All’ombra del Vesuvio e alle spalle del Golfo, Napoli ha una natura ctonia, tellurica, viscerale: ogni viaggio al centro della città presuppone l’immersione e l’inabissarsi. Il confronto romanzesco con le profondità della vita partenopea può declinarsi come testimonianza oggettiva o come racconto espressionista, ma mantiene in ogni caso le sue radici di inevitabilità. Le impennate fantastiche, trimalcionesche e funerarie che cadenzano la narrativa visionaria dei romanzi di Montesano trovano un inatteso corrispettivo nella tetralogia degli addii firmata da Rea, in cui l’inchiesta trascolora nella fiction mano a mano che si confronta con l’infernale e il sotterraneo.
Nei titoli della narrativa italiana contemporanea nessun aggettivo, nessun sostantivo ricorrono con la frequenza di «napoletano» e «Napoli». Napoli è la città più fatale d’Italia. Per un verso o per l’altro, Tesservi nato o cresciuto viene vissuto come un destino: come una circostanza con la quale occorre fare i conti, anzi, con cui non si è finito di fare i conti mai, che si decida di rimanervi, di andarsene, ovvero di farvi sia pur provvisoriamente ritorno. A giudicare dagli ultimi sessant’anni, un romanziere può essere milanese, romano, toscano, perfino veneto, quasi per caso – cioè senza avvertire il bisogno di mettere direttamente a tema la propria provenienza. Napoletano (o siciliano) no. Certo, c’è anche chi prova a ridurre Napoli a un contesto urbano normale, a una scenografia non inerte ma nemmeno imprescindibile: così per esempio il Massimiliano Virgilio di Più male che altro (uno degli esordi più interessanti del 2008). E può capitare che uno scrittore, dopo essersi lungamente misurato e starei per dire accapigliato con la napoletanità, cerchi in qualche misura di affrancarsene: il caso più istruttivo è quello di Peppe Lanzetta. La norma, tuttavia, è che a Napoli non ci si sottrae facilmente. Non si sfugge dall’ombra del Vesuvio, dal respiro del Golfo (o del «mare guasto», per citare un titolo di Maurizio Braucci), e ancor più dagli influssi segreti del suolo e del sottosuolo, che emanano da promiscue sedimentazioni storiche, psicologiche, urbanistiche, piroclastiche. Sia pure per amor di paradosso, si può insinuare che Napoli in verità non sia una città marina: lo fece Anna Maria Ortese con il suo libro più celebre e seminale (Il mare non bagna Napoli, 1953), a modo suo l’ha fatto di recente Ermanno Rea, che in Napoli Ferrovia parla a lungo di un «furto del mare», simboleggiato dallo sfregio edilizio che negli anni cinquanta precluse a piazza Mercato la visuale del porto. Ma che Napoli sia una città ctonia, tellurica, e perciò viscerale e sibillina, è fuori discussione: la profondità, in tutte le accezioni possibili, è l’attributo che la contraddistingue. Lo aveva ben imparato a proprie spese Andreuccio da Perugia, eroe d’una delle più note novelle del Decameron (il, V), che casca giù nel chiassetto, viene calato nel pozzo, entra dentro l’arca – e non vede il mare. Ogni vera esplorazione della realtà partenopea esige che ci si immerga o ci si inabissi.
In prima approssimazione, chi lo fa sceglie fra due possibili equipaggiamenti. Il primo comprende tutto l’armamentario del resocontista, dal taccuino degli appunti al registratore, e mira a documentare una serie precisa di fatti o un ambito spaziale definito. Il secondo si identifica con l’abito del flaneur, che non ha un obiettivo preciso ma vaga e osserva, senza programmi, esercitando l’acume del suo sguardo su quanto gli capita davanti. Da queste due attitudini derivano altrettante strategie stilistiche, due opzioni di gusto, che interpretano in maniera diversa una medesima istanza realistica. Il fine è uno: rappresentare Napoli. Le vie – almeno in prima approssimazione – divergono: da un lato la cronistoria oggettiva, l’inchiesta sociologica in forma di testimonianza vissuta, dall’altro il racconto a forte coloritura espressionista, l’interpretazione in chiave umoristico-grottesca, a volte spinta ai limiti dell’iperbole visionaria. Gli autori che meglio esemplificano queste due tendenze sono, rispettivamente, Ermanno Rea e Giuseppe Montesano. A Rea, ormai felicemente approdato alla soglia degli ottant’anni, dobbiamo quattro opere che compongono una sorta di tetralogia degli addii: L’ultima lezione, Mistero napoletano, La dismissione e Napoli Ferrovia, che raccontano, nell’ordine, la misteriosa scomparsa dell’economista Federico Caffè, il suicidio della cronista dell’«Unità» Francesca Spada, lo smantellamento dell’acciaieria di Bagnoli e la breve amicizia con uno straniero che guida lo scrittore alla scoperta della «sua» (e non più sua) città. Ognuna di queste storie presenta un enigma da risolvere, un distacco da consumare, un lutto che non viene elaborato. E se il rapporto ambivalente con il luogo natale è un dato originario e un leitmotiv, man mano che il tempo passa si direbbe che il coinvolgimento dell’autore cresca, fino al culmine di Napoli Ferrovia.
Rea nasce giornalista, e il genere narrativo che pratica è quello del romanzo-documento, del non fiction novel. Stando alle sue dichiarazioni (ma non si fatica a credergli), nulla di quanto racconta è inventato. In questo modo è riuscito a scrivere quello che è da considerare uno dei non moltissimi esempi di «letteratura industriale» di sicura durata. La dismissione è il resoconto della fine del sogno industriale di Napoli, scritto in prima persona da un tecnico dell’Ilva incaricato di smontare la colata continua dell’acciaieria, dismessa appunto, e acquistata dai cinesi. L’uomo, appassionato del proprio mestiere, legato a quei macchinari come può esserlo solo chi ha coltivato l’etica del lavoro come una rivendicazione orgogliosa di identità in opposizione ai luoghi comuni, ai pregiudizi, ai vizi atavici veri o inventati (Bagnoli come «controcartolina» di Napoli), ottempera alla penosa incombenza con lo scrupolo di sempre; e, paradossalmente, compie così il proprio capolavoro professionale. In una breve prefazione l’autore spiega la genesi del libro: una lunga serie di colloqui con un tecnico dell’Ilva, rielaborati in forma di narrazione «vagamente epistolare» in cui il protagonista, Vincenzo Buonocore, gli racconta la vicenda. In Napoli Ferrovia la dimensione dialogica acquista invece un rilievo strutturale, anche perché tema del racconto non è più un evento di oggettiva rilevanza sociale ed economica, cronologicamente e cronisticamente circoscritto, bensì qualcosa di più vago e sfuggente: l’identità della zona di Napoli adiacente alla stazione, dove cova, impercettibile agli sguardi distratti, la natura profonda della città. Il narratore, che vi ha abitato in anni lontani, torna ora a esplorarla sotto la guida di un venezuelano soprannominato Caracas, figlio di emigranti, rientrato in Italia all’età di sedici anni. Caracas, che viene presentato a Rea come un naziskin, professa idee di destra, tra cui un tenace e virulento antisemitismo. Tuttavia nutre sentimenti di sincera solidarietà nei confronti degli emarginati, degli stranieri, dei «vinti»; tant’è che decide di convertirsi all’Islam per condividere la fede dei diseredati e degli esclusi.
Una strana coppia, senza dubbio. Ma fra l’intellettuale politicamente orientato a sinistra («una cariatide comunista»), fuggito da Napoli cinquant’anni prima, e il rinaturalizzato partenopeo dalla testa rasata che fraternizza con i derelitti e idoleggia Yukio Mishima, si stringe un singolare sodalizio. «Scendo con lui nell’inferno, e lui me lo spiega, mostrandomelo come lo vede con i suoi occhi: senza rancore per nessuno, disprezzo per nessuno, gelosia per nessuno.» Caracas è il Virgilio ideale per scoprire l’essenza segreta di Napoli: «Questa è una città-spugna, capace di apporre il proprio sigillo su ogni importazione, di ridurre alla propria misura chiunque la scelga per casa; questa è una città che inghiotte, metabolizza fingendo di farsi essa straniera via via che integra lo straniero, lo divora. Perciò la mia piazza di oggi non è troppo dissimile da quella di ieri, perfino le voci si rassomigliano, e può accadere anche che il nigeriano gridi al nigeriano – “ma tu che cazzo wuo’?” – con una inflessione di parlata, una voce, come provenisse diretta dalle viscere della città». Ma al riconoscimento di permanenza («Napoli in fondo è sempre la stessa») si alternano considerazioni di segno diverso: un sentimento di soggettiva estraneità («Ormai io sono uno straniero, anzi un rinnegato che si è fatto straniero»), e soprattutto un’imputazione oggettiva di stravolgimento. Man mano che la confidenza aumenta, i due si raccontano la propria vita. Se l’esistenza di Caracas è stata segnata dal disperato amore per una ragazza inghiottita dall’eroina, quella di Rea è la storia di una famiglia appartenente alla piccola borghesia cittadina (il padre aveva un negozio di vernici) che ha visto Napoli defraudata della sua antichissima vocazione commerciale e marittima: il furto del mare di cui sopra si diceva, dovuto in massima parte all’installazione a Napoli della Sesta flotta americana.
Anche il regime discorsivo è contraddistinto da una tensione fra due poli. L’istanza documentaria è contrastata dalla tendenza a filtrare la realtà attraverso ricordi, evocazioni, associazioni. Nel candore e nell’afflato umano di Caracas il narratore ravvisa i tratti dell’amico Luigi Incoronato, morto suicida nel 1962, e autore di un libro, Scala a San Potito, che da parte sua appare ormai consustanziato a quel dettaglio del paesaggio cittadino. Alla realtà presente di Napoli si sovrappongono dunque le rappresentazioni della città stratificate nella memoria personale e collettiva: la profondità spaziale si riproduce nella profondità del tempo. L’acme visionario viene raggiunto quando lo scrittore si convince che suo padre, vecchio comunista, scomparso da molti anni, ha in qualche modo incontrato il mite e cocciuto naziskin, ed è riuscito a intendersi con lui. Ma lo scarto più vistoso avviene nel finale. Raccolto tutto il materiale che gli occorre, Rea lascia di nuovo Napoli e comincia a inviare a Caracas quanto scrive. Dopo l’entusiasmo iniziale Caracas non solo cessa di rispondere, ma sparisce (come Federico Caffè) senza lasciare traccia. «Caracas aveva deciso improvvisamente – per disgusto o paura o vergogna, chissà – di dissociarsi dal racconto, di uscire dal gioco, trasformando un libro-verità in un libro-fantasia se non in un libro-menzogna.» L’inchiesta è diventata un romanzo: la persona in carne e ossa è diventata un personaggio letterario, e con lui il poligono della Ferrovia, piazza Garibaldi, Napoli tutta.
Romanzi, senza dubbi di sorta, sono i libri che hanno imposto Giuseppe Montesano come uno dei narratori più validi della generazione che ha esordito negli anni novanta. Montesano mette in scena vicende inventate e personaggi dalla fisionomia quasi caricaturale: così per esempio il gruppo di trentenni sfaccendati di Nel corpo di Napoli che discettano di poesia e filosofia illudendosi di essere sulla via per scoprire «la verità» e nel frattempo si fanno mantenere dai genitori, sempre più insofferenti per la scioperataggine dei figli («’e ppatane so’ bbone cotte», le patate sono buone cotte, ripete sarcastico il padre d’uno di loro). «Nel corpo di Napoli», ossia nel sottosuolo, nelle fognature, li conduce uno scalcinato esoterista/teosofo, marito di una specie di donna-cannone dalle virtù medianiche, per scoprire il luogo misterioso, presso la fossa comune della pestilenza del 1656, dove si è venuta accumulando nei secoli successivi tutta l’«energia della sopravvivenza» che la città ha sprecato. Ovviamente la ricerca non va a buon fine, e una volta dissipato in banchetti luculliani il denaro di un’inattesa eredità i protagonisti si riducono ad accettare ogni sorta di compromessi, rinunciando alle velleità intellettuali e sottomettendosi alla dura legge della necessità economica. Ne usciranno trionfatori in due: un prete torbido e manesco, che capeggia un gruppo di cattolici reazionari, e un amico senza scrupoli, connivente con la criminalità organizzata e titolare di un’impresa di costruzioni funebri. Fra i suoi progetti, la creazione di una necropoli sotterranea profonda centodieci metri, sovrastata da un centro residenziale: i vivi sopra, i morti sotto, massimo risparmio possibile di spazio. Ancora più sbrigliata l’invenzione che ispira Di questa vita menzognera, titolo tratto da una poesia di Blok. Anche qui torna la figura del presuntuoso dandy intellettuale, regolarmente e crudelmente ridicolizzato; ma ora in primo piano è la genia dei vincenti, una famiglia camorrista di ricchezza, arroganza e volgarità egualmente smisurate, che mette mano al progetto di trasformare Napoli in una specie di teatro permanente – «Eternapoli» – dove la città mette in scena se stessa, storia, tradizioni, cliché. Particolarmente efficace la scena conclusiva, con uno sparuto manipolo di dissidenti in fuga, durante un indiavolato delirio carnascialesco, tra il Tempio dei Dioscuri ricostruito con il frontone in plastica e Ferdinando di Borbone che mangia gli spaghetti al sugo con le mani, tra i seguaci di Masaniello in rivolta e i sanfedisti che impiccano (per finta?) Eleonora Fonseca Pimentel, mentre la città, violentata da mille dissennati cantieri, comincia a sprofondare nel sottosuolo.
Eppure al fondo di questo tumultuoso e sghignazzante incubo c’è pur sempre il desiderio – l’ossessione – di afferrare la realtà della Napoli com’è oggi. Una città degradata e caotica, che rischia di dissolversi in un’indistinta e immemore conurbazione dilagante fino a Salerno, fino a Caserta – e allora i tesori d’arte, definitivamente avulsi dall’identità urbana, potrebbero davvero essere svenduti ai malviventi facoltosi, come ipotizza Di questa vita menzognera. Nessuna soluzione di continuità, insomma, tra le impennate fantastiche, trimalcionesche e funerarie dei romanzi di Montesano (dove un ruolo cruciale è sempre giocato dal cibo, dai rifiuti e dai cadaveri) e l’operazione di Napoli assediata, firmata da Montesano stesso e da Vincenzo Trione: una raccolta di testi, immagini e racconti dedicati all’Asse mediano, il raccordo autostradale che attraversa da ovest a est la periferia napoletana attraversando i comuni a più alta densità camorristica. In particolare le immagini del gruppo degli Underworld, tratte da una videoinstallazione allestita intenzionalmente con telecamere amatoriali, propongono la stessa emulsione di allucinazione e realtà delle pagine più cupe di Montesano. Una sterminata e oscena Ipernapoli, che presto, se niente cambierà, «sarà solo, tutta, una immensa Infernapoli». Dunque, uno slittamento speculare a quello dei libri di Rea: una narrativa visionaria in cui l’impressione di irrealtà altro non è che un effetto della fissità sgomenta dello sguardo sul mondo.