Berlusconi in libreria

Rinasce la saggistica politica, nel nome di Silvio. Una falange di monografie, pamphlet e contropamphlet che accosta sul medesimo banco della libreria Feltri e Travaglio, Brunetta e Belpoliti, Maria Patella e Sandro Bondi. Certo il punto di vista e la diversa valutazione che si dà del Cavaliere influenzano il codice linguistico-discorsivo dei testi, che spaziano dalla raccolta documentaria delle malefatte di «Papi» alla cronaca che non tralascia appunti di colore. Con lo spettro tutto italiano di un altro Dux che – tra elogi del decisionismo e rilanci del culto del Capo – ricompare, anacronistico (forse) e puntuale (certo).
 
Dal punto di vista editoriale, gli opposti umori dell’opinione pubblica italiana riguardo al Cavaliere un effetto benefico lo hanno avuto. Nell’epoca del crepuscolo delle ideologie, hanno concorso a restituire vitalità a un genere che nel nostro paese, fatta eccezione per la stagione sessantottesca, non ha mai riscontrato un significativo interesse di massa: la saggistica politica. Nella sola annata appena trascorsa, fra settembre 2008 e luglio 2009, ben otto sono state infatti le monografie pubblicate su Silvio Berlusconi. Ottantadue i titoli dal 1985 in poi rubricati nella pur incompleta bibliografia di Wikipedia: oltre il doppio di quelli in calce alla voce «Benito Mussolini».
Naturalmente, una tale mole di titoli si spiega anzitutto con l’inevitabile scompiglio provocato, in un mondo politico assuefatto sino a poco tempo addietro al formalismo guardingo dell’Italia democristiana, da una figura così anomala e ingombrante: per lo strapotere che detiene, per l’esuberanza del suo modo di agire, per la noncuranza dei rituali diplomatici, nonché per la ben nota insofferenza verso i tempi e le mediazioni della prassi parlamentare. Su questo punto non si registrano distinguo di rilievo: gli autori concordano nel rappresentare Berlusconi come una sorta di alieno della politica. Le divergenze riguardano la valutazione delle novità introdotte dall’alieno, che per alcuni è fonte di allarme al punto da necessitare una chiamata a raccolta delle fasce più responsabili della popolazione; per altri è l’uomo nuovo che col suo visionarismo utopico corretto dal pragmatismo lombardo ha portato una ventata di aria fresca nelle asfittiche stanze del Palazzo romano; per altri ancora, è soltanto un politico la cui figura e il cui operato devono essere passati al vaglio critico senza rinunciare a esprimere un giudizio conclusivo ma senza neppure lasciarsi fuorviare da preclusioni ideologiche.
Come prevedibile, il codice linguistico-discorsivo cambia a seconda del punto di vista adottato. Se la prosa analitica e la ricostruzione cronachistica accomunano i testi classificabili nella terza categoria (Lo statista di Massimo Giannini, Il corpo del capo di Marco Belpoliti, Come si conquista un paese di Maria Latella), un entusiasta del Cavaliere come Sandro Bondi tenta in II sole in tasca un ritratto storico-apologetico volto a corroborare le credenziali democratiche del fondatore della Fininvest per mezzo di un improbabile paragone con un meno fortunato ma più blasonato politico-imprenditore, Adriano Olivetti. Né, sul fronte del berlusconismo, mancano le procedure di controinformazione, solidamente di sinistra, qui riutilizzate per confutare o screditare gli argomenti dei critici del Cavaliere: Tutte le balle su Berlusconi di Vittorio Feltri e Renato Brunetta, Berlusconi ti odio. Le offese della Sinistra al premier pubblicate dall’agenzia ANSA di Luca d’Alessandro, Storia di un processo politico: giudici contro Berlusconi di Giancarlo Lehner. Quanto agli antiberlusconiani, la scelta è pressoché obbligata: di preferenza si affidano ai sottogeneri della saggistica deputati a mobilitare le coscienze, pamphlet, libro bianco, libro inchiesta…
In questo ambito si colloca un instant book come Papi. Uno scandalo politico scritto da Peter Gomez, Marco Lillo e Marco Travaglio (che, da solo o in tandem, ha firmato ben sei testi consacrati alle vicende del Cavaliere). Pubblicato a tempo di record in luglio, a ridosso del sexgate, il libro nasce dall’«urgenza» di contrastare la «censura, anzi l’autocensura» di quella parte del giornalismo italiano impaziente di affossare lo «scandalo» relegandolo negli svilenti confini del gossip. L’intento è illustrare con dovizia di documenti i risvolti politici delle voluttuose avventure berlusconiane e le loro ripercussioni sulla gestione dei beni pubblici: dal caso Saccà a quello di Virginia Sanjust di Teulada sino al1’affaire Noemi e al suo sequel fra Puglia e Costa Smeralda.
Nessuna possibilità di equivoco sulla presa di posizione degli autori. Il giudizio severamente critico affiora sin dai titoli dei capitoli, improntati a un’ironia feroce: «Il Cavaliere di Hardcore», «L’harem di Raifiction», «Euroveline con divorzio», «Papi & Noemi Show», «Villa Arzilla con fotografo», «Puttanopoli con autoscatto». Né il testo smentisce le attese. A ogni piè sospinto è tutto un fiorire di clausole sarcastiche, aspramente canzonatorie: «Ciascuno ha il 25 luglio che si merita: il suo [del premier] somiglia a un film di Alvaro Vitali». Le tv e i giornali berlusconiani sono costantemente dileggiati come «house organ», il Tgl è «la tele-Prada personale del premier», i malaccorti editorialisti intervenuti in soccorso del Cavaliere sono «giornalisti-pompieri», Bruno Vespa è un «servizievole» padrone di casa che «apparecchia» il proprio salotto affinché Berlusconi possa esibirsi nel «consueto monologo, comicamente intitolato “Adesso parlo io”», e via discorrendo.
Quelle che gli autori muovono al premier, tuttavia, non sono accuse di carattere ideologico (a nessuno dei tre del resto calzano i panni del bolscevico trinariciuto). Semmai gli rinfacciano le contraddizioni fra i principi professati a piena voce e la condotta a cui si uniforma. Ma neppure questo è il principale capo di imputazione. Ciò che il libro contesta a Berlusconi è anzitutto di minare i fondamenti della democrazia liberale, anteponendo al merito la ricompensa per i favori privati, emanando «leggi per vietare agli altri ciò che fanno lui e i suoi amici» e costringendo al «degrado» magistratura e informazione allo scopo di «occultare atti giudiziari in cui sono emerse sue condotte imbarazzanti».
Il limite consiste nel fatto che, per le sue caratteristiche genetiche, Papi si indirizza a un pubblico già persuaso dell’inopportunità della condotta berlusconiana. D’altra parte, il testo aspira ad accreditarsi agli occhi dei lettori in virtù di un’indipendenza di giudizio che nel suo esercizio intransigente esclude ogni presunzione di immunità. Gli autori ne hanno per chiunque. Non solo Berlusconi. Ma pure Dario Franceschini, l’opposizione, la magistratura romana, la stampa «prudentissima fino alla reticenza e alla complicità col padrone del vapore» e persino il presidente della Repubblica reo di prodursi «nel consueto sermoncino per invitare genericamente “politica e giustizia a evitare di guardarsi come mondi ostili”».
Se Papi focalizza l’attenzione sull’attualità più scottante e pruriginosa, Lo statista. Il ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo tenta invece un bilancio provvisorio dell’operato politico del premier. Premessa fondamentale del discorso di Massimo Giannini è che Berlusconi sia ormai un politico cosciente dei meccanismi della macchina governativa e vada per questo preso sul serio, riconoscendo la profonda trasformazione che lo ha accompagnato dalla discesa in campo in poi. Lungi dallo sfociare in un apprezzamento del suo cursus honorum, tuttavia, tale riconoscimento conferisce maggior risalto al salto di qualità compiuto dopo la vittoria elettorale dell’aprile 2008, quando Berlusconi dà prova di «una voglia di decidere che prima non gli si conosceva» intensificando le manovre di «militarizzazione della politica».
La scrittura brillante trae giovamento dalla frequentazione dello stile giornalistico: le frasi nominali si alternano alle lunghe iterazioni, e i calembour («il voto popolare diventa un condono tombale») a un certo gusto per l’immagine lambiccata («Nel cocktail di restaurazione e di innovazione shakerato da Berlusconi c’è un ingrediente specifico, che lascia sul palato del cittadino-elettore un vago ma sperimentato retrogusto da governo da bere»). Ma, nella sua struttura fondamentale, quella di Giannini è una prosa raziocinante che mira a portare argomenti a sostegno delle cinque «tesi» enunciate in apertura («Il Cavaliere è ormai uno Statista», «Quella italiana è ormai una democrazia in profonda trasformazione», «Lo Statista va ormai preso sul serio», «Il berlusconismo ha diversi tratti in comune con il fascismo», «Il centrosinistra, di questo Ventennio berlusconiano, ha capito poco o nulla»). E per farlo si appoggia volentieri ad alcune delle più acclamate auctoritates novecentesche: Philip Roth, Arthur Koestler, Zygmunt Bauman, Michel Foucault, Bertolt Brecht, Karl Kraus…
La diagnosi storica dell’editorialista di «Repubblica» è protesa a mostrare il rischio che il paese corre di vedersi trascinato nelle sacche di un autoritarismo «post-democratico»: non una «dittatura in senso classico», bensì una democrazia illiberale, una «forma moderna di totalitarismo» estranea alle ideologie del secolo passato, eppure caratterizzata dall’«assenza di poteri autonomi che bilancino lo strapotere dell’esecutivo», dallo «sgretolamento coatto dei contenuti della politica», dallo «smantellamento sistematico della verità dei fatti» e da «un conformismo piatto e irriflessivo». Questo potrebbe essere l’esito dell’«uso politico della paura», programmaticamente compiuto dallo Statista.
Le analogie con il fascismo non andranno cercate pertanto nella riproduzione di un apparato violento e repressivo, di cui il Ventennio berlusconiano può fare a meno. Bensì nel «substrato politico, sociale e culturale» propizio oggi come allora «all’autoritarismo, al plebiscitarismo e al decisionismo che… incontra il favore diffuso della gente». La conclusione dell’autore è amara: «Possiamo scoprire allora che in un Paese così intimamente e profondamente di destra forse l’eccezione alla regola è la democrazia parlamentare, non l’Egocrazia illiberale».
Da una diversa prospettiva, anche Marco Belpoliti in Il corpo del capo mette a confronto la figura di Berlusconi con quella del Duce. Qui però l’interesse si focalizza su un tema specifico: la strategia comunicativa perseguita nell’accorto uso dell’immagine fotografica. Perché, pur essendo un magnate televisivo, è attraverso la fotografia che il Cavaliere costruisce progressivamente il «racconto» di se stesso, presentandosi come un moderno self-made man che conserva il ricordo delle umili origini e ostenta il legame con i valori familiari.
Agli occhi dello scrittore, tuttavia, più che le consonanze con il fondatore del fascismo sono le differenze a meritare attenzione. E vero infatti che Mussolini è stato il primo a curare con continuità la propria immagine. Ma l’ostentazione della prestanza fisica escludeva per lui ogni richiamo alle morbidezze della vita in famiglia: i rari scatti accanto ai familiari lo ritraggono in pose addirittura «impacciate». Al contrario, fin dalle prime pagine del suo album fotografico, Berlusconi esibisce con studiato calcolo la sua vita privata e intima, in questo emulando piuttosto la più moderna «politica visiva delle star». Ne sono conferma non solo il rotocalco che gli italiani hanno trovato nella casella della posta in occasione della campagna elettorale del 2001, ma anche l’album familiare pubblicato dal settimanale «Chi» che nell’agosto 2008 il Cavaliere esibì con compiacimento in occasione della visita a Roma del colonnello Gheddafi.
Nella spettacolarizzazione berlusconiana dell’intimità, Belpoliti riconosce il riflesso di una strategia di conquista del pubblico sostanzialmente ambivalente. Da una parte, vi è «l’avventuriero sicuro di sé», che ama farsi ritrarre come un bad boy, con la sigaretta in bocca e il Borsalino sul capo, e non teme, con le sue battute di spirito, di scadere nel gallismo più corrivo. Dall’altra, vi sono l’ossessione per la capigliatura, le pose seduttive, il sorriso affettato, i modi cerimoniosi, l’aspetto incipriato, la civetteria, il bisogno di piacere a ogni costo: tutti tratti comuni a quel «transessualismo» che da Rodolfo Valentino sino a David Bowie e a Michael Jackson ha profondamente influenzato la cultura contemporanea.
«Silvio Berlusconi» sintetizza lo scrittore «è una donna che cura la propria immagine partendo da quel bene prezioso che è il suo corpo.» E, a suo avviso, proprio in questa ambivalenza di maschile e femminile va rintracciata una delle armi vincenti della sua politica dell’intimità, concepita tuttavia a tavolino come strategia di comunicazione: «Si tratta dell’interiorità dell’esteriorità».
L’ambizione logico-interpretativa dei saggi di Giannini e di Belpoliti cede il passo al racconto cronachistico in Come si conquista un paese. I sei mesi in cui Berlusconi ha cambiato l’Italia di Maria Latella. La giornalista del «Corriere della Sera» risale alle origini dell’attuale stagione politica per offrire una testimonianza di prima mano («io c’ero» è il ritornello costante) a chi voglia comprendere meglio i caratteri distintivi di quelle novità che oggi sono diventate consuetudine e che allora erano sfuggite alle lenti degli specialisti della politica. Coerentemente ai suoi presupposti, l’autrice sospende il giudizio lasciando al lettore l’incombenza di decidere se le novità berlusconiane vadano catalogate fra le innovazioni positive o viceversa tra i fenomeni degenerativi.
L’attenzione poggia sugli eventi del 1993-94: il ballottaggio alle amministrative di Roma, l’annuncio berlusconiano della «discesa in campo», il primo comizio di Forza Italia alla Fiera di Roma, la campagna elettorale per le politiche, il duello televisivo con il segretario del Pds Achille Occhetto… Ma le pagine più interessanti sono quelle in cui l’autrice si sofferma a parlare di se stessa e della propria carriera professionale. Ne emerge allora uno spaccato della società italiana degli anni novanta, inquadrata dalla prospettiva di una cronista, allora giovane e sconosciuta, che si affaccia sul mondo tradizionalmente maschile della politica. Protagonista fra protagonisti, la Latella sottolinea con orgoglio il suo percorso ascensionale di prima giornalista donna, e per giunta madre, a essere trasferita nella storia del «Corrierone» dalla cronaca di Milano alla redazione politica di Roma. L’opportunità le deriva da due circostanze: dalla convinzione del direttore Paolo Mieli che «la politica nuova» non potesse essere raccontata «con il metro e il metodo da sempre usati con i politici della Prima repubblica» e quindi richiedesse cronisti freschi «non abituati al tran tran del Transatlantico»; e dalla riluttanza dei «più scafati colleghi, esperti di palazzo» a occuparsi delle nuove figure in blazer e cravatta regimental di Forza Italia, convinti com’erano che «dopo metà marzo questi “nuovi” nessuno li avrebbe più visti».
Il rinnovamento generazionale tuttavia si accompagna a una metamorfosi culturale: il pezzo di colore diventa l’articolo più pregiato della pagina relegando l’articolo di apertura alla formula di semplice riassunto, cresce l’interesse per la mise dei politici e per il modo in cui si presentano, le first ladies acquistano un’importanza mai conosciuta in passato e, all’apertura di ogni nuova legislatura, si fa a gara per strappare una dichiarazione alle nuove deputate…