La mobilità sociale su base meritocratica è un miraggio; il nostro è l’unico paese ad aver ridotto la spesa per studente in tutti i livelli d’istruzione; nella classifica delle top cento università del mondo, non c’è nemmeno un ateneo italiano; la percentuale di laureati è inferiore a quella di Usa, Spagna, Francia, Gran Bretagna, Germania, Portogallo. I ragazzi leggono meno dei coetanei europei; d’altra parte, le biblioteche scolastiche registrano un apprezzamento di proporzioni «bulgare», ma il nostro paese non le prevede istituzionalmente. E allora, su quale base e perché quasi il 70% degli italiani è convinto che «la nostra cultura è superiore»?
Partiamo con una domanda e una statistica. La domanda è questa: «Secondo voi la cultura del vostro paese è superiore a quella di altri paesi?».
Prendetevi un secondo per pensarci, poi rispondete – sempre che la domanda vi sembri sensata (ma facciamo finta che lo sia). Bene.
La statistica delle risposte a questa domanda l’ha presentata, nello scorso ottobre, in un lucidissimo intervento agli Stati Generali dell’editoria, Roger Abravanel. Autore di uno di quei bestseller che qualificano un editore (stiamo parlando del suo libro Meritocrazia) ed esperto consulente delle più grandi aziende del mondo, oltre che manager di lungo corso. Ebbene: dopo avere dimostrato che gli italiani si percepiscono in crisi (e lo sono: basta sfogliare i giornali di questi mesi) e che i dati confermano questa percezione, Abravanel spiega che in Italia la percentuale di persone in accordo con l’affermazione «la nostra cultura è superiore» è del 68%, contro il 23 % di persone che non sono d’accordo.
Gli «sciovinisti» francesi, per dire di un popolo che nel nostro immaginario «normalmente» si dà delle arie, mostrano dati opposti: solo il 32% pensa di avere una cultura superiore, in Gran Bretagna sono ancora di meno (il 31%), in Svezia addirittura la netta minoranza (il 21%). Gli spagnoli, i canadesi e gli americani (con percentuali che vanno dal 50 al 55 %) sono i più vicini agli italiani, ma di gran lunga distanti.
Opinioni, si dirà. Già. Non c’è dubbio: la differenza salta agli occhi, però, quando dalle opinioni e dalle percezioni si passa all’analisi dei fatti.
Classifica delle top cento (secondo tutta una serie di parametri molto credibili e il più possibile «oggettivi») università del mondo, dati del 2006. Università americane 33, inglesi 12, australiane e olandesi 6, 5 svizzere e francesi, 3 per Canada, Germania, Hong Kong e Giappone e via discorrendo. Italia: zero.
Forse si può obiettare ancora che tali statistiche sono di parte e favoriscono i compilatori (in questo caso il «Times»). Facciamo finta, ancora, che sia così.
Vediamo allora dei dati oggettivi proposti da un ente neutrale, l’Ocse. Controllando la percentuale di giovani tra i 25 e i 34 anni in possesso di istruzione terziaria (comprendendo lauree triennali, quadri/quinquennali e altri studi affini) – e solo per restare a paesi «paragonabili» all’Italia (escludiamo quindi Finlandia, Svezia o Israele che, con tutta evidenza, sono per queste statistiche dei «paradisi», o delle anomalie, a volerci nazionalisticamente proteggere…) si scopre che la percentuale di ragazzi italiani «laureati» (sono dati del 2002) è dell’ 11%. Gli americani sono il 40%, gli spagnoli il 37%, i francesi il 36%, gli inglesi il 31%, i tedeschi il 21%, il Portogallo ci batte di qualche punto, la Turchia ci affianca. Forse potremmo continuare con altri dati, ma qui preme ancora sottolineare – e l’analisi di Abravanel lo ha fatto benissimo – che non solo lo stato dell’istruzione volge al peggio, ma che, strettamente connessa a questa, c’è una situazione economica che ne trae le «debite» conseguenze.
Solo per fare pochissimi esempi, l’economia italiana, negli ultimi anni, è stata superata nel rapporto Pii prò capite (a parità di potere d’acquisto) da altre economie «povere» dell’Europa occidentale e dell’area mediterranea: l’Irlanda, certo, ma anche la Grecia e la Spagna (se per l’Italia si considera soltanto il Sud, molto al di sotto di tutti gli standard nazionali) si avviano a sorpassarci. Ma quello che desta più preoccupazione è la cristallizzazione se non il progressivo peggioramento – dello stato delle cose. L’Italia non solo non considera la meritocrazia come un fattore di crescita collettiva, ma «punisce» o non favorisce i tentativi di emergere. La mobilità sociale è una sorta di miraggio: in una statistica che prenda in considerazione la percentuale di persone nate in una famiglia operaia, o comunque di basso reddito, che raggiunge la più alta classe sociale la cifra è del 13,3 % in Italia. Gli altri paesi, al solito, stanno meglio: il 14% in Francia, il 15,4% in Inghilterra, il 20,6% negli Stati Uniti.
Bene. Che c’entra tutto questo con i libri? E con gli indici di lettura? E con l’editoria?
Molto, tanto che gli ultimi Stati Generali degli editori italiani – dunque un’associazione imprenditoriale privata – hanno dovuto puntare i riflettori sui giovani per ricordare a delle istituzioni pubbliche sempre più distratte sul tema la vera risorsa sulla quale scommettere (questo era il verbo utilizzato nella convention) per far crescere il paese. In un momento nel quale la scuola è scesa in piazza per protestare e gli editori si sono visti appioppare dei decreti che impediscono il cambio dei libri di testo se non ogni cinque anni o dei procedimenti da parte dell’autorità antitrust per verificare l’ipotesti di cartelli tra editori scolastici per gonfiare artatamente i libri di testo (nessun risultato), si capisce che la mossa degli editori è risultata quanto mai azzardata.
L’editoria italiana si presenta, come al solito, con dati alla mano a questi appuntamenti: quest’anno ha commissionato una ricerca allo Iard per capire in quali contesti macroeconomici sono inseriti i nostri giovani, con quali consumi si istruiscono o si intrattengono, che speranza hanno di inserirsi – e a quali livelli – nel mondo del lavoro e nella società.
Di nuovo: a leggere la relazione Iard c’è da rimanere atterriti. «Il nostro paese» vi si legge «è l’unico nel periodo 2001/2005 che mostra un calo nella spesa per studente in tutti i livelli d’istruzione. Per ciò che riguarda l’università negli ultimi anni la Spagna ha ampiamente superato l’Italia. Da noi la spesa per studente all’università è scesa dai circa 7.300 euro nel 2001 ai circa 6.800 del 2005. Negli stessi anni la Spagna è passata grossomodo dai 6.600 agli 8.500 euro.» Nei test Pisa sulla lettura, i quindicenni italiani mostrano notevolmente più difficoltà dei coetanei europei. «Il paese in cui è più alta la percentuale di studenti che mostra questa problematica è proprio l’Italia» scrivono gli estensori del rapporto Iard «con il 26,8%. Paesi che hanno una percentuale simile sono Spagna e Portogallo, attorno al 25/26%, mentre molto distanti, con una percentuale estremamente bassa di studenti che presentano difficoltà nella comprensione di testi, sono Irlanda, Danimarca, Olanda e Svezia. Negli anni in cui è stata svolta questa misurazione, 2000, 2003 e 2006, l’Italia, da terzultima (era davanti a Germania e Portogallo), è passata in ultima posizione.»
La lettura dei giovani in Italia
Poiché a nessuno verrebbe in mente di negare che la lettura abbia un ruolo importante nella crescita individuale dei giovani (e di conseguenza dei futuri cittadini, e complessivamente nella crescita collettiva di un paese), dovrebbe essere pacifico che una tale pratica economica, istruttiva, utile (è provato che leggere più libri incide sui risultati scolastici), senza dire che può essere persino molto divertente, vada incoraggiata il più possibile.
Ma siamo costretti a ripeterci. Incrociando i dati del rapporto Iard con quelli che l’Aie diffonde nel suo Libro bianco e nel suo annuale bilancio sullo stato dell’editoria in Italia, da una parte ci stanno le convinzioni e le dichiarazioni – che sono nobilitanti e non costano nulla -, dall’altro i fatti.
È vero, come riconosce l’Aie, che le fasce giovanili leggono in media ben più dei genitori e, oggi, sanno utilizzare strumenti «inediti» come Internet e le nuove tecnologie. Ma restano fortissime differenze territoriali nel paese e, ciò che è più grave, disuguaglianze notevoli a seconda della famiglia di provenienza. In pratica, ancora oggi in Italia vale il principio che le opportunità di cui godono i ragazzi di fronte alla lettura, all’istruzione e alla mobilità sociale sono strettamente (troppo strettamente) correlate alle loro origini sociali. Il che contraddice apertamente il primo e unico principio della meritocrazia della quale parla Abravanel: «La meritocrazia è un sistema di valori che promuove l’eccellenza indipendentemente dalla provenienza di un individuo». Dove, per provenienza, si intende un’etnia, una famiglia, uno status sociale, un circolo di amici, una cordata aziendale, un partito politico… Ovvio che l’«ascensore sociale» non è precluso ai ragazzi provenienti da famiglie meno abbienti o da famiglie benestanti ma con scarsa dimestichezza con i libri; di certo la faccenda si complica molto per coloro che non hanno facile accesso ai libri (stante anche lo stato comatoso in cui versano – quando ci sono – le biblioteche scolastiche).
Le cifre sono impietose per quanto riguarda i nostri giovani. Nel 2007 ha letto un libro non scolastico (parliamo di ragazzi tra i 6 e i 19 anni) il 53,8% dei ragazzi. Evviva! si potrebbe esclamare, visto che la media italiana adulta che dichiara di compiere un tale sforzo sovrumano (un libro in un anno!) è del 43,1%. Tralasciamo pure le differenze di genere e quelle territoriali (con abissi di variazione che toccano i 15/20 punti percentuali) e concentriamoci sul confronto con i coetanei d’Europa. Al nostro 53 e rotti percento corrisponde un 60% in Francia (dati 2006, età 15-24 anni), un 73,3% della Spagna (14-24 anni, 2007), mentre in Inghilterra ben il 90% delle madri ha dichiarato di leggere libri di racconti o di fiabe ai propri figli almeno una volta alla settimana (Italia: 41%, indagine 2006).
A fronte di questi ritardi nel nostro paese c’è una produzione di libri per ragazzi e per bambini di tutto rispetto (e con standard di qualità, questi sì, mediamente uguali o superiori a quelli degli altri paesi europei). L’editoria per ragazzi nel 2006 aveva sfornato, tra nuove edizioni e ristampe, 4.288 titoli, che costituiscono il 7% della produzione totale italiana. Nel 1987 l’offerta era di 0,15 titoli ogni 1.000 bambini, oggi quell’offerta è triplicata (0,52): «Sono comunque valori – spiega l’Aie – che rappresentano meno della metà di quelli dell’editoria spagnola e poco meno di un quinto di quella francese».
Il mercato per i ragazzi (0-14 anni) valeva nel 2007 137,2 milioni di euro (+2,5% sul 2006) a prezzo di copertina e tali valori, in confronto alla Spagna (322 milioni di euro), alla Germania (452,9 milioni di euro) o alla Francia (530,4 milioni di euro) la dicono lunga sulla domanda, più che sull’offerta.
Se, infine, le famiglie italiane dichiarano di considerare importantissime le biblioteche scolastiche in una misura «bulgara» (l’80%), va ricordato che il nostro paese è l’unico che non le prevede istituzionalmente e il risultato è che solo il 13,6% della popolazione studentesca accede con frequenza alla biblioteca scolastica.
Ultima nota: scriviamo in un momento in cui il più importante fenomeno editoriale e culturale negli ultimi anni è di gran lunga un libro, e un libro per ragazzi: Harry Potter. Bastano anche qui alcune cifre per dire che dimensioni ha raggiunto il business del mago (li ha rivelati Susan Gunelius, nel libro Harry Potter, come creare un business da favola, Egea): ha venduto 400 milioni di copie in tutto il mondo; gli editori che hanno tradotto i romanzi della Rowling, a livello planetario, sono 64; il brand Harry Potter vale, secondo stime attendibili, 4 miliardi di dollari. Ancora: esistono circa 200 libri connessi in qualche modo al maghetto; poco prima dell’uscita dell’ultimo volume della serie, il settimo, un libro che cercava di prevedere come sarebbe andata a finire la saga ha venduto 30mila copie; e potremmo continuare.
Ma non è importante: va solo sottolineato che mai come in questi anni i ragazzi hanno avuto accanto un libro nella loro formazione, ne hanno visto potenzialità e bellezza, hanno acquisito uno strumento che li accomuna a tutti gli altri ragazzi del pianeta (Harry Potter è il primo vero bestseller globale). E, quando saranno cresciuti, se dovranno consigliare un libro ai loro figli consiglieranno proprio Harry Potter. Insomma: il libro si è preso una bella rivincita proprio nel momento nel quale altri gadget o giochi tecnologici del tutto nuovi sono alla portata di molti.
Forse anche sull’onda di questo fenomeno sarebbe il caso di insistere sul piacere della lettura (non sul dovere) e sulle potenzialità formative e di svago che ha il libro. Sarebbe il caso, in definitiva, di giocare il tutto per tutto e scommettere – proprio come auspicavano gli editori – sui libri come strumenti fondamentali per la crescita.
E, invece, gli «investimenti» per favorire la lettura, almeno da noi, sono al palo. Proprio agli Stati Generali dell’editoria il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha affermato che, finalmente, dovrebbe partire il Centro per il libro, la struttura mista pubblico/privato, da più anni auspicata, che dovrebbe coordinare le attività di promozione della lettura (mancando sempre una legge quadro che tenga conto di tutti gli aspetti della materia e delle esigente della filiera del libro). Dovrebbe essere attiva dal 2009 con una dotazione di 3 milioni di euro.
Una cifra e un impegno che denunciano magari la buona volontà del governo attuale, ma anche la sua scelta di destinare su questo istituto – e in generale sul mondo del libro – risorse non ingenti.
Tempi di crisi, si dirà. Certo. Ma, anche qui, i paragoni con le strutture simili di altri paesi europei sono disarmanti. Il Centro per il libro francese (Cnl) ha varato, nel 2006, un progetto che si chiama «Livre 2010», che monitora l’andamento dell’industria del libro e cerca di attuare strategie per affrontare il futuro. Tra gli obiettivi, aiutare le librerie, l’anello più fragile della catena editoriale, stare attenti alle politiche di digitalizzazione, siglare alcuni accordi tra editori e distributori di prodotti culturali e tra editori e biblioteche. In tre anni il budget è passato da 20 a 36 milioni di euro all’anno.
In Inghilterra e Spagna, le cui esperienze sono state raccontate agli Stati Generali, gli investimenti statali per migliorare la capacità di lettura e far sì che il libro diventasse un oggetto comune anche tra i ragazzi sono stati, negli ultimi anni, di decine di milioni di euro (o di sterline) l’anno.
Non è il caso di continuare. Ma siccome abbiamo iniziato con una domanda, finiamo con un’altra: «Siete d’accordo con l’affermazione che la cultura del vostro paese è superiore a quella degli altri?». Avete risposto sì all’inizio di questo articolo?
State esprimendo una convinzione basata sui fatti, una speranza o una nostalgia?