Ogni nuovo titolo di Camilleri finisce ormai senza stupore in vetta alle classifiche tedesche; La solitudine dei numeri primi in Olanda, per dirne una, si attesta sulle 250mila copie e Geronimo Stilton ha conquistato anche il mercato più ostico, quello anglosassone, arrivando a vendere qualcosa come 14 milioni di copie nelle English-speaking countries. Negli ultimi anni – le indagini lo confermano – si assiste insomma a un gran fiorire dei libri italiani all’estero, merito degli editori così come degli scrittori.
Il successo all’estero dei nostri bestseller salta all’occhio appena si guarda un po’ oltre lo Stivale, ma questo è in fondo solo l’aspetto più evidente di una crescita che ha le sue fondamenta nei processi di internazionalizzazione avviati da alcuni anni dalle case editrici italiane e che si traduce nel raggiungimento di un livello più maturo nell’interscambio dei diritti. L’ultima indagine Doxa (marzo 2009) commissionata dall’ICE, Istituto per il Commercio estero, e coordinata dall’ufficio studi dell’AIE ci ha mostrato chiaramente come dal 2001 al 2007 siano aumentati in maniera rilevante gli editori che hanno venduto o comprato diritti (+75,1%), anche in rapporto alla crescita complessiva del numero delle imprese (+21,1 %). Ciò riflette naturalmente anche una generale apertura verso i mercati non anglosassoni, basti ricordare lo sconcerto con cui gli operatori inglesi hanno visto lo svedese Larsson – un libro tradotto! – raggiungere il primo posto nelle loro classifiche. In Italia, per parte nostra, abbiamo assistito in tempi piuttosto recenti allo sbocciare di piccole case editrici specializzate nella traduzione di narrativa scandinava (Iperborea), spagnola e ispanoamericana (Gran Via), coreana e del sudest asiatico (ObarraO), e di tanti altri paesi, così come avviene nel resto del mondo. Persino i mercati emergenti, quello asiatico in primis e quello dell’Europa balcanica e orientale, si dimostrano estremamente curiosi e sempre più attivi, a tal punto che «spesso sono interessati a titoli che non potremmo mai immaginare» confessa Emanuela Canali, responsabile della cessione per i diritti esteri Mondadori, «come quando un editore coreano ci ha chiesto un saggio sul blog di Beppe Grillo».
Proprio i dati sulle vendite dei diritti all’estero [fonte: Doxa] rappresentano il frutto più gustoso dei processi di internazionalizzazione che coinvolgono le case editrici italiane: dal 2001 sono quasi raddoppiati (+93,9%) e, all’interno di questa cifra, il dato relativo alle novità aumenta dal 6,4% al 9,7% – un incremento maggiore rispetto alla crescita della produzione complessiva (il 16% quello dell’export, il 4% per quest’ultima). Il dato migliora se si considerano i libri per ragazzi, che assieme all’editoria illustrata costituiscono il comparto di punta nelle vendite all’estero, dove le novità cedute sono il 38,5%, una su tre [fonte: Istat]. E significativo il fatto che non siano solamente le grandi case editrici a rafforzare la presenza dei loro autori all’estero, ma anche le medie e, in misura minore, le piccole (dove per piccole Doxa intende quelle che pubblicano meno di 15 novità l’anno).
Il dinamismo degli editori medi e medio-piccoli si riflette anche in un altro aspetto significativo dei processi di internazionalizzazione, e che riguarda in primo luogo l’editoria per ragazzi e gli illustrati: il proliferare delle coedizioni con editori stranieri, che dal 2001 al 2007 sono ben più che raddoppiate, passando da 555 a 1323. Nonostante alcune difficoltà pratiche, derivanti soprattutto dalla necessità di far coincidere i piani editoriali, le coedizioni offrono il grande vantaggio di alzare la tiratura e di conseguenza diminuire i costi di produzione, soprattutto quando il «nero» è una quota relativa rispetto alle immagini. Un vantaggio non da poco (che in termini economici è anche maggiore per l’editore che gestisce la coedizione stessa, occupandosi dei volumi dall’impaginazione alla stampa e al trasporto), che ha indotto alcune piccole case editrici a riorganizzarsi per sfruttarlo appieno. Gianna Raimondi, dell’ufficio diritti di Orecchio acerbo editore, ci spiega che «oltre a investire di più sui foreign rights in termini di risorse umane, cerchiamo ormai di definire con maggiore anticipo il nostro piano editoriale, così da permettere ai partner eventuali di inserire la coedizione all’interno dei loro; oppure ci capita di posticipare un titolo se un soggetto straniero si mostra interessato alla coedizione». Non mancano neppure tentativi, ancora abbozzati, di collaborazioni più fluide: «Abbiamo pensato a un modello diverso per la vendita all’estero» prosegue la Raimondi «una sorta di baratto che purtroppo non è poi andato in porto. Noi ci saremmo impegnati a pubblicare un libro l’anno di un’illustratrice coreana che amiamo molto e il suo editore coreano avrebbe fatto lo stesso con uno dei nostri titoli, senza alcun pagamento per la cessione dei diritti». Se, per fare un ultimo esempio, consideriamo Corrami, questi, oltre a sviluppare le coedizioni – spesso con grandi editori, che gli consentono una distribuzione e visibilità maggiori rispetto all’Italia (Corrami non distribuisce in conto deposito) -, segue la tendenza recente dell’editoria d’arte e design, sfruttandola anche per i titoli rivolti ai bambini: «Pubblichiamo sempre più spesso» ci conferma Giovanna Ballin dell’ufficio diritti della casa editrice «libri multilingua che poi esportiamo, oppure con doppia tiratura, una italiana per il nostro mercato e l’altra in inglese o multilingua».
Infine, come ricorda Giovanni Peresson nel saggio «I tanti volti del copy italiano» in Copy in Italy, «a cavallo della metà degli anni novanta, prende avvio anche un approccio più incisivo all’internazionalizzazione del sistema d’impresa nei principali mercati europei (ma anche verso il Centro e Sud America)», sicché «tutti i maggiori gruppi hanno costituito società operative, avviato joint venture, acquisito marchi editoriali» o «quote di maggioranza». Sebbene più difficile per loro, anche alcuni editori indipendenti più piccoli si sono mossi verso questa direzione. Paradigmatico il caso di e/o che nel 2005 costituisce Europa Editions, con sede a New York, per vendere direttamente i suoi titoli italiani, ed europei, nel mercato anglosassone. Ma pensiamo anche a una casa editrice di nicchia come Mimesis, che una decina d’anni fa ha aperto una filiale a Parigi «attraverso l’associazione culturale Mimesis France» ci spiega l’editore Pierre Dalla Vigna «con sede presso una libreria di proprietà di amici, L’odeur du book. Per quanto riguarda la distribuzione di questi libri stampati direttamente da noi in francese ci appoggiamo all’editore Vrin, con cui progettiamo molti titoli in coedizione». Proprio il suo essere di nicchia, anzi, spiega la possibilità in un mondo più compresso e che si percepisce come unitario di pescare il suo pubblico andando a gettare le reti in un mare più ampio. «Alcuni generi di letteratura» sottolinea la sociologa Diana Crane ne La produzione culturale «si rivolgono a individui con gusti, valori e interessi intellettuali molto specifici che li portano a cercarsi l’un con l’altro e a formare comunità sociali», al di là dei confini nazionali – aggiungiamo. Gli stessi dati Doxa indicano che in due anni il variegato microcosmo dei generi rubricati sotto un generico «altro» passa dall’8 al 12% dell’export, «con un peso consistente di titoli presumibilmente a bassa tiratura».
Lavorando invece su un pubblico internazionale specifico ma molto ampio, come quello dei ragazzi, e per sfruttare appieno la transmedialità del suo personaggio «fondatore», Geronimo Stilton, nel 2007 nasce Atlantyca entertainment company che si occupa di animazione (distribuzione e licensing), creazione di contenuti editoriali, vendita di diritti all’estero. Questa impronta è evidente nella genesi stessa del character, «nato dalla penna di una persona abituata a pensare nella globalizzazione» ci spiega Claudia Mazzucco, amministratore delegato. «Già la scelta del nome è indicativa perché non reca in sé alcuna specificità territoriale e non necessita di traduzione: lo Stilton è un formaggio inglese e Geronimo, se non proprio diffuso, è senz’altro un nome celebre.» Come la Disney, però, anche Atlantyca consente le localizzazioni necessarie a mantenere l’anima e l’umorismo dei personaggi: «per esempio, nei libri di Geronimo Stilton la maggior parte dei nomi o dei nomignoli dei protagonisti» continua la Mazzucco «si ispira a diversi tipi di formaggio… perciò in Olanda, dove ne esistono pochissimi, abbiamo convenuto per un adattamento che si servisse di motti di spirito e giochi di parole».
Così, mentre guadagnano terreno libri e personaggi creati ad hoc per aprirsi a un mercato internazionale, puntando sul «gusto popolare», per usare le parole di Andrea Dami in una recente intervista al «Giornale della Libreria», o su mode e occasioni particolari (come per esempio il romanzo Mondadori per ragazzi Destinazione Tokio Hotel o 1989. Dieci storie per attraversare i muri, un albo Orecchio acerbo in coedizione con editori di altri quattro paesi), molto richiesti sono anche i titoli che al contrario mettono sotto i riflettori la nostra locale specificità.
Questo crescente e generale interesse per la «biodiversità» culturale (e in generale per le identità locali) evidentemente deve molto al complesso fenomeno della globalizzazione che, se per un verso – la faccia più nota – spinge all’omologazione e all’uniformità, per l’altro valorizza, e universalizza, il particolare: come ha sottolineato il sociologo Roland Robertson, «la diversità è un aspetto basilare della globalizzazione».
Con il risultato che «tanto meno un libro sembra concepito per andare all’estero, tanto più ci andrà», come ben sintetizza Antonio Franchini, editor della narrativa italiana Mondadori.
«Pensiamo solo al caso eclatante, ma significativo, di Milena Agus» prosegue «notata e apprezzata dai critici e dai lettori francesi prima che da noi», come già era accaduto una decina di anni prima al Ferrandino di Pericle il Nero. «Mal di pietre è stato un successo inaspettato» ricorda Maria Leonardi, ufficio diritti di Nottetempo: «in Italia il libro non aveva attirato particolare attenzione, quasi meno del primo romanzo della Agus, Mentre dorme il pescecane. In Francia invece è esploso immediatamente, vendendo circa 170mila copie, con un effetto di ritorno da noi e di lancio a livello internazionale. Certamente il fatto che l’autrice sia sarda, molto legata al territorio, è stato a nostro avviso uno dei punti di forza, uno dei motivi del successo del romanzo».
All’estero sembrano cercare dunque soprattutto lo stereotipo, il colore locale, e dunque la domanda è quella di «storie di mafia e di saghe familiari, molto meglio se ambientate nel Sud», conferma la Canali, e di quanto in sostanza ha a che fare con la difficile modernizzazione italiana – non è un caso che fuori dello Stivale la chick-lit nostrana non funzioni o che la saggistica più venduta (quella divulgativa è uno dei settori che ha registrato un incremento maggiore) riguardi l’attualità politica e la religione.
Eppure, rispetto al colore di un De Crescenzo, qualcosa di significativo è cambiato. Se si torna all’indagine Doxa sull’import/export dei diritti italiani all’estero, ci accorgiamo infatti di un dato evidente: la vendita di diritti di narrativa nostrana aumenta dal 2001 al 2007 del 157,3 % (mentre i romanzi stranieri acquistati solo del 51,8%), e – cosa ancora più significativa – su 10 libri ceduti, 9 sono stati pubblicati dopo il 1990 (dove quelli acquistati all’estero da editori italiani dopo tale data sono 7,5). Ci si trova dunque in corrispondenza di quell’ondata di romanzi gialli e noir che segna per la nostra letteratura il «ritorno al reale», per citare Angelo Guglielmi. Scrittori che raccontano storie italianissime, ma nel farlo guardano anche oltre frontiera – a quegli autori (principalmente anglosassoni) che hanno rinnovato il noir –, inventano il legai thriller o l’hard boiled italiani (si legga il saggio di Mauro Novelli «I gialli italiani all’estero» nel già citato volume a cura della Fondazione Mondadori), e insieme agli scrittori affini, loro vicini di casa, creano un «noir mediterraneo». «Il modello spesso seguito da questi scrittori (De Cataldo, Romanzo criminale, ma non solo lui)» osserva in proposito Raineri Polese nel suo intervento nell’Almanacco Guanda 2008 «pare molto lontano dai gialli tradizionali “all’italiana”: è il James Ellroy sull’uccisione di J.F. Kennedy […] perché le versioni ufficiali dei fatti, oltre a spiegare poco o niente, hanno in realtà impedito all’opinione pubblica di capire, di sapere, di conoscere». Lo stesso De Cataldo scrive infatti, sempre nella stessa pubblicazione, «la nostra Storia più recente l’abbiamo scoperta – o riscoperta – come storia criminale. La nostra Storia». E proprio all’inizio degli anni novanta che, in concomitanza con i sovvertimenti politici mondiali e nazionali, in una società italiana fino a quel momento sostanzialmente monoculturale irrompono nuove e diverse culture (si veda l’articolo di Carlo Galli nel numero di «Limes», Esiste l’Italia? Dipende da noi, marzo-aprile 2009): sono spinte che ci portano a riflettere sul nostro passato, sulla nostra identità, sulla fragilità delle nostre istituzioni. Questi romanzi più aderenti al reale, pervasi di una forte carica etica, che fanno i conti con la nostra storia ed esibiscono luoghi riconoscibili, rappresentano una sorta di antidoto a un’appartenenza locale che s’è fatta negli ultimi anni sempre più sfaldata e astratta. Una recente inchiesta (La Polis – Demos) condotta da Ilvo Diamanti per «Limes» rileva come «nell’ultimo decennio, si sono imposte soprattutto le patrie virtuali, i riferimenti territoriali dotati di forza simbolica elevata, ma fondati su basi istituzionali fragili, se non inesistenti» [«Limes» marzo-aprile 2009].
È una narrativa che, se conferma lo stereotipo – quello mafioso, di un’Italia dove conta l’arte di arrangiarsi, lo Stato latita, quando non peggio, e la modernizzazione specie al Sud non può dirsi del tutto conquistata –, allo stesso tempo priva di ogni fascino la criminalità organizzata, offre spesso delle nostre città, e naturalmente delle periferie, descrizioni molto poco da cartolina e sovverte almeno in parte l’idea di un’Italia immobile e omertosa con protagonisti/e controcorrente e opere di denuncia che sempre più fanno nomi e cognomi. Gomorra in questo senso è emblematico, sia perché con la sua camorra tutt’altro che glamour Roberto Saviano rovescia l’immagine più turistica del Belpaese e delle mafie stile Padrino, sia perché descrivendo i rapporti tra la camorra e l’economia mondiale rappresenta limpidamente il legame locale-globale.
Molti degli scrittori che si affacciano con le loro opere oltre gli anni novanta sono tendenzialmente giovani, dove le eccezioni, pur rilevanti, riguardano scrittori che, come Camilleri, dimostrano una grande familiarità con il mondo della tv – luogo in cui pur con esiti anche lontani rispetto a quelli presi qui in esame, la «reai fiction» s’è affermata prima e con maggiore evidenza (si legga ad esempio «La real fiction. Oltre l’opposizione fattuale/finzionale» di Antonio Santangelo in Mondi seriali). E alcuni sono molto giovani, appartengono cioè a quella Generazione Y, o Generazione del Millennio, cresciuta in un mondo strettamente interconnesso e collegato. Tanto che in alcuni l’elemento locale è stemperato (si pensi ai luoghi ne La solitudine dei numeri primi) e i loro romanzi riescono a parlare ai lettori di paesi molto diversi, senza stereotipi, con naturalezza. «Sono», in fin dei conti, «scrittori che nascono già internazionali», come ci dice Franchini parlando di Ammaniti, di Giordano e di Alessandro D’Avenia – che con il suo Bianca come il latte, rossa come il sangue ha venduto molto bene all’estero ancora prima di essere uscito da noi.
Perché il punto è anche questo: «un conto è cedere i diritti all’estero» puntualizza giustamente la Canali, «un altro che queste edizioni vendano effettivamente», e il successo crescente dei libri italiani all’estero è palpabile, tanto che lo scorso autunno la Fondazione Mondadori, in collaborazione con l’AIE e con la Biblioteca Braidense, ha dedicato alla fortuna dei nostri autori nel mondo la mostra Copy in Italy, e il già citato omonimo volume di accurati interventi che ricostruisce, dal dopoguerra a oggi, il suecesso degli scrittori italiani all’estero e il lavoro editoriale che dietro le quinte lo consente (volume cui rimando per una più approfondita analisi sull’argomento).
Va dato atto ai nostri editori, in conclusione, degli sforzi fatti e di quelli tuttora in corso per valorizzare il proprio catalogo fuori dai confini nazionali e ai nostri autori di riuscire a parlare ai loro lettori d’elezione molto oltre i limiti della lingua italiana. Entrambi sembrano sapere, per citare ancora Robertson, che «è possibile promuovere l’elemento locale soltanto su base sempre più globale, il che mette in dubbio la saggezza e la correttezza della massima “pensa globalmente, agisci localmente”. È sempre più necessario agire (e pensare) globalmente per rendere possibile lo stesso concetto di localismo». Parrebbe allora giunto il momento che in questa logica entrassero anche le scelte politiche relative alla promozione della «bibliodiversità» e della cultura italiana, ed europea.