È ritornato un famoso slogan: il privato è pubblico. Anche la narrativa a firma femminile lo recupera e ne riplasma i nessi entro l’orditura ampia del romanzo: abbandonati i rovelli dell’intimità, le scrittrici tornano a dar voce ai conflitti che squassano l’ordine dei padri. Grazie a un punto di vista familisticamente decentrato e anagraficamente «basso», L’Estate che perdemmo Dio ai Giorni felici, fino ad Argentina e a Quelle stanze piene di vento, tutti questi libri offrono un affresco intero di realtà: la calcinosa questione meridionale, i conflitti dell’integrazione, le distorsioni dell’immaginario collettivo. Per raffigurare sesso e maternità, meglio l’inchiesta sul campo: Piove sul nostro amore della Ballestra.
Le opere più interessanti delle scrittrici, nella stagione passata, suonano come replica a distanza del penultimo romanzo di Ammaniti: Dio non comanda più nulla e l’ordine fondato sull’autorità dei padri ha lasciato solo macerie. La più esplicita è Rosella Postorino, che ostenta la certezza sin dal titolo: L’estate che perdemmo Dio; le fa eco Renata Mambelli, dalla quarta di copertina di Argentina’. «Qui anche Dio è diverso, imprendibile, lontano… Un Dio del quale non si sa più se fidarsi o sfidarlo». In Quelle stanze piene di vento di Di Martino, il diario di Teresella spiega come un estremo gesto d’amore sia rivalsa contro la legge violenta dei padri e insieme ribellione agli imperativi feroci dell’integralismo di fede.
Alla vicenda, tutta maschile, raffigurata in Come Dio comanda, i libri di Postorino, Mambelli, Di Martino e poi di Teresa Ciabatti, Giorni felici, cui si affianca con titolo esemplare La guerra dei figli di Ravera, oppongono storie di donne e bambine che si avventurano, talvolta con sicurezza impavida, lungo i percorsi accidentati del postpatriarcato. Ambientate in scenari diversissimi e raccontate con intonazione difforme, queste opere proiettano la cronaca familiare su uno sfondo storico e collettivo, percorso da tensioni conflittuali: ne emerge un inedito affresco di civiltà, colto nell’interezza dei nessi problematici fra pubblico e privato.
Dal punto di vista di gender, il ritorno alla rappresentazione a tutto tondo delle dinamiche sociali, per via d’intimità, è fondato innanzitutto su una prioritaria scelta di genere’, romanzi non più racconti. La controprova più limpida dei limiti della narrazione breve è offerta dall’opera di esordio di Gaia Manzini, Nudo di famiglia, una raccolta di quindici storie, che, giusto il titolo, denudano i conflitti domestici concentrando il focus sulle percezioni immediatamente sensibili della femminilità ulcerata. Sono testi scritti bene, forse anche troppo: quasi a voler recuperare «l’aura perduta», come ha notato Antonelli, Manzini allinea le tessere levigate e lustre di un mosaico da cui emerge il consueto repertorio di profili di «donne sull’orlo di una crisi di nervi», senza però l’allure pop dell’ironia almodovariana. La prosa elegante e ricercata, che mescola i timbri umbratili dei grumi emotivi alle note brutali della corporeità, tratteggia impressioni e sussulti di una «vitalità avara e retrattile», da cui sprigiona un sentore di manierismo funereo.
Molto più efficaci nella raffigurazione intera della dialettica fra storia collettiva e affetti privati sono i romanzi, appunto, di Ciabatti Postorino Mambelli. Quest’ultima, dopo i racconti Accessi remoti, con Argentina ci offre un quadro nitido della «nostra» emigrazione di inizio Novecento. Entro un tracciato rigorosamente matrilineare, spicca la scelta della protagonista che, con energia ferita ma indomita, fronteggia la brutalità degli uomini di famiglia: padri mariti figli, tutti in fuga e tutti assassini più o meno impuniti. Assunta è una vedova cinquantenne che arriva a Buenos Aires, partendo dalla campagna marchigiana: riesce a sfidare il Dio lontano e a sottrarsi ai ricatti non solo emotivi dell’ordine patriarcale, grazie all’aiuto della piccola Marisa, una sguattera cenciosa dalle «spalle troppo curve, per la sua età», ma dagli occhi coraggiosamente spalancati. Controcanto all’Italia immemore di oggi, capace solo di respingimenti crudeli, Argentina rifrange le note livide dell’attualità; e il racconto di antiche resistenze muliebri si raccorda alla voce adolescente che risuona in Quelle stanze piene di vento. Teresella è la figlia di un camorrista, innamorata corrisposta del giovane tunisino Alì: il suo diario, scritto con sintassi malcerta ma con il tono asciutto di chi rigetta le regole dei padri e degli dei violenti, suggerisce la dolente simmetria fra la Napoli di oggi, ricca di traffici illeciti, e la desolata Terra del fuoco, dei primi decenni del Novecento.
Ancor più interessanti, ed esemplari per la scelta di genere e stile, i casi di Ciabatti e Postorino. I loro racconti, I desideri di Rossella O’Hara e In una capsula, accolti nella «sex anthology» Ragazze che dovresti conoscere, non colpivano né per estro linguistico né per invenzione tematica. Nei Giorni felici e nell’Estate che perdemmo Dio, al contrario, la progressione d’intreccio, distesa entro un’ampia parabola narrativa, moltiplica gli assi del discorso e le schegge di vita quotidiana rifrangono, con bagliori di luce indiretta, l’orizzonte collettivo di fine secolo. Libri molto diversi per orditura e resa espressiva, i romanzi delle due giovani scrittici sono, nondimeno, accomunati dal gusto sperimentale di una prosa leggibile, che rifiuta i vezzi postmoderni dello «stile patinato» (Casadei).
Nell’opera della Ciabatti, la macrosequenza iniziale, la più riuscita, è costruita grazie all’intarsio abile delle strutture della fiction con i «casi» infantili di «cronaca vera», resi celeberrimi dai riflessi smaglianti della tv. In una sorta di aggiornamento della mescolanza canonica di storia e invenzione, l’orditura romanzesca allinea gli eventi occorsi a una famiglia romana medioborghese, corredandoli con le note biografiche di bimbi e ragazzetti, a cui il piccolo schermo ha concesso, per motivi spesso funesti, momenti di fama prodigiosa ed effimera.
La narrazione si apre e si chiude sul palco dello Zecchino d’oro, quando Sabrina Mannucci, figlia seienne di un funzionario della Rai bernabeiana, vince il primo premio cantando Ho visto un fiore giallo. La cornice rinserra una trama che si snoda lungo un trentennio cruciale per il nostro paese, dal 1977 al 2007. La cattiveria divertita e divertente della scrittura, cadenzata sui registri del parlato medio e colloquiale, illustra la rete inestricabile che, nell’immaginario collettivo, stringe cronaca rosa e cronaca nera, sequestri minorili e premi milionari, banchi di scuola e reality, lustrini e proiettili. Il resoconto spigliato e svelto della Ciabatti, sceneggiatrice di mestiere, sfrutta le risorse coinvolgenti della crossmedia communication, per lo più evitandone note melense e timbri artefatti: merito di una strategia compositiva che privilegia un’intonazione «bassa», non in senso tradizionale ma in nuova accezione anagrafica. La narrazione perfida e disarmante dei Giorni felici mima, senza censure o moralismi, il delirio d’onnipotenza di una bambina ossessiva e maniacale che asseconda le ambizioni di successo del venerato Papi. I sogni a occhi aperti della protagonista non solo suggeriscono un modello perverso di virtù infantile ma condizionano alla radice le scelte esistenziali di una donna che, sullo sfondo dei fatti pubblici, in cui è marginalmente coinvolta, colleziona fallimenti in serie, amorosi e professionali. Lo scioglimento della vicenda che vede l’intera famiglia raccolta al capezzale dell’ex funzionario Rai è più deprimente che tragico. Il finale guizzo di cattiveria dell’Appendice, simile ai titoli di coda di Chi l’ha visto?, documenta il tracollo dell’«happy days» all’italiana, anche quello postmodernamente aggiornato: Sabrina Mannucci, vincitrice dello Zecchino d’oro, ha dovuto cedere lo scettro di bambina più famosa alla nipotina Greta, di sei anni, sparita in un Autogrill dell’Al, durante un viaggio di ritorno dalle vacanze per assistere il nonno morente.
Anche nell’Estate che perdemmo Dio viene rievocato un sequestro minorile, diventato celebre per via televisiva: la protagonista Caterina sceglie a suo ideale amico di penna Cesare Casella, rapito nel 1988 dalla ’ndrangheta calabrese e tenuto prigioniero per due anni sui monti dell’Aspromonte. Qui, il richiamo a un caso spettacolare di cronaca nera non è volto, però, a illustrare le distorsioni mediatiche, quanto piuttosto a confermare la commistione ormai ineludibile fra l’universo di realtà, violento e angoscioso, e l’impatto collettivo che la sua rappresentazione produce. Soprattutto sugli spettatori più sprovveduti che ne assumono con naturalezza intonazioni e prospettive. E questo il nucleo di originalità provocatoria di un romanzo che riporta in primo piano l’immarcescibile questione meridionale, cogliendola con lo sguardo nitido, quasi trasparente, di una dodicenne.
La famiglia Silvestro – i genitori Laura e Salvatore con le due figlie Caterina e Margherita – ha dovuto lasciare il Sud, terra di omicidi e scoppi di barbarie, per rifugiarsi in un paesino dell’entroterra ligure. L’incipit del racconto ha un suono oscuramente minaccioso: «Chi focu chi ’ndi vinni»; una sorta di bestemmia gridata da zia Nuccia, nella notte di quella estate in cui «perdemmo Dio». Nell’orditura alterna del racconto, l’allora della stagione calabra e l’adesso della quotidianità nell’Altitalia, i ricordi della ragazzina danno spessore e concretezza a quell’urlo strascicato, Chifocuchindivìììnni, e, insieme, delineano il cammino difficile che la madre Laura compie per riconquistare una vita normale al Nord, oltre l’abisso scavato dalla violenza dei padri e dei padrini. Il montaggio a sequenze parallele, temporali e spaziali, non affatica né oscura la progressione d’intreccio, perché a raccordare il filo aggrovigliato degli eventi, è sempre Caterina. Una clausola, spesso collocata all’inizio e alla fine dei capitoli, chiarisce l’artificio espressivo che Postorino adotta per rendere il flusso memoriale vivido e plasticamente evidente: «Il giorno in cui ad Antonio Luppolo arrivò la notizia della tragedia, pensa Caterina…»; «In Italia, si ripeteva Caterina, dove siamo nati noi»; «Il giorno in cui Antonio Luppolo, pensa Caterina, fu poche mattine dopo la notizia…»; «Lo disse a se stesso – ne è sicura Caterina -…». Per sciogliere il mistero di morte nascosto dietro l’urlo iniziale, il narratore esterno, ai limiti dell’impersonalità, concentra il focus del racconto sugli sforzi della piccola di «immedesimarsi» nei parenti meridionali, capeggiati dallo zio ’Ntoni, conservando la freschezza di chi li ricorda da lontano, e li «rivede» come proiettati su uno schermo, senza cedimenti regressivi né accondiscendenze empatiche. E grazie a questa sorta di rappresentazione in diretta e in differita di uno scenario remoto che Postorino scansa sia le trappole dell’onniscienza giudicatrice sia i tranelli di una focalizzazione ristretta e anagraficamente bassa. A guidare il resoconto romanzesco è la fiducia speranzosa di Caterina che questa «sua storia», «tutta storta, sfilacciata, piena di buchi, e rattoppi e nodi» (p. 344), avrà un esito molto diverso da quelle di chi è rimasto laggiù. A confermare la distanza abissale fra le due civiltà è il linguaggio attraverso cui il narratore filtra la memoria della dodicenne: un italiano tanto più estraneo alle cadenze oscure e strascicate del dialetto calabro, quanto più modellato sulla koinè nazionale, quale si impara a scuola, guardando film tv e pubblicità, leggendo riviste e giornalini. Il piglio scorciato degli anacoluti si intreccia ai moduli ellittici della sintassi nominale, stemperando in velocità narrativa lo spessore di un tessuto stilistico, pur intriso di riferimenti colti.
Caterina, impegnata a crescere fra le difficoltà dell’Altitalia, non conosce né l’abbandono alle fantasie bambinesche – semmai racconta rassicuranti storie fantasy alla sorellina minore – né lo struggimento nostalgico per la stagione dell’infanzia, dominata dal «focu chi ’indi vinni» che ha cancellato sole e mare ma soprattutto la possibilità di una vita normale. Venendo al Nord,
«Caterina lo ha preteso. Il diritto di essere felici. Il diritto a provare ad essere felici» (p. 296). Da questa sfida, che vale per l’intera famiglia, nasce la certezza che papà Salvatore, richiamato laggiù da un nuovo omicidio di ’ndrangheta, ritornerà a casa, senza lasciarsi invischiare dai sensi di colpa, dai ricatti parentali o dai risarcimenti di vendetta, imposti dal codice d’onore violento e ottuso: «eppure è lì, vorrebbe indicarglielo Caterina, il futuro: girato l’angolo».
Ad avvalorare il tono di sicurezza spudorata con cui la ragazzetta ripercorre le vicende di zio Saro e degli altri uomini di
«famiglia» sono le frasi incisive e nette che suggellano i capitoli, ambientati sia nell’oggi sia nella lontana Nicamarina: «In fondo anche Dio è un uomo. Un maschio» (p. 74). Solo l’happy end conclusivo s’oppone a questo nitore tagliente. Nella scena finale, il proscenio è occupato dalla coppia genitoriale ricomposta; Laura spiega alle sue bimbe che il vomito, insorto dopo la partenza di Salvatore per la Calabria, è indizio non già di apprensione infausta ma di una nuova gravidanza. Uno scarto non solo d’intonazione e focalizzazione, ma di stile: a prevalere in queste poche pagine conclusive è una scrittura meno agile, un po’ convenzionale. Ma forse è solo il prezzo che Postorino paga alla narrativa femminile più recente, estranea alla raffigurazione dei rovelli che stringono pubblico e privato.
All’esplorazione scanzonata e disinibita dell’intimità recondita, grazie a cui, nei decenni passati, le giovani scrittrici hanno espugnato felicemente la «città segreta» dell’eros, molti libri hanno risposto, in una sorta di contrappasso dolente, con l’insistenza ossessiva sull’altro polo della sessualità: ecco il manierismo algido di una maternità impossibile – Cico c’è dell’Ambrosecchio – o il vortice vuoto dell’attesa in Lo spazio bianco dell’ultima Parrella (almeno, nel racconto conclusivo di Mosca più balena, la sala parto accoglieva il neonato di una coppia lesbica).
Oggi, per le narratrici che puntano a offrire il quadro intero dell’universo oscuro e duplice della sessualità femminile, più efficace è seguire la strada di Saviano: Piove sul nostro amore è un reportage in cui Silvia Ballestra racconta una «storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni». Le «pocciute furie» della Guerra degli Antò sono cresciute, diventate madri in una stagione che ha tradito le promesse d’allora: l’inchiesta sul campo consente di trovare le «parole del dirlo», senza cadere nell’enfasi insopportabile del fallacismo viscerale, di cui Venuto al mondo della Mazzantini (premio Campiello 2009) reca tracce vistose. Sin dai risvolti, il libro esibisce sfacciatamente il tono melodrammatico di una vicenda che «si addentra nella placenta preistorica di una Guerra che mentre uccide procrea… nel continuo rimando tra il ventre di Gemma e il ventre della città dilaniata».