Quando il presente storico appare opaco e incomprensibile, raccontare la propria vita assume il valore di un gesto primario per interpretare il mondo. Le fortune dell’autobiografia nascono soprattutto da questo elementare desiderio di coerenza: scrivere di sé diventa un modo per riappropriarsi del senso profondo degli eventi; raccontare la propria storia si fa guerriglia privata contro l’avanzata del caos. Che si tratti di autobiografie vere e proprie o di memorie raccolte, sulla pagina i protagonisti dei periodi più cupi della Storia italiana diventano eroi e antieroi di storie ad alto tasso di narrabilità, in un doloroso dipanarsi di destini personali che si fanno vicenda collettiva.
Le librerie non sono solite riservare spazi appositi alla memorialistica. Per gli autori più famosi vige ovviamente il criterio di riunire tutte le opere di ciascuno (per questo non capita di incontrare l’una accanto all’altra la Vita di Henry Brulard di Stendhal, le Confessioni di Rousseau, Il passato e i pensieri di Aleksandr Herzen, La lingua salvata di Elias Canetti). Ma anche nel caso degli autori noti soprattutto per un libro – poniamo, l’Autobiografia di Malcolm X – o, a maggior ragione, nel caso delle novità, la collocazione sarà nella sezione Biografie, se esiste: ovvero, più facilmente, sugli scaffali dedicati alla storia. Se ne potrebbe concludere, forse, che l’interesse del pubblico per i libri autobiografici privilegi il valore documentario della testimonianza rispetto a quello esistenziale e introspettivo. Ma in realtà l’autobiografismo è una presenza endemica in tutti i generi di scrittura, ben oltre i limiti dell’autobiografia propriamente intesa di cui i teorici discettano, e che i librai, prudenti, ignorano. Il parlare di sé costituisce una matrice primaria della narrazione, anche nel campo del discorso naturale; la maggior parte di coloro che si mettono a raccontare qualcosa, in qualunque contesto, parlano della propria esperienza vissuta. E a questo fecondo humus del narrare si ritorna spesso e volentieri, nelle circostanze più diverse, per una quantità di motivazioni.
All’origine dell’attuale vitalità del genere autobiografico concorrono a mio avviso tre ragioni. La prima è una certa debolezza dell’istituzione letteraria, o per dir meglio, della letteratura «istituzionale»: intendendo con tale espressione quella mediana strada maestra del romanzo che negli ultimi lustri sembra aver perduto forza e prestigio, specie se raffrontata al mordente del multiforme narrare «oltre i generi», germinato dagli innesti sui rami del poliziesco, dell’horror, della non-fiction (quello che i Wu Ming compendiano sotto l’etichetta New Italian Epic). La seconda è il cronico deficit della storiografia non specialistica: all’abbondanza delle pubblicazioni sulle vicende degli ultimi due o tre decenni non corrisponde una capacità adeguata di alimentare un dibattito culturale stringente, svincolato dalle pastoie della cronaca. La terza è che viviamo in anni di narcisismo trionfante: il pronome «io» campeggia ovunque, e la letteratura non può che nutrirsi della mentalità collettiva – fermo restando che senza amor proprio (come ammoniva La Rochefoucauld) anche la virtù farebbe poca strada. Fatto si è che in ogni fase storica di crisi, dove la realtà si presenta opaca, informe, caotica, raccontare la propria vita ha il valore di un gesto primario: una sorta di grado zero dello sforzo di interpretare e di capire il mondo. Quando si stenta a dare un senso agli avvenimenti collettivi, ripartire dalla propria storia personale appare la via più praticabile, e fors’anche la più onesta. Le fortune dell’autobiografia nascono soprattutto da questo elementare desiderio di coerenza: dal bisogno di verificare che esistano connessioni non casuali tra i fatti, tali da tracciare il disegno d’una vicenda riconoscibile. Raccontare la propria vita insomma, quando non è un atto di semplice vanità, è una sorta di guerriglia privata contro l’entropia. E in un’epoca di esternalizzazioni e di contractors, attorno alle autobiografie vere e proprie orbita una galassia di memorie raccolte da cronisti, interlocutori, confidenti, in cui tendono a sfumare i confini tra biografie, autobiografie, libri-intervista, dialoghi.
Non stupisce naturalmente che molti scritti tendano a coagularsi intorno ai principali nodi della storia contemporanea. Assai nutrita appare la produzione riconducibile all’etichetta «Anni di piombo»: fra i titoli più recenti, Armi e bagagli. Un diario delle Brigate Rosse di Enrico Fenzi (2006), Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse di Prospero Gallinari (2006). Ma l’elenco potrebbe essere lungo, e includere tutte le figure più note di quella drammatica congiuntura. Circa la disparità quantitativa fra autobiografie di ex terroristi e autobiografie di parenti delle vittime, che più d’uno ha notato, mi sembra superficiale accusare l’editoria italiana di tendenziosità, o gli ex terroristi di indiscreto protagonismo. Esiste, credo, una ragione più intrinseca: le esperienze fondate su binomi quali crimine/ravvedimento, peccato/conversione, errore/presa di coscienza vantano un alto tasso di narrabilità, perché si rifanno a uno schema interpretativo molto forte. Tale non è invece il caso di colui o colei che, patita senza colpa una perdita irrisarcibile, abbia dovuto ricostruirsi faticosamente una vita, di norma nel grigiore di un’oltraggiosa indifferenza. Tanto più meritorio risulterà perciò il libro di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo (2007). Il problema di un autobiografo in fondo è sempre lo stesso: narrare di sé dando voce a una condizione più generale. Calabresi riferisce la propria tragedia familiare senza avvitarsi su di essa, ma, al contrario, costruendovi attorno una serie di contesti storici che ampliano la prospettiva ad altre vicende dolorosamente simili e tuttavia irriducibilmente uniche. Il perverso intreccio di falsità e fanatismi, dapprima, e poi di ipocrisia e insensibilità, di irresponsabilità e di opportunismo, tracciano un disegno lusinghiero no, ma attendibile di trent’anni di storia nazionale.
Generalmente parlando, la produzione autobiografica potrebbe essere catalogata per categorie professionali: giornalisti, artisti, uomini di spettacolo, professori universitari, politici. Secondo una tradizione consolidata, nella maggioranza dei casi il titolo (o, in alternativa, il sottotitolo) contiene un’autodefinizione: Il revisionista (Giampaolo Pansa, 2009), L’uomo che non credeva in Dio (Eugenio Scalfari, 2008), Conta e racconta. Memorie di un ebreo di sinistra (Amos Luzzatto, 2009), Confessione di un fazioso (Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, 2006). Fra i politici la parte del leone dovrebbe toccare a Giulio Andreotti, che oltre a monografie sui personaggi storici prediletti (Pio IX e De Gasperi) ha dato alle stampe decine di libri di memorie. Ma la produzione andreottiana (edita da Rizzoli) ha un evidente carattere seriale, sottolineato dalla ricorrenza delle etichette. A parte i titoli più corrivi, giocati sulla troppo famosa massima circa il potere e il logorio, si vedano la serie dei «visti da vicino», la serie dei «nonni della Repubblica», la serie annalistica (1947. L’anno delle grandi svolte’, 1948. L’anno dello scampato pericolo, 1949. L’anno del Patto Atlantico). Probabilmente l’impresa autobiografica più memorabile a cavallo tra il XX e il XXI secolo è costituita dal trittico di Luigi Pintor, compiuto (dopo Servabo e La signora Kirchgessner) con Il nespolo (2001): al quale tuttavia non si può non aggiungere I luoghi del delitto, edito come i precedenti da Bollati Boringhieri, e apparso nel 2003 pochi giorni dopo la morte dell’autore. L’autobiografismo è appena velato da un nome fittizio (martin, scritto con la minuscola, come tutti i nomi propri in questo libro) e dall’affermazione iniziale: «Ho poco più di cinquant’anni, ma ne dimostro il doppio». Pintor era nato nel 1925; cent’anni era l’età che si attribuiva il protagonista del Nespolo. I luoghi del delitto è una meditazione in limine mortis, che assume la cadenza (più che la forma) di un rarefatto diario. Anche in questa estrema prova lo stile di Pintor conferma la sua cifra distintiva, il singolare nesso di asciuttezza e duttilità. Il discorso procede sempre sobrio ed essenziale, ma il tono trapassa leggero da un registro all’altro, sì che la riflessione si modula variamente tra paradosso e pietà, gravità e ironia, nostalgia e sarcasmo. Né la diffusa malinconia diviene mai tetraggine, nemmeno nelle considerazioni più amare, come nella massima conclusiva, presa in prestito da un piccolo indiano: «finché l’uomo non si porrà di sua volontà all’ultimo posto tra le creature sulla terra non ci sarà per lui alcuna salvezza». Sebbene mai citato, il cognome del personaggio di Jack London aleggia su queste pagine come un silenzioso promemoria. Non c’è alcun «Eden» per questo «martin»: ma ciò non esime dal dovere di tener ferma nella propria coscienza l’idea di un mondo migliore di quello in cui ci si è trovati a vivere e a morire.
Tra le autobiografie dall’impianto più classico spicca La ragazza del secolo scorso di Rossana Rossanda (2005). La nota introduttiva formula una domanda, che la grama fine del comunismo nel Novecento rende più che mai pressante: «Che è stato essere comunista in Italia dal 1943?». Dunque, l’annuncio di un’autobiografia politica; e tale è, a tutti gli effetti, questo libro. Ma dopo la precisazione iniziale («Non ho trovato il comunismo in casa, questo è certo. E neanche la politica. E poi dell’infanzia non ricordo quasi niente, e poco dei primi sette anni nei quali – secondo Marina Cvetaeva – tutto sarebbe già compiuto») sul filo dei ricordi si dipana una delle storie di formazione più belle della narrativa degli ultimi decenni: l’infanzia a Pola (i mucchi di grano in soffitta, le isole dei narcisi, le cave di pietra d’Istria), il rapporto con i genitori (tramato, come di norma nelle famiglie borghesi, di sottintesi e di elusioni), il disastro economico, il trasferimento dagli zii veneziani; e poi Milano, gli studi, la guerra, la passione per la storia dell’arte, l’incontro con il filosofo Antonio Banfi, l’adesione al comunismo, la Resistenza, la Liberazione. Riservata ai limiti della reticenza sugli aspetti più privati e sentimentali della vita – fatti salvi alcuni squarci intimi di una concisione pudica e crudele, come il brano del cap. XIII sulla mancata maternità – la narrazione, man mano che procede, si configura sempre più nettamente come il resoconto di un’appassionata militanza politica. La Rossanda rievoca la propria esperienza con affilato spirito critico, sottolineando le incertezze, le perplessità, gli interrogativi irrisolti di allora, e additando senza esitazioni, con la consapevolezza del poi, gli errori commessi e le occasioni perdute. Il risultato è una tensione tra rivendicazione orgogliosa e severità autocritica che non può non apparire, almeno in parte, contraddittoria. Così, se da un punto di vista strettamente formale giova che il racconto s’interrompa all’altezza del 1969 (la radiazione dal Pei del gruppo del «manifesto» è una «conclusione», requisito indispensabile per ogni storia), dal punto di vista storico-politico molti problemi restano aperti. Per questo, ma anche per le virtù di una prosa davvero notevole per nitore ed energia, ci si può solo augurare che la Rossanda voglia raccontare, di sé e del secolo scorso, anche i decenni seguenti.
Fra i tanti aspetti interessanti del libro merita di essere segnalato un dettaglio istruttivo, cioè l’immagine in buona misura distante ed enigmatica dei vertici del Partito. Togliatti sembra risiedere in vetta a un Olimpo perennemente avvolto nelle nuvole. La cosa in fondo può anche non stupire, se pensiamo che l’autrice non fu mai un dirigente di primissimo piano. Meno scontato è che un’aura di opacità, se non di mistero, circondi la figura di Togliatti anche nelle memorie di Pietro Ingrao (dove è designato con l’espressione, sottilmente straniante, «quel capo»): paradosso fatale per una forza politica che ebbe una presenza capillare sul territorio e una partecipazione attiva, a tutti i livelli, come nessun’altra in Italia. Per il resto, Volevo la luna (2006) – titolo che non allude a chimere ideologiche, ma a un delizioso aneddoto infantile – ha un’ampiezza cronologica maggiore dell’autobiografia della Rossanda: oltre settant’anni, dall’inizio del Novecento fino alla morte di Moro. Benché le ragioni di interesse storico, politico, sociale siano numerosissime, nel libro di Ingrao il piacere di ricordare, inteso nel senso migliore della parola, prevale, nell’insieme, sul bisogno di comprendere. Ma la qualità letteraria del testo rimane sempre alta, come del resto era lecito attendersi (si sa che Ingrao ha al proprio attivo anche alcune raccolte poetiche). C’è stato un tempo, che ora sembra lontanissimo, in cui l’impostazione umanistica della cultura dei dirigenti comunisti poteva apparire, politicamente parlando, un limite al cospetto delle esigenze di modernizzazione del paese. Oggi che non corriamo più rischi derivanti dall’eccesso di umanesimo, rileggendo quel passato nelle memorie dei protagonisti facciamo fatica a non farci prendere dalla nostalgia. Ma è una fatica necessaria.