Definire i libri sulla canzone, in Italia, è più difficile che altrove. Mimetizzati o confusi in mezzo a pubblicazioni celebrative, gli studi sulla popular music faticano ad acquisire il credito di altre discipline accademiche: e così capita di imbattersi in studi che si prendono troppo sul serio, con effetti paradossali. Più efficaci e convincenti gli approcci che accostano rigore metodologico e rispetto della specificità dell’oggetto d’analisi. Gli esempi ci sono: partendo dal commento della foto-ricordo e passando per la testimonianza d’autore, l’analisi investe strategie creative, background culturale, riferimenti letterari e musicali, spingendosi fino all’approfondimento musicologico delle composizioni più significative.
Conosco almeno un paio di persone che non hanno scritto un libro su Fabrizio De André. Sono venuto a saperlo perché si sono rivolte a me, chiedendomi di aiutarle a rimediare. Uno dei due è il portiere del mio stabile, egiziano. «Prego signore, io sa tu hobby di musica. Tu crede posso io scrivere uno libro su canzoni Djandré?» «Ma certamente, signor Omar. Perché no?» «Tu aiuta me?» «Purtroppo ho poco tempo. Ma provi a sentire il dottor Velati, il commercialista del secondo piano: lui ne ha scritti quattro» «Però, mio italiano non buono…» «E l’ultimo dei problemi. Ma, mi dica… qual è la sua tesi?» «Io diplomato agraria in Cairo» «No, dico… cosa vorrebbe dire lei, nel suo libro, su De André?» «Che lui piace molto a me. Lui più grande poeta di Novecento. Musica bellissima, voce mooolto bella. Lui dolce anarchico antiformista mediterraneo, piace lui persone marginate» «Perfetto. Le do subito l’indirizzo di due o tre editori».
Nei libri sulla canzone si possono grosso modo distinguere due categorie: 1) testi celebrativi, parapubblicitari; 2) testi critici. Della prima fanno parte le biografie più o meno «autorizzate», i libri fotografici (corredati di aneddoti, divagazioni, fogli d’album), le interviste (genere sempre più diffuso), le agiografie, ecc.; della seconda le antologie chiosate e commentate, i saggi (storici, sociologici, letterari e paraletterari, musicologici, linguistici) con ambizioni più o meno scientifiche. Assegnare una pubblicazione a questa o a quella categoria, in Italia, non è sempre facile. Il lettore crede di comprare uno studio storico, e si trova di fronte una chiacchierata da bar; o, viceversa, sfoglia una monografia allegramente idolatrica e s’imbatte in spericolate digressioni filosofico-letterarie. Il motivo di questa imbarazzante situazione è che mentre in altri paesi (penso soprattutto all’Inghilterra) gli studi sulla canzone, e in genere sulla popular music, da tempo hanno acquisito il credito (e il rigore) di altre discipline accademiche, da noi – con rare preziose eccezioni – stanno ancora muovendo i primi passi.
Cantautori novissimi (2008) si presenta come uno studio critico (sia pure «militante»). L’autore, Paolo Talanca (1979), si è laureato a Chieti con una tesi su Influenze e coincidenze letterarie nelle canzoni di Francesco Guccini: da Gozzano a Montale e presso Bastogi ha pubblicato nel 2006 un altro lavoro sulla canzone, Immagini e poesia nei cantautori contemporanei. Non è insomma, per intenderci, un deejay o uno zelante amateur. L’intento del suo libro è quello di identificare, nella produzione canzonettistica contemporanea, un gruppo di autori (otto) che – questa la tesi – pur nella diversità di stili e poetiche, rappresenterebbero una tendenza «progressiva» degna di essere segnalata e valorizzata. Talanca, dunque, non si limita a studiare i cantautori già canonizzati: interviene nell’attualità prendendo posizione, dando indicazioni di ascolto corredate di analisi testuali. Sulla scelta degli autori e su ciò che li caratterizza e li accomuna (la relativa in dipendenza dalle majors, il ruolo di Internet nel loro rapporto col pubblico) si può anche concordare; che il discorso sulla canzone d’autore non sia affidato soltanto a recensioni e chiacchiere radiofoniche, che a impegnarsi in un lavoro critico sia un giovane meno che trentenne, è senz’altro positivo; e tuttavia diverse cose, in questo libro, mi lasciano perplesso.
La prima è il riferimento – annunciato già nel titolo – alla neoavanguardia poetica degli anni sessanta (detto tra parentesi: novissimi, in latino, significa – come Sanguineti, Giuliani e soci sapevano benissimo – non i più nuovi ma gli ultimi arrivati, per non dire la retroguardia). Le analogie tra i cantautori prescelti e i poeti del gruppo ’63 mi sembrano un po’ tirate per i capelli. Ma al di là di questo, mi chiedo che necessità ci sia di nobilitare questi «nuovissimi» autori apparentandoli a una corrente letteraria (ampiamente sponsorizzata dalle majors editoriali del tempo) che nuova era (forse) quarantanni fa, e rispolverando oltretutto la stagionatissima nozione di avanguardia. Perché in Italia non si riesce a parlare di canzone d’autore senza infiocchettare il discorso con un vasto assortimento di riferimenti «colti»? Max Manfredi, Samuele Bersani, Isa e gli altri hanno davvero bisogno (come l’oste nella foto-ricordo con Little Tony) di esibirsi a braccetto di Gadamer, Saffo, Alceo, Gérard Genette, D’Arco Silvio Avalle, Hans Magnus Enszenberger, Wittgenstein, Benjamin, Leopardi, Marcuse e chi più ne ha più ne metta? Talanca ci ricorda che la critica «deve essere disciplina che giudica ma che soprattutto motiva il giudizio, tramite armi filologiche e un metodo coerente» (p. 50). Benissimo. Ma allora sforziamoci di evitare (o almeno di argomentare) dichiarazioni apodittiche come «Il cantautore è ontologicamente lontano dai modelli pop» (p. 22, corsivo mio). Lasciamo in pace l’ontologia. E quando una similitudine ci sembra «di una poeticità spaventosa» (può capitare…) cerchiamo di frenare il nostro entusiasmo, di ricondurlo a una critica sobrietà.
Il suono e l’inchiostro (2009) presenta gli atti del convegno Poesia e canzone d’autore in Italia, organizzato dal Centro Studi Fabrizio De André presso l’Università di Siena nell’ottobre 2007. Il volume è ricchissimo di contributi di varia natura: si va da analisi musicologiche come quelle di Stefano La Viola e Errico Pavese a considerazioni storico-culturali (Gianni Borgna, Franco Fabbri, Massimo Arcangeli), a studi che hanno per oggetto gli aspetti letterari della canzone. Tra gli interventi più interessanti di quest’ultimo gruppo segnalo quelli di Marianna Marrucci (Il mosaicista De André. Sulla genesi e la composizione dei testi di un cantautore), Paolo Zublena («Max, non si spiega». Figure dell’opacità semantica in Paolo Conte) e Paolo Giovannetti (Il verso di canzone: una neometrica dal basso?). A partire da un attento esame delle carte e della biblioteca personale di De André, il lavoro di Marianna Marrucci, corredato di autografi e pagine annotate dall’autore, indaga intorno ai riferimenti letterari del cantautore genovese e ai percorsi delle sue contaminazioni. Zublena utilizza brillantemente gli strumenti dell’analisi testuale e della linguistica per illuminare alcuni aspetti caratteristici della scrittura di Paolo Conte. Giovannetti, infine, si avvale di alienatissime competenze metricologiche per proporre uno stimolante raffronto fra la prosodia di tradizione scritta e il «verso di canzone». I tre interventi costituiscono un esempio di come i saperi accademici possano essere efficacemente applicati alla canzone senza tradirne la specificità, e anzi mettendone in luce gli aspetti peculiari. L’effetto di superficiale «nobilitazione» del prodotto, tanto frequente negli approcci «colti» (o pseudocolti), è del tutto assente: alla conoscenza di questo genere popolare (non alla sua corriva celebrazione) i tre studiosi offrono un contributo rigoroso, argomentato, documentato. Avercene, si dice a Milano.
Paolo Conte. Prima la musica, di Manuela Furnari (2009) è un lavoro davvero atipico nel panorama della saggistica italiana sulla canzone. La giovane autrice – musicologa di formazione, docente di lettere – riesce a fondere in una formula inedita i diversi generi critici. A prima vista, fin dalla copertina, il suo libro sembra presentarsi come un album di immagini, e come tale può (anche) essere goduto; ma il lettore si accorge subito che non si tratta del solito altarino pop: tra un ritratto di Conte e una foto-ricordo del cartellone dell’Olympia, invece di rifriggere le solite ciance da edicola, l’autrice propone accurate analisi strutturali e testuali, puntualmente corroborate da osservazioni e testimonianze dirette dell’autore. Prima la musica, infatti, è anche un libro-intervista; ma non si tratta del solito entretien (auto)celebrativo: domande e risposte sono sempre finalizzate a penetrare l’officina del musicista (riduttivo e fuorviante chiamarlo cantautore), a chiarire le sue strategie creative, il suo background culturale, i suoi riferimenti letterari e musicali. La novità più coraggiosa del libro sono le analisi musicologiche di alcuni pezzi, condotte da Manuela Furnari sulla base delle diverse incisioni e delle partiture autografe di Conte. La studiosa ha avuto l’accortezza di collocarle in una sezione a parte: il lettore musicalmente impreparato potrà saltare le pagine pentagrammate; chi invece è in grado di seguire un ragionamento anche «tecnico» su armonia, ritmo, orchestrazione, scoprirà le trame e i percorsi meno evidenti di una produzione complessa e raffinata.
Un’operazione come questa – che comporta competenze plurime e solide – non si improvvisa: alle spalle del lavoro di Manuela Furnari c’è la ricerca di Franco Fabbri, suo maestro all’Università di Torino, pioniere degli studi italiani (e internazionali) sulla popular music. Di Fabbri sono usciti di recente due saggi, che consiglio a chi voglia approfondire la riflessione sulla canzone: Around thè Clock. Cria breve storia della popular music (2008), e una nuova edizione ampliata di Il suono in cui viviamo (2008), impostosi ormai come un classico negli studi su quella che una volta si chiamava «musica leggera».
Di tutt’altra impostazione, ma di grande interesse storico, è Musika & Collaroni di Boris Vian (2008), finalmente disponibile in italiano grazie alle cure di Gianfranco Salvatore. Narratore, drammaturgo, musicista jazz, autore di canzoni tra rock e cabaret, librettista, produttore discografico, personaggio chiave della musica francese del dopoguerra, Vian (1920-1959) scrisse questo pamphlet «contro l’industria della canzone» nel 1958, dieci anni prima che si sviluppasse il movimento che avrebbe portato alla massiccia diffusione di una musica «alternativa» alla produzione commerciale. Quello di Vian è un trattato semiserio, un’invettiva ghignante, carica di patafisico umorismo ma anche di rabbia e disgusto, che ha per bersaglio i pregiudizi, i luoghi comuni, le miserie, le immortali idiozie del Pensiero Canzonettistico. Il lettore italiano si chiederà probabilmente chi sia (o sia stato) un tale Mariano (Mariano) che viene evocato come cantante celeberrimo, faticherà forse – nell’epoca di Internet – a comprendere i complessi rapporti tra editoria musicale discografia e interpreti, ma lo sdegno di Vian, la sua passione, la sua intransigenza, difficilmente lo lasceranno indifferente: «Riempitevi le tasche, loschi editori, produttori raccomandati, intrallazzatori patentati… Voi siete dei mediocri… A nome di tutti quelli che rifiutano, finché ne avranno la forza, io mi permetto, molto rispettosamente, di sputarvi in faccia in tutta amicizia».