncine languono abbandonati a se stessi, emblema di un territorio svilito e «impresenziato». Tutto vero, per carità, condito da notazioni spiritose e godibili ritratti dell’esotica fauna che abita i vagoni di provincia, decisa (o rassegnata?) a godersi il «lusso della lentezza». Appunto: non tutti possono permetterselo, sfortunatamente.
Che in giro ci sia una gran voglia di scendere dall’ottovolante, comunque, lo attesta pure il moltiplicarsi di lavori che raccontano escursioni e pellegrinaggi a piedi per monti e campagne, magari coast to coast, con particolare attenzione ai più remoti anfratti dell’Appennino, percorsi – oltre che dal solito Rumiz, con Lzz leggenda dei monti naviganti — da vari scrittori più giovani, come Enrico Brizzi e Wu Ming 2. Decisamente meno battuto è invece l’itinerario prescelto da Gianni Biondillo e Michele Monina, che in tangenziali. Due viandanti ai bordi della città, scelgono di ripetere a Milano l’esperimento di Iain Sinclair, che anni fa setacciò zaino in spalla i dintorni della M25 (l’autostrada che cinge la capitale inglese), ricavandone in London Orbitai un celebrato esempio di «psicogeografia». Tra cascine abbandonate, cimiteri e capolinea del metrò, i due autori alternano le voci, corredano i capitoli di fotografie, ma il progetto non decolla. Del resto non sembrano crederci troppo nemmeno loro, quel che si dice una coppia male assortita: l’uno vigile e preparatissimo, un po’ incline ai fervorini; l’altro costantemente ammorbato, privo di curiosità e disposto solo a trovare conferme ai suoi pregiudizi. A volte – viene da supporre – sarebbe meglio lasciare che sia la città a muoversi intorno all’osservatore, più che lento immobile, comodamente seduto in un angolo adatto a guardare e riflettere. Proprio ciò che fa Beppe Sebaste in Panchine, concentrandosi però soprattutto su casi personali.
È, quest’ultimo, uno dei molti lavori in bilico tra reportage e narrativa comparsi nella collana «Contromano» di Laterza, diretta da Anna Gialluca, che le ha impresso un taglio originale, rendendola una fonte imprescindibile, per chi confida nell’attitudine della letteratura a restituire scorci illuminanti delle realtà odierne. C’è solo l’imbarazzo della scelta, tra la Sardegna interna di Marcello Fois, le Marche profonde di Angelo Ferracuti, la Padova di Romolo Bugaro o l’anonima Palermo colta da Giorgio Vasta in Spaesamento, senza nulla concedere al folclore o all’elegia sulle perdute dimensioni locali. Altrove, invece, il sentimento evocato dal titolo genera un’incessante serie di varianti al tipico refrain strapaesano.
La provincia rappresenta in effetti un crocevia obbligato per rendersi conto degli sviluppi sempre più inquietanti di un apparato mentale difensivo fondato sull’appartenenza al territorio e sull’impiego parossistico e disinvolto di termini avvelenati come «identità», «purezza» e «natura», per cui rimando senz’altro agli studi dell’antropologo Francesco Remotti. Nel regno della precarietà, quando tutto diventa obsoleto in un attimo, per contraccolpo si sviluppa una coazione a definirsi, ad aggrapparsi a qualsiasi invariante, che produce – combinata con un basso livello di scolarizzazione – esiti tragicomici (quanti lombardi sono convinti in perfetta buona fede che il proprio dialetto sia un idioma celtico?). La persuasione di riconoscere tratti di longue durée nel carattere degli abitanti di un luogo spinge a postulare parentele spericolate con popoli antichi, mentre dilaga la passione per la storia, vicina o lontana, tagliata in ogni caso a quarti di bue. Sicché quest’anno tante voci in genere discordi, da sud e da nord, si sono unite per pronunciare una condanna senz’appello di Giuseppe Garibaldi. Viva i Borboni, viva gli austriaci, viva i nostri avi bistrattati. Poi però leggi di comuni dell’Altopiano, veneti da secoli, che corrono a buttarsi tra le braccia del Trentino e ti viene il dubbio che – levata la fuffa – sia soltanto una questione di schei.
Un buon antidoto a questi malumori è la lettura del Viaggio al centro della provincia di Franco Marcoaldi (anch’egli, come Rumiz e Visetti, inviato di «Repubblica» – non un caso). L’obiettivo è quello di ridare lustro al glorioso modello di Guido Piovene, girando l’Italia «orecchio a terra», in modo da coglierne il battito. Per capire il genius loci occorre prima di tutto ascoltare gli indigeni, illustri o meno. E Marcoaldi vi si presta volentieri, seduto nei caffè, a spasso per le vie, in visita a negozi, fabbriche, chiese e monumenti, senza fermarsi al luccichio della superficie, perché il prezzo di un centro storico magnificamente ristrutturato non può essere lo spregio di ogni regola in materia d’appalti. Scopre così un’Italia minore vivacissima, per nulla omologata, né innocente né immobile. Dinanzi all’avanzata di un bosco non scioglie inni alla wilderness, ma vi coglie il sintomo dello spopolamento delle montagne. Attento al mutare delle situazioni, diffidente verso gli stereotipi, sa bene come l’adattarsi allo sguardo altrui sia il primo passo verso l’eutanasia di una cultura.
Certo, a volte qualche obiezione sarebbe la benvenuta, al cospetto dell’orgoglioso localismo in cui anch’egli s’imbatte, nelle terre valdesi come a Enna o ad Ascoli Piceno. D’altra parte Marcoaldi non manca di sottolineare come il passato possa rappresentare una zavorra e quanto noccia, ridotto a brandelli in un contesto estraneo. Vedi il caso della Barbagia, dove i guasti di una certa mentalità atavica si rapprendono in un motto: «non fachene e non lassan fachere», non fanno nulla e non lasciano far nulla. In altre circostanze, peraltro, novità e tradizione riescono ad amalgamarsi in forme inedite, come prova il caso ben noto della comunità sikh impiantata a Novellara per occuparsi del bestiame. Aumentano intanto i casi di gente che ha saputo reinventarsi senza voltare le spalle al tempo che fu, ripartendo dalle ceneri dei mestieri familiari. Sullo sfondo resta poi il geniaccio italico, che non dev’essere del tutto tramortito, se dalle parti di Barletta un tal Luigi Gorgoglione è riuscito a ideare dal nulla un marchio di abbigliamento popolare, Monella Vagabonda, in grado di tener testa alla concorrenza dei cinesi.
Con il che abbiamo finalmente introdotto l’ospite ingombrante che si aggira, più o meno di soppiatto, nella maggior parte delle opere vagliate. L’unica tuttavia ad affrontare di petto la questione, in termini narrativi, è la Storia della mia gente firmata da Edoardo Nesi. E si capisce: già imprenditore nel ramo tessile a Prato, Nesi racconta una sconfitta cocente, vissuta sulla propria pelle. Attraverso le vicende del lanificio di famiglia, dai tempi ruggenti dei nonni agli anni del boom, sino all’avvento di chi scrive, che se ne libera, il lettore vede trascolorare il benessere italiano, da chimera sfuggente a possesso esibito, infine illusione perduta, nella prospettiva della prima generazione di italiani che va a stare peggio dei genitori. Fatta la tara ai ricordi appassionati, come pure al narcisismo debordante, bisogna riconoscere che Nesi punta dritto al cuore del problema: i soldi risparmiati acquistando (magari senza accorgersene) scadenti merci asiatiche, sono gli stessi «che servivano a pagare gli stipendi degli operai italiani», i loro mutui, il dentista, le macchine, i vestiti. Per un po’ ci si è illusi che la via giusta fosse quella di arricchirsi speculando sui semilavorati d’importazione, come i liutai cremonesi di cui scrive Marcoaldi, ma presto la pacchia è finita. Lo sappiamo: invece di correre a comperare il Made in Italy si sono messi a produrlo, in condizioni ignobili. Ha ragione Nesi a pretendere il rispetto della nostra legislazione sul lavoro, a brandirla come un’irrinunciabile bandiera di civiltà. Ma intanto è necessario vedere, capire: e non c’è verso di non impietosirsi, quando gli capita di accompagnare un’irruzione delle forze dell’ordine in un fatiscente laboratorio clandestino. Sono pagine intense, in cui i temuti fantasmi dagli occhi a mandorla si materializzano in tutta la loro imperscrutabile, eppure dolente, umanità.
Qual è allora il destino delle produzioni italiane? Diverremo «un opificio, con un buon marchio, per conto terzi»? La nuova parola d’ordine, credere nelle mani, lascia il tempo che trova se nessuno è in grado di riconoscere, e neppure gli importa, un buon taglio o un tessuto di qualità. Dice: ci salverà il lusso, ci salveranno le nicchie. Ma queste – Nesi lo ricorda – fuor di metafora non sono altro che incavi, tane, ripostigli: non ci stiamo tutti. Chissà. Forse non poteva andare diversamente, forse non abbiamo mai avuto una vera industria manifatturiera ma soltanto artigiani ingranditisi in condizioni favorevoli. Però non serve lodarne il coraggio e la tenacia, non ha senso rimpiangerli. I figli degeneri e i politici inetti, che negli anni novanta non hanno saputo resistere alle sirene del liberismo, avranno le loro colpe, e gravissime. Ma come è possibile comprendere il declino – che lievita sulla rottura di un patto sociale e generazionale – senza guardare al debito pubblico esploso negli anni delle vacche grasse? Senza riflettere sui pensionati quarantenni, sui capitali sottratti ai bisogni della collettività e oggi «scudati» a prezzi di saldo? Qualche mano, cara grazia, si è levata per chiedere di aumentare le sanzioni, destinare il gettito a favorire la nascita di nuove aziende, garantire ai giovani un accesso più facile al credito bancario. Lo ha proposto lo stesso Nesi, in un’accorata lettera al presidente del Consiglio apparsa sul «Corriere della Sera». Nessun effetto. Mentre scrivo, del resto, da cinque mesi l’Italia non ha neppure un ministro dello Sviluppo economico.