Le religioni evolvono per selezione naturale?

La religione è uri esclusiva dell’uomo, proprio come il linguaggio simbolico. Però non porta uguali benefici, al contrario rischia di scatenare conflitti violenti. Allora, perché resiste da millenni? La fede scoraggia le cattive azioni più di quanto faccia la morale laica? O forse la fede dipende dall’abbondanza di un neurotrasmettitore? Duecento anni dopo Darwin, una ricerca finanziata dalla Commissione europea cerca una spiegazione. Mentre gli autori continuano a dividersi tra chi interpreta dati, misure, misteri della fede e modelli scientifici da un punto di vista religioso o laico.
 
Nel 2009 si festeggiano il bicentenario della nascita di Darwin e i 150 anni dalla pubblicazione dell’Origine delle specie. Usciranno altri saggi pro e contro la teoria dell’evoluzione e, speriamo, una vigorosa difesa del creazionismo da parte di un autore italiano. Di sicuro, non sarà nemmeno lui – è un’arte tutta maschile – un ricercatore praticante. In biologia, come nelle altre scienze, i ricercatori si dividono in credenti, atei e tutte le sfumature comprese tra le due categorie, ma durante le ore di lavoro sono tutti laici. Escludono di descrivere o spiegare un fenomeno ricorrendo a sacri testi, perché se il risultato è stato scritto in precedenza da qualcuno, la ricerca è superflua, i posti di ricercatori anche. Nel tempo libero, ognuno invece sceglie sotto quale stendardo schierarsi nella «Kulturkampf che prosegue con alterne vicende ormai da due secoli», come dice Paolo Costa in Un’idea di umanità. Etica e Natura secondo Darwin Nel caso delle conseguenze economiche, sociali, culturali, morali della scienza applicata, ogni scelta è lecita. Ma, dall’inizio del secolo, si tende a interpretare i dati, le misure, i modelli, la materia grezza insomma, da un punto di vista religioso o meno. All’acquirente servirebbe una corretta etichettatura del prodotto.
Talvolta il punto è precisato in quarta di copertina, in modo da evitare i malintesi. Chi compra l’ironica e colta Preghiera darwiniana (2008) di Michele Luzzatto è avvisato che non si tratta di un inno al Signore scritto da Charles ai tempi in cui studiava teologia. Darwin viene paragonato a «Giacobbe e a Giobbe […] e chi si scaglia contro Darwin finisce paradossalmente col trovarsi piuttosto distante da Dio, se c’è un Dio». Il titolo La fisica del cristianesimo. Dio, i misteri della fede e le leggi scientifiche (2008), di Frank J. Tipler, induce a pensare che l’autore usi le leggi per smentire i misteri. In quarta, si legge che «dobbiamo accettare le implicazioni delle leggi fisiche, qualunque esse siano. Se le leggi fisiche implicano l’esistenza di Dio, allora Dio esiste». Ma la implicano? Lo promette il risvolto: «Dalla verginità di Maria, all’incarnazione, alla resurrezione, l’autore ci dimostra come gli assunti in apparenza meno plausibili del Cristianesimo si fondino, o possano fondarsi, su leggi fisiche certe […] e trovare conferma nei più recenti studi di laboratorio». Tipler non lo dimostra affatto. Usa una versione personale dell’Antico e del Nuovo Testamento che associa liberamente a «recenti studi». E vero che alcune specie di lucertoline sono vergini di madre in figlia e che in zoo inglesi due enormi varani di Komodo hanno fatto un uovo e un figlio maschio a testa, senza aver mai avuto rapporti con un varano, ma in nessun laboratorio un ovulo è mai stato fecondato dallo Spirito santo.
Nessuna avvertenza sulla copertina di Teoria dei quanti (2008). Un altro fisico matematico, John Polkinghorne, racconta com’è nata la concezione probabilistica dell’elettrone, così distante da quello che noi intendiamo per realtà. «E l’intelligibilità, più che l’obiettività, la traccia della realtà […] un’idea, sia detto per inciso, che ha origine nel pensiero di Tommaso d’Aquino» scrive a pagina 81, anche lui verso la fine del saggio. L’inciso ci informa sul pensiero di Polkinghorne, ordinato diacono della Chiesa anglicana nel 1981: per i dettagli rimando alla sua autobiografia From Physicist to Priest (2007). E ci disinforma sul pensiero dei fisici, di rado cristiani o lettori di Tommaso d’Aquino. Per loro, quella traccia ha origine nelle equazioni di Dirac, Heisenberg, Feynman, e descrive la realtà perché, obiettivamente anche se banalmente, le equazioni funzionano e fanno funzionare i dispositivi elettronici.
Lascia incerti sul contenuto del volume anche la citazione sul retro di Una fortuna cosmica. La vita nell’universo: coincidenza o progetto divino? dell’astrofisico Paul Davies (2007): «Io prendo sul serio la vita, la mente e la finalità, e ammetto che l’universo quanto meno sembra progettato con un elevato livello di ingegnosità. Non posso accettare questi aspetti come uno scrigno di meraviglie che ci sono soltanto per caso, che esistono senza una ragione». Qui va colto che l’ingegnosità del progetto è un richiamo dell’Intelligent Design dei neocreazionisti americani, e che la ragione astutamente contrapposta al caso non è la causalità, bensì la volontà divina. Per Davies, gli universi sono molti e compongono un «multiverso», un’ipotesi più plausibile e condivisa di quelle immaginate da Tipler, la cui fantasia aumenta insieme alla distanza dalla disciplina in cui è competente. E plausibile, perché gli astrofisici hanno imparato la lezione: un secolo fa, era accertata un’unica galassia, la nostra, oggi se ne contano a miliardi; nel 1995 si conoscevano soltanto i pianeti del nostro sistema solare, da allora ne sono stati censiti più di trecento attorno ad altre stelle. Quindi Davies la pensa come la maggioranza dei colleghi. Però ritiene che «la vita e la mente [umane, N.d.R.] siano impresse in profondità nella struttura del cosmo, forse tramite un oscuro pensiero vitale appena intravisto». Davvero? E su quale deduzione, inferenza, calcolo, osservazione si basa? Be’, ecco, «per essere onesto devo ammettere che questo punto di partenza è qualcosa che avverto più nel cuore che nella testa. Così può darsi che sia soltanto un’ordinaria convinzione religiosa».
Pochi mesi prima e sul versante laico, lo stesso editore aveva presentato ^illusione di Dio. Le ragioni per non credere (2007), come una blanda autodifesa: «L’ateismo è un’aspirazione non soltanto realistica, ma anche nobile e coraggiosa. Si può essere atei felici, equilibrati, morali e intellettualmente appagati». Sotto la copertina, invece, Richard Dawkins attaccava le religioni monoteiste, denunciava l’indottrinamento dei pargoli, le crociate sanguinarie e altri misfatti. Dichiarava le proprie intenzioni d’emblée. «Se questo libro avrà l’effetto da me auspicato, i lettori religiosi che lo apriranno saranno atei quando lo chiuderanno».
Non so se Dawkins abbia raggiunto l’effetto auspicato, però la bagarre gli è piaciuta e negli Stati Uniti, dove gli atei si sentono perseguitati, e ancora di più se sono biologi e quindi evoluzionisti, ha suscitato vocazioni. Il movimento dawkinsiano organizza convegni e mira a ottenere che l’eletto alla Casa Bianca si dichiari per la separazione tra Stato e Chiesa, in un paese dove un ateo non ha la minima chance di farsi eleggere governatore nemmeno nel Maine, men che meno presidente dell’Unione. Nella baraonda seguita alla pubblicazione del libro, due capitoli – «Le origini delle religioni» e «Le origini dell’etica» – sono passati inosservati, eppure contenevano ipotesi sull’evoluzione delle religioni per selezione naturale. Dawkins individuava i vantaggi da esse conferiti all’individuo e al gruppo in termini di fitness, aumentando il tasso di sopravvivenza e di riproduzione dei credenti.
Dawkins seguiva il modello degli studi sull’evoluzione del senso morale, che costringe anch’esso a rinunce e sprechi di energia svantaggiosi per il fitness, già avviati negli animali umani e non. Si veda per esempio Menti morali di Marc Hauser (2007), I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri di Marco Iacoboni (2008), L’evoluzione della mente, una raccolta di saggi curata da Telmo Pievani (2008), Primati e filosofi. Evoluzione e moralità di Frans de Waal (2008). Tutti libri di autori laici. Ci sono cristiani fra i genetisti: Francis Collins, fino a pochi mesi fa direttore del Progetto genoma umano, scrive che i geni parlano il linguaggio di Dio {sic, in Thè Language of God, 2006), ma nessun neuroscienziato fa altrettanto per i neuroni. In privato, qualcuno dice che la coscienza sta nell’anima la quale, essendo priva di basi biologiche, è inaccessibile con il metodo scientifico. E quindi turbato dal fatto che ricercatori in neuroscienze biologiche, cognitive e comportamentali stiano indagando il «fenomeno religioso», un attacco più pericoloso di quello di Richard Dawkins.
Cerco di riassumere la questione perché nei media italiani non ha trovato spazio e forse i lettori non sono al corrente. Ai ricercatori si presenta così: la religione è un’esclusiva della specie umana, presente in varie forme in tutte le culture proprio come il linguaggio simbolico. Però non porta uguali benefici – per chi ha in mano Tirature, quelli del linguaggio, della scrittura, della lettura sono evidenti – pur consumando molte risorse individuali e collettive. E, diversamente dal linguaggio, scatena conflitti violenti. Allora perché resiste da millenni?
Dalla domanda ne discendono altre alle quali cercare le risposte. Esistono meccanismi mentali e cerebrali che rappresentano una divinità onnisciente? Quali sono, e dove? La sua rappresentazione funge da «sorvegliante» e scoraggia le cattive azioni più di quanto faccia la morale laica? I credenti godono di maggior fiducia e facilitano imprese cooperative da cui traggono profitto insieme al proprio gruppo? Se è così, il livello di cooperazione varia da una setta o denominazione all’altra? Dove i riti sono più frequenti, i profitti sono maggiori? E così via.
Arrivano i primi dati e aumentano le ipotesi, cioè le domande. Negli Stati Uniti, i malati di Parkinson, nel cui cervello circola poca dopamina, risultano statisticamente meno religiosi della popolazione sana. La fede dipende dall’abbondanza di un neurotrasmettitore? In Canada, si è scoperto che soltanto nei credenti il versetto di un salmo suscita un’attivazione dei neuroni in aree della corteccia parietale e frontale, che si pensava fossero dedicate al ragionamento. La fede mobilita le facoltà cognitive superiori? Invece il God Spot (un gruppo di neuroni nel lobo temporale che si attivano in circostanze particolari) si è rivelato un’illusione. Identificato nel cervello di pazienti affetti da crisi epilettica e mistica insieme, non si vede in quello di suore cattoliche e di monaci buddhisti mentre pregano sotto il casco della tomografia a emissione di positroni. In Israele, la cooperazione e l’equa spartizione dei beni sono praticate con la stessa frequenza da uomini e donne fra i kibbutzim laici; fra quelli credenti, invece, gli uomini sono equi, le donne molto meno.
I dati preliminari generano confusione. Per mettere ordine, nel settembre 2007 è stata inaugurata «Explaining Religion» (Exrei), una ricerca triennale finanziata con due milioni di euro dalla Commissione europea. Ci collaborano neuroscienziati, biologi, economisti, sociologi, antropologi, teologi ecc. di quattordici università, nessuna delle quali italiana. Gli evoluzionisti atei o agnostici sono maggioritari, per loro va da sé che il laicismo è un adattamento, una novità positiva: la razionalità prevale sulla superstizione e svincola da divieti e norme infondate la potenza della mente umana. A prima vista, con Exrei rischiano l’autogol.
Sotto il profilo del fitness, i credenti sono messi meglio: non praticano il controllo delle nascite, non bevono, non fumano e se la fede allevia lo stress, come sostiene Dawkins, devono per forza vivere sani a lungo e lasciare molti discendenti. Mentre i laici che fanno un figlio, al massimo due, e si danno ai bagordi sarebbero destinati a una rapida estinzione. I lettori atei si rassicurino, non è detto. Per Darwin nel 1859 come per gli evoluzionisti nel 2009, adattamento e fitness non sono assoluti, ma dipendono dall’ambiente: che è cambiato parecchio da quando sono comparse le religioni.