Lucarelli l’inquieto

C’è qualcosa di nuovo nell’ultimo Lucarelli, anzi d’antico. L’ottava vibrazione non è un giallo, ma un romanzo storico ambientato nella colonia d’Eritrea di fine Ottocento (però ci sono detective e delitti) e propone un istituzionalissimo narratore unico onnisciente (però le diverse vicende sono intrecciate, interrotte, zoomate con un uso spregiudicato dei tempi verbali). Lo scrittore ormai esperto insegue la letterarietà alta, dall’alto delle sue quattrocentocinquanta pagine; l’autore «blu noir» sperimenta le inedite possibilità di un nuovo ibrido tra saggistica investigativa e narrazione, il real novel.
 
Sarà l’avvicinarsi dei cinquant’anni, sarà l’indefessa vocazione a non ripetersi, ma questa volta Carlo Lucarelli l’ha fatta davvero grossa. E non può essere solo un caso, qualcosa che è successo così, senza che se ne sia quasi reso conto: L’ottava vibrazione, il suo ultimo romanzo, conta quattrocentocinquanta pagine. Il punto è, per dirla senza giri di parole, che dopo quasi vent’anni di produzione vastissima, attraverso mezzi e linguaggi diversissimi (letteratura, teatro, cinema, tv, radio, videoclip, fumetti), questa è la sua prima opera che non sia un giallo.
Difficile dire se sia una vera e propria svolta oppure l’ennesima punta sperimentale di una carriera irrequieta. Certo è che lo scrittore parmigiano, uno dei padri del moderno giallo all’italiana, non ha mai sofferto nel considerarsi un autore di genere, tutt’altro. E altrettanto certo è che non c’è nulla, nell’Ottava vibrazione, che non fosse già nei precedenti libri. Tanto da permettere a Einaudi di riportare in quarta di copertina le parole «detective» e «delitti», forse per rassicurare i «serial reader» lucarelliani. Eppure qui tutto è intrecciato in modo diverso, tutto è spinto un po’ più in là del solito, e la percezione di trovarsi su un territorio nuovo si afferma subito, iniziando a leggere. Non per nulla Lucarelli sente il bisogno di scrivere una postfazione che non è solo un elenco ragionato di ringraziamenti, ma anche una lucida presa di coscienza della complessità del suo romanzo. E forse, questo sì, è un punto di non ritorno.
L’ottava vibrazione è un romanzo d’ambientazione storica, quasi un ritorno dell’autore bolognese alla prima maniera. Si svolgeva nell’immediato dopoguerra il suo libro d’esordio, Carta bianca (1990), come pure il sequel L’estate torbida (1991) e quel Via delle Oche (1996) che, alcuni anni e altrettanti romanzi dopo, completava la trilogia delle avventure del commissario De Luca. Un piccolo salto indietro, fino al Ventennio, e ci troviamo dalle parti di Indagine non autorizzata (1993) che, tra l’altro, quando verrà sceneggiato per la televisione cambierà protagonista e diventerà un’altra indagine di De Luca, e di L’isola dell’angelo caduto (1999). Sono tutti romanzi, tranne l’ultimo, in cui il clima storico, oltre a dare colore alla vicenda, contribuisce allo scioglimento dell’intreccio, che vede sì la soluzione dell’enigma, ma non il classico ritorno dell’ordine. Il primo Lucarelli, infatti, tematizza l’impossibilità di far emergere la verità, regolarmente inquinata o insabbiata dai poteri forti, e l’atmosfera politica dei periodi prescelti lo aiuta a rendere il tutto più consequenziale, oltre a permettergli di metaforizzare, in modo piuttosto esplicito, l’attualità. Ben diverso è il caso dell’Ottava vibrazione, dove forse è possibile leggere in filigrana, nell’Eritrea di fine Ottocento lasciata allo sbando da un governo assente, la critica a un’Italia in cui si vive di espedienti, guardando solo ai propri interessi, meglio se futili. Però in questo libro la messa in scena storica è talmente prepotente da prendere il sopravvento su qualsiasi lettura allegorica. Intanto, ci troviamo lontani dall’Italia, anche se siamo in una colonia, e in un’epoca abbastanza distante da non permettere a nessuno di conservarne ricordo diretto. Perciò contesto e atmosfere hanno bisogno di maggior sostanza, di descrizioni più dettagliate. Poi le vicende narrate sono quasi interamente calate nella situazione storica. Mi spiego meglio: se nei primi romanzi l’intreccio poliziesco potrebbe senza troppe difficoltà essere trasposto in un’altra epoca, qui l’operazione risulterebbe, se non impossibile, quantomeno complicata. Siamo insomma in pieno romanzo storico e non, come nei libri precedenti, in una «narrazione in costume», a semplice sfondo storico.
Ma L’ottava vibrazione esibisce anche un elaborato meccanismo stilistico. Pure in questo, niente di completamente nuovo: quando passa a raccontare vicende ambientate ai giorni nostri, inchieste metropolitane e storie di serial killer, Lucarelli comincia a costruire schemi narrativi sempre più complessi, a stratificare voci e a sperimentare scelte linguistiche non convenzionali. Con le avventure di Coliandro (Falange armata, del 1993, Likita, la prima, ma uscita in volume solo nel 1997, e Il giorno del lupo, del 1994), debutta, a dire il vero ancora timidamente, il doppio narratore; ma soprattutto, Lucarelli, favorito dai modi caricaturali del protagonista/narratore, dà sfogo a una vertiginosa mimesi del parlato. Non sarà mai più altrettanto sfrenato nelle scelte lessicali, ma la strada per una lingua più spregiudicata è aperta. Lupo mannaro (1994) prosegue nell’utilizzo di due narratori e due focalizzazioni (esterna onnisciente, al tempo passato; interna in presa diretta) e lo affina, anche solo perché mette in scena un narratore meno egotico. Ma il vero spartiacque è Almost Blue (1997), ancora oggi il libro più facilmente associato all’autore parmigiano, dove la moltiplicazione delle voci manifesta effetti davvero evidenti: tre narratori, incluso l’assassino, che tra l’altro permette a Lucarelli di sperimentare un linguaggio più sincopato, metaforico, emotivo, e di lavorare per associazioni nel tentativo di rendere il delirio della mente del serial killer. Un percorso che tocca il suo apice in Un giorno dopo l’altro (2000), dove il montaggio delle voci (e degli eventi che costruiscono l’intreccio) è ancora più disinvolto e contribuisce a intensificare l’atmosfera thriller della narrazione.
Rispetto a questa evoluzione stilistica, Lottava vibrazione costituisce insieme un passo indietro e uno (un po’ più lungo) in avanti. Se a livello di voce, infatti, Lucarelli torna al narratore unico onnisciente, a livello di storia, invece, sceglie di portare avanti in un intreccio parallelistico più personaggi, più eventi, uno solo dei quali vagamente poliziesco, giusto per la presenza di un investigatore a caccia di un assassino (di cui però conosce già l’identità, come accadrà ai lettori ben prima dello scioglimento). In più, il senso di coralità del romanzo viene amplificato dalla focalizzazione, vicinissima ai personaggi. La novità più clamorosa del libro, però, si riscontra sul piano stilistico. La spiega lo stesso Lucarelli nella sua postfazione: «Discutendo con Simona Vinci, che scrive al presente, e con Eraldo Baldini, che scrive soprattutto al passato, e poi con Deborah Gambetta e con Giampiero Rigosi, e non sapendo io che parte prendere visto che tutti mi sembravano aver ragione – tempo della modernità, tempo della storia –, mi è venuto in mente di provare a metterceli dentro tutti, i tempi verbali, a seconda delle mie esigenze, per fermare, muovere, rallentare, accelerare, anche zoomare su qualcosa». Ora, sull’efficacia di questa tecnica all’interno del romanzo si può probabilmente discutere: a tratti sembra infatti sfuggire di mano all’autore, che già mostra qualche difficoltà nel mantenere alta l’attenzione portando avanti più storie insieme. Ma l’idea è di quelle ambiziose, e chiarisce bene il punto a cui Lucarelli è approdato. Niente più stratagemmi a effetto, in passato applicati anche un po’ meccanicamente: tutto è al servizio di una maggior complessità, della ricerca di uno standard di letterarietà più istituzionale.
Nel frattempo, l’instancabile scrittore parmigiano ha aperto un altro fronte, quello del real novel, il racconto di fatti e personaggi della cronaca attraverso le modalità della fiction, e ha dato vita, insieme al criminologo Massimo Picozzi, a interessanti incroci tra saggistica investigativa e narrazione. Un genere di cui, ancora, Lucarelli può essere considerato uno dei padri, e che negli ultimi anni ha attratto diversi autori, con esiti felici sia sul piano della riuscita letteraria sia su quello delle vendite. È proprio questo filone ad aver impegnato maggiormente l’ultimo Lucarelli, che ha saputo trasporlo efficacemente anche in televisione, con la serie Blu notte, usando un linguaggio diretto e una costruzione narrativa di grande ritmo, punteggiata da stilemi ricorrenti che gli hanno procurato, tra l’altro, una popolarissima imitazione in tv. La capacità di tratteggiare un’ambientazione o un personaggio in poche parole, l’utilizzo inedito di veri e propri brani letterari, il riuscito alternarsi di documenti e ricostruzioni hanno garantito il successo del programma e, ancor più, imposto e reso riconoscibile la voce di Lucarelli. Il pericolo è che proprio qui l’autore parmigiano rischi l’impasse, arenandosi in una formula ormai un po’ logorata dagli schematismi. La sfida potrebbe essere quella di portare la consapevolezza esibita nell’ultimo romanzo al servizio dei fatti di storia, sempre più complessi, affrontati dal programma. Potrebbe essere una nuova svolta. O almeno potrebbe aiutarci a definire meglio dove sta andando l’inquieto Lucarelli.