Gomorra ha operato un grande rilancio della realisticità, riportando alla ribalta il carattere più efficace della tradizione realistica urbano-borghese: l’illuminazione dei rapporti di forza tra soggetti sociali collettivi. Eppure di un ritorno al realismo non si parla, non si deve parlare. Tanto meno è possibile ricordare il neorealismo novecentesco, con cui pure una letteratura che tenti l’impresa di coniugare popolarità e democraticità deve confrontarsi. Le istanze che muovono la cosiddetta New Italian Epic sono lì a ricordarlo: interazione di verosimiglianza mimetica e inventività narrativa, cortocircuito tra realtà biografico-documentale e immaginazione romanzesca efficacemente padroneggiato.
L’evento librario più importante di questa alba del nuovo millennio, Gomorra, ha suscitato giustamente grandi discussioni. Un argomento centrale ha riguardato la natura intrinseca del prodotto partorito dal giovane Roberto Saviano, con acerba genialità: finzione o non finzione, narrativa o saggistica o inchiesta giornalistica e così via. Scarso o nessun ricorso però è stato fatto a una categoria fondamentale della letterarietà moderna, il realismo.
Gomorra ha operato un grande rilancio della realisticità nel campo della scrittura prosastica. E qui poggia la risonanza extraletteraria straordinariamente larga che il libro ha avuto. Il suo impianto ostenta il carattere più efficace della tradizione realistica urbano-borghese: nel senso che la sceneggiatura illumina i rapporti di forza tra soggetti sociali collettivi.
Ma l’opera dello scrittore napoletano non è l’unico sintomo della ripresa d’interesse per le forme di rappresentazione dell’incontro e scontro fra l’io e il mondo in chiave di articolata coralità, non di puro intimismo psicologico. La presa d’atto di questa tendenza appare però ostacolata dal fatto che nel tardo Novecento il realismo è stato molto demonizzato ideologicamente, soprattutto in quanto realismo sociale – purtroppo terminologicamente contiguo al realismo socialista di staliniana memoria. In un orizzonte culturale egemonizzato dalle sofisticazioni sperimentalistiche vecchie e nuove, di destra e di sinistra, si capisce che ogni tipo di letteratura di realtà apparisse esecrabile: per il buon motivo che reca in sé un proposito di comunicazione agevole, attraverso un sistema di regole compositive d’indole non esoterica.
Ma nel doponovecento il vetusto ciclo avanguardistico-neoavanguardistico si è esaurito. E le istituzioni della letterarietà si sono ristrutturate, sotto l’insegna della prosa di romanzo, non dell’antiromanzo. Tramontato il primato gerarchico tradizionale della poesia sulla prosa, c’è stata una romanzizzazione generale delle attività di scrittura, nelle quali i riferimenti all’oggettività del reale possono essere contestati per eccesso di adesione alle percezioni di senso comune, ma comunque hanno una funzionalità non discutibile.
Eppure, di un ritorno al realismo o del realismo non si parla, non si deve parlare. E tanto meno è permesso ricordare il realismo neorealista, locuzione sommaria con cui si indica un insieme di esperienze artistiche antielitarie decisivo per l’insediamento definitivo della civiltà del romanzo in Italia. Ma chi rilegga il Novecento con occhio equilibrato e spassionato non può non fare i conti con l’impresa di coniugare popolarità e democraticità avviata o tentata all’insegna del neorealismo.
Semmai, abbastanza sorprendente è il fatto che il tabù antirealistico non sia stato revocato neanche dai fautori del postmoderno, che ha avuto il significato sostanziale di un superamento dello sperimentalismo programmatico e un recupero di forme di comunicatività istituzionalizzata, dietro l’alibi furbesco dell’ironia e della parodia. Per parte sua la flebile stagione del «cannibalismo» ha avuto a sua volta il senso di uno sforzo di superamento del novecentismo, ma in una direzione che verrebbe fatto di definire neoscapigliata.
Recentemente si sono fatti più espliciti i propositi di un rinnovamento energetico che investa le attività sia di scrittura sia di lettura. Ma a catalizzarli è stata soprattutto una parola d’ordine singolarmente ambigua e disorientante: la New Italian Epic. Dal punto di vista promozionale la locuzione è una trovata sagace: il ricorso alla lingua inglese le dà un’efficacia suggestiva che nella versione italiana svanisce subito, la Nuova Epica Italiana fa soltanto sorridere. Il punto è che per quanto ci si sforzi di ampliare la portata del termine, nel mondo d’oggi non c’è nulla che richiami il carattere costitutivo dell’epos classico, o cavalleresco.
I protagonisti dei poemi antichi erano le grandi personalità eroiche, di alto lignaggio, che incarnavano i destini dei popoli, delle etnie, si chiamassero Achille o Ettore o Enea o anche Orlando. I personaggi esemplari dell’interminabile quotidianità urbanoborghese non ne potranno avere mai l’incedere solenne. Sono eroi da romanzo, protagonisti di un confronto aperto e problematico con le strutture dell’essere collettivo. Non per nulla la figura eroica più tipicamente rappresentativa è l’investigatore, attore di vicende che più romanzesche non si possono.
Declinate le fortune dell’antiromanzo o del romanzo lirico o propagandistico, a imporsi è il modello classico del romanzo come forma privilegiata della narrazione di avventure nel mondo moderno. In questa prospettiva, non si può ignorare la realtà del neorealismo, in quanto emblema di una sorta di età dell’oro per la narrativa italiana. Naturalmente non si tratta di prendere a maestri Pratolini e Pavese e Vittorini e Rea e Jovine e così via; d’altronde si sa bene che un grande realismo non neorealista o postneorealista è stato quello che va da Moravia e Morante a Pasolini a Testori. E solo questione di constatare e valorizzare l’attuale emergere di esigenze e proposte in linea con le grandi coordinate della neorealisticità.
Come allora, appare entrato in funzione un proposito di riscoperta dell’Italia. Il presupposto storico è il cambiamento epocale del clima ideologico culturale segnato dal 1989, con il crollo del socialismo reale; in Italia vi si sovrappone il dissesto della politicità sotto l’urto di Mani Pulite. Si apre una fase di disordine costituito, nella quale i letterati devono riguadagnarsi un posto e un ruolo. Non è più attuale l’alternativa secca tra elitarismo corporativo e grossolanità becera. L’effetto di lettura va puntato sulle esigenze e le attese di un pubblico umanisticamente meno attrezzato di quello d’una volta ma disponibile a una produzione romanzesca che non abbia per destinatario elettivo solo il laureato in lettere.
A eccitarne l’immaginario, tutti i metodi sono buoni: diffusa è la tendenza a variare, mescolare, imbastardire generi e tipologie di scritture prosastiche dissimili, con l’occhio attento anche alla narrativa per immagini. Il criterio compositivo fondamentale è però uno solo: l’interazione della verosimiglianza mimetica con l’inventività estrosa, ossia la conciliazione del massimo valore documentario e testimoniale con il rigoglio della visionarietà fantasiosa. Esempio principe, Gomorra, dove l’inchiesta etico-sociale di taglio giornalistico, da inviato speciale nel mondo della camorra, trascina il lettore in una sorta di ultrarealtà cronistorica, che sfida l’immaginazione più sfrenata.
Ma si pensi anche a un romanzo importante quale Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, dove un quartetto di bizzarri personaggi da opera dei pupi trucibalda ha un’autenticità delirante da manicomio criminale. In entrambi i casi la messa a fuoco rappresentativa inquadra i ceti bassi, bassissimi, come quelli in cui tutti i rapporti interpersonali rivelano la mancanza di un consenso di base per le istituzioni della legalità civile. Ciò non può non ricordare l’interesse appassionato dei neorealisti di una volta per le condizioni di vita materiale e mentale delle classi subalterne: con il connesso privilegio d’attenzione per l’eterna marcescenza della questione meridionale. A confermarne l’attualità, letterariamente parlando, basta citare lo struggente Paese delle spose infelici di Mario Desiati.
Al di là delle situazioni di sfondo tematico, le esperienze del lontano dopoguerra sembrano riaffacciarsi oggi con la ricerca di un equilibrio, nella identificazione dei personaggi, tra resa plastica dei comportamenti esterni e ricostruzione analitica della vita interiore. Che è la via per assicurare il dinamismo del continuum narrativo senza rinunciare alle soste dell’autocoscienza inquieta. E questa duplicità della tecnica ritrattistica è particolarmente utile per dipingere personaggi non di indole proletaria o sottoproletaria ma appartenenti ai nuovi ceti tecnico-professionistici. Come accade in Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio di Massimo Lolli, avvio di esplorazione di un mondo manageriale ancora poco frequentato dai narratori.
Resta peraltro inteso che oggi come e più di ieri la maggiore spregiudicatezza di linguaggio è dedicata all’evoluzione dei costumi, ossia all’avanzata della modernità sessuale e i suoi contraccolpi. Il tramonto del patriarcato sposta i termini di confronto tra maschile e femminile così come quello tra genitori e figli. E nel vuoto di potere l’istituzione familiare va più che mai allo sbando: ecco l’apologo atroce di Un giorno perfetto di Melania Mazzucco.
Infine, e sempre riassuntivamente, le istanze della realisticità presiedono all’abbassamento tonale delle inflessioni di linguaggio. Lo scrittore o scrivente d’oggi non può non tenere conto dei moduli disinvolti e conversevoli dell’italiano audiovisivo: ma l’impegno di appropriatezza terminologica e facilità sintattica non mortifica anzi rilancia la coloritura espressiva a tinte ferme della pagina. Lungi dalla freddezza asettica spesso deprecata, il neoitaliano sollecita le emozioni di lettura intensificando la carica di pathos.
Il ricorso diffuso al turpiloquio dell’uso corrente è il sintomo più appariscente del decadimento delle norme di sostenutezza pudica e decorosa proprie dell’italiano illustre. E mentre dilagano gli stranierismi, cioè soprattutto gli anglismi, c’è una reviviscenza del dialettismo, sino a quel trionfale impasto italo-siculo che ha fatto la fortuna di Andrea Camilleri.
Del resto l’attenzione alla compostezza stilistica del dettato tende visibilmente a passare in secondo piano rispetto al proposito di dare speditezza pulita al ritmo narrativo. Significativa in proposito la fisionomizzazione di un io narrante che, per quanto immerso nei fatti, conserva una sua capacità di straniamento, a garanzia del margine di attendibilità del resoconto fattuale. Assolutamente esemplare la limpidità con cui nei romanzi di Walter Siti le circostanze più drammatiche o melodrammatiche vengono immerse nel flusso di una quotidianità non grigia, ma ipergrigia.
Siamo sempre lì, al doppio gioco tra realtà e finzione, che porta a conferire sapore di vita vissuta ai prodotti dell’immaginazione e, viceversa, a distendere e articolare narrativamente scritti di natura biografica o memoriale o latamente saggistica. Non per nulla la stagione che stiamo attraversando è così feconda per la categoria degli scrittori giornalisti o comunque non letterati di professione: valga il caso di un poligrafo attento ai mutamenti degli usi e costumi come Francesco Piccolo, oppure di una addetta a tutt’altro mestiere da quello della penna, come l’antropologa forense Cristina Cattaneo, Morti senza nome.
Grande ricchezza dunque delle forme di ripresa d’una letteratura di realtà intesa specialmente a misurare senza schermi la difficoltà di destreggiarsi tra le umiliazioni del conformismo e gli spaesamenti dell’anticonformismo: dove le vicissitudini dell’io ostentano un carattere nient’affatto epico anzi intrinsecamente antiepico.
Gli è che l’inaridimento della grande speranza di un cambiamento radicale di qualità della vita consociata ha indotto la gente di lettere a fare i conti con lo stato delle cose, prendendole per quello che sono: che è pure un modo per auspicare che cambino. Se le ideologie palingenetiche sono finite male, il meglio che si possa fare è rinsanguare il lavoro letterario in nome di un senso di realtà poggiato su un insieme di valori letterari ed extraletterari ampiamente condivisi. In questa prospettiva è utile cercar di trarre qualche lezione dalle esperienze di chi con i cambiamenti epocali ha inteso misurarsi. Perché com’è noto della storia è meglio non buttare via mai nulla senza un adeguato beneficio d’inventario.