Accanto alla sempiterna bandiera della modernizzazione in chiave liberale, negli ultimi anni il «Corriere della Sera» ha innalzato, grazie a Oriana Fallaci e Magdi Allam, il vessillo dell’identità italiana, da riformulare e difendere. Nel frattempo l’impressionante impatto sociale dei libri di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo testimonia l’ascesa in Italia di un egemonia culturale fondata per la prima volta su valori di matrice ambrosiana, su cui vale la pena di interrogarsi. Né si ferma qui l’assalto alle librerie dei corrieristi, che anzi vanno cimentandosi un po’ in tutti i generi, romanzi inclusi.
Che il «Corriere della Sera» continui a funzionare come un faro per le classi dirigenti e l’opinione pubblica italiana, ce lo ricordano da un lato gli sciami di falene attirati e inceneriti qualche estate fa, dall’altro le polemiche che nel 2006 accompagnarono il fondo nel quale il direttore, Paolo Mieli, si schierò a sostegno della coalizione di centrosinistra. Né allora né adesso, peraltro, la linea assunta dal giornale mise la sordina a un’orchestra di opinionisti esterni niente affatto unanime. Tuttavia sarebbe sbrigativo ridare lustro a etichette consunte, quali terzismo o cerchiobottismo. A uno sguardo più attento, che non si arresti alle contingenze della politica, risulta facile comprendere come buona parte degli editoriali diano vento alla bandiera tradizionale della testata, vale a dire l’impulso a una modernizzazione del paese condotta su idee di stampo liberale.
In quest’ottica, la fine della Prima Repubblica ha agevolato un fruttuoso recupero della funzione di pungolo, a fronte di un panorama ritenuto sconfortante. Proprio da qui trae vigore il secondo nucleo ideologico forte veicolato dal «Corriere della Sera», inteso a riformulare e nel contempo difendere l’identità nazionale. Non occorre scartabellare tra gli interventi di Ernesto Galli Della Loggia per verificare il peso preponderante attribuito alla questione. Le vicende dell’Italia unita sono dilagate persino nelle risposte alle lettere, affidate a Sergio Romano, che non a caso ha intitolato Il paese delle molte storie la scelta della rubrica approntata per Rizzoli. Mentre nelle pagine della cultura tale atteggiamento si traduce in una sistematica rivisitazione del ventennio e del periodo postbellico, in sintonia con gli interessi del vicedirettore, Pierluigi Battista, autore tra l’altro di un volume dedicato al «silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo», Cancellare le tracce.
Siamo con ciò nei pressi di un fenomeno da rimarcare. E in primo luogo grazie ai libri – a due libri, in particolare – che nell’ultimo decennio il tema dell’identità ha preso quota, rilanciando l’egemonia culturale del «Corriere della Sera» ben al di là delle sue colonne, tra settori di pubblico poco o per nulla avvezzi alla lettura del giornale. Alludo evidentemente a La rabbia e l’orgoglio, di Oriana Fallaci, e a L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, di Gian Antonio Stella, incentrato sulle umiliazioni subite dagli italiani appena l’altro ieri, quando in giro per il mondo passavamo per straccioni, astuti e violenti. Come tutti sanno, però, Stella è anche autore (insieme a Sergio Rizzo) della Casta, dove esercita il consueto puntiglio sul versante della mancata modernizzazione. Ed è proprio La casta l’opera da affiancare idealmente alle invettive della Fallaci: sono questi i più squassanti, sintomatici blockbuster italiani degli anni zero, vessillo l’uno della cosiddetta antipolitica, l’altro del pregiudizio antislamico. Libri «contro», che hanno saputo intercettare stati d’animo insorgenti dal basso, tanto che la loro mancata lettura viene sbandierata come sintomo dello scollamento tra élite e gente comune.
Che poi le ultime opere della Fallaci solletichino pulsioni bieche, rispolverando paradossalmente nei confronti degli arabi stereotipi a lungo adoperati negli Stati Uniti contro gli italiani (come documenta Lorda), o nella pianura padana per bollare i meridionali, non cambia i termini della questione, rilanciata dagli interventi di Magdi Cristiano Allam, assegnabili al medesimo filone del paventato avvento dell’Eurabia, a dissolvere i valori occidentali, con la connivenza dei troppi intellettuali cacadubbi. Argomenti, questi, che risuonano per esempio in Viva Israele, mescolandosi a una vena memoriale coinvolgente, fonte di vivide rievocazioni del quotidiano nell’Egitto di Nasser. Francamente sconcertante appare invece Grazie Gesù, dove Allam racconta la propria conversione al cattolicesimo, spendendo in ringraziamenti oltre quaranta pagine. Certo sono comprensibili l’entusiasmo e il desiderio di legittimazione; un po’ meno la disinvoltura con cui l’autore intreccia politica e religione, dopo essersi avvicinato a CI grazie all’agente Betulla, alias Renato Farina. Su un altro piano, risalta l’incongruenza tra gli strali riservati ai laicisti, rei di affrontare il cristianesimo con le armi della ragione e della ricostruzione storica, e le pagine in cui – per provare l’incompatibilità tra Islam e diritti umani – Allam sciorina atrocità avvenute all’epoca di Maometto, o cita brani sanguinari del Corano, proprio come farebbe Odifreddi con la Bibbia e l’inquisizione… Non è il caso di insistere, se non per esprimere un moto di ammirazione dinanzi alla capacità di conciliare la «sacralità della vita umana», da proteggere a ogni costo, e la difesa a spada tratta degli interventi occidentali in Iraq e Afghanistan.
Allam non è l’unico giornalista del «Corriere della Sera» a occuparsi di «jihad della parola», su cui offre un panorama complessivo Guido Olimpio in Alqaeda.com, dove ricostruisce con acume tecniche e tattiche informatiche della lotta al terrorismo. Ne scaturisce un modello di quanto proficuamente si possa lavorare su materiali pescati in rete, senza rifugiarsi negli assemblaggi di luoghi comuni e fonti di quarta mano che occhieggiano sulla stampa italiana. In ogni modo, non bastano tali scorciatoie e il dilagare del giornalismo embedded per ritenere definitivamente conclusa, come vorrebbero in molti, la stagione dei classici reportage dal fronte: lo dimostrano a tacer d’altro le traversie patite da molti inviati, rapiti o addirittura uccisi, come Maria Grazia Cutuli. Se un vecchio leone come Ettore Mo si rivolge alla memoria, nelle briose pagine raccolte in Ma nemmeno malinconia, vale la pena di segnalare la spregiudicatezza con cui Andrea Nicastro ha raccontato i retroscena della missione italiana in Iraq, ricavandone un volume (Nassiriya. Bugie tra pace e guerra) al quale è allegato un dvd con filmati girati dall’autore stesso sul teatro delle azioni.
Guerre a parte, sarebbe arduo dar conto di tutte le penne solferinesche che negli ultimi anni hanno reso un contributo agli scaffali delle librerie. Cosa pensare di fronte a un tale diluvio?
Stando alle severe considerazioni espresse giusto un secolo fa da Benedetto Croce (in Il giornalismo e la storia della critica), dovrebbe trattarsi di roba improvvisata, per cui occorrono «pochi scrupoli mentali» e «scarsa sensibilità estetica»; efficace e saporita se letta in colonna, scotta e deludente se riletta in volume. In realtà, fatta salva qualche arlecchinata, la qualità media appare innegabilmente alta, sostenuta da approfondite ricerche d’archivio. Su di esse si fonda il metodo di Gian Antonio Stella, tanto nella filza di ritratti satirici della classe politica italiana (aperta nel 1996 dall’irresistibile Dio Po), quanto nella Casta, che ha messo in circolo nelle vene della nazione lo storico atteggiamento ambrosiano nei confronti delle istituzioni, da sempre noto nei corridoi del «Corriere della Sera», come si evince da una lettera scritta nel 1898 dal fondatore, Eugenio Torelli Viollier, a Pasquale Villari: «Il milanese e il lombardo in genere è in Italia il popolo che più facilmente s’accende per le questioni di moralità nella vita pubblica; anzi in questa materia è propenso a malignazioni e sospetti eccessivi. Ogni lira che si spende dallo Stato inutilmente, è da ogni milanese considerata come toltagli di tasca: non c’è altro popolo che abbia più vivo il concetto del rapporto che passa fra le spese dello Stato e le fonti dell’entrate». Nel frattempo, però, la religione dei dané è scesa sino a incontrarsi con la sciasciana «linea della palma»: di qui il sarcastico accanimento di Stella e Rizzo verso i politicanti lombardi.
Sotteso alla denuncia delle ruberie e degli sprechi rimane l’elogio del fare, fortissimamente fare, al minor costo e il prima possibile, che sale in primo piano nell’ultimo volume licenziato dal duo, ovvero La deriva. Perché l’Italia rischia il naufragio. Si tratta di un attacco frontale al pubblico impiego e al sistema sindacale (già sotto il fuoco incrociato degli editorialisti), presi a emblema di un’Italia che invecchia male. Tanto più eloquente dunque il silenzio sulla piaga del precariato, alla radice del mutamento dei rapporti di forza tra le generazioni. L’obiettivo del resto è un altro: deprecare alla luce del buon senso la foresta di lacci e lacciuoli che imbrigliano ogni settore dello Stato. «Sapete che c’è? Neppure in Papuasia troviamo una situazione simile…» Dalla scuola alla giustizia, dalle infrastrutture all’energia, dagli ospedali alla politica lo schema non prevede variazioni, e agisce per accumulo, più che in profondità, giovandosi di una valanga di numeri, classifiche e percentuali allarmanti. Capito l’andazzo, il lettore finisce col saltabeccare qua e là, in cerca di qualche iperbole da rivendere scandalizzato in ufficio o agli amici.
Povera Italia, insomma. Al di là del qualunquismo, però, emerge da queste dinamiche una costante del carattere nazionale, che ha dettato il titolo a un altro libro di Allam, Io amo l’Italia: ma gli italiani la amano? Se ci si appellasse a una delle più illustri firme del «Corriere della Sera», Indro Montanelli, la risposta sarebbe inequivocabile: «Gli unici veri italiani sono gli antitaliani, cioè gli italiani che con “quella” Italia, che poi è “questa”, non ci stanno, e anche se ci restano, ci restano da stranieri». Gli italiani, si sa, sono sempre gli altri: sopra la selva di ditini alzati sfolgorano le vette dell’ipocrisia; mentre la cara, vecchia satira dei benpensanti pare divenuta merce rarissima.
Oddio, a cercare bene qualcosa si può ricavare dai libri di Beppe Severgnini, dove meno inclina al buffetto bonario verso i parvenu, sul modello di Alpinisti ciabattoni dell’ottocentesco Achille Cagna. Pettinate più energiche movimentano i pezzi di Aldo Cazzullo, che non risparmia l’ironia nel raccontare le contraddizioni della penisola, dove un euro su tre è di provenienza illegale, nelle case si contano più animali che figli, i poveri ingrassano e la domenica piazze e chiese si svuotano: sono tutti all’outlet, spinti dal miraggio dell’affarone, dal gusto di gabbare il prossimo. Le cronache di costume e società riunite in Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita costituiscono un riuscito aggiornamento della maniera di Giorgio Bocca, specie laddove Cazzullo si inoltra negli abissi della provincia; mentre il capitolo sulle città, Torino a parte, si affida un po’ troppo ai luoghi comuni. In effetti, non è dato trovare tra i libri recenti dei corrieristi (che pure – come si è visto – ne hanno trasfuso molti umori su scenario nazionale) ricognizioni persuasive sull’evoluzione e le prospettive di Milano; a fronte dell’attivismo manifestato dalla Fondazione Corriere della Sera, che in pochi anni ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano tra le istituzioni culturali cittadine, promuovendo mostre, progetti e dibattiti cruciali.
Le argomentazioni di Cazzullo muovono da un presupposto oggi universalmente accettato, per quanto logoro: ci troviamo di fronte a un rapido deteriorarsi dei rapporti sociali, in virtù di una mercificazione sempre più soffocante. Come già si predicava ai tempi del boom, del Sessantotto, dei paninari. E come sostengono puntualmente numerosi insegnanti intervistati da Marco Imarisio in Mal di scuola, un reportage che ha comunque il merito di scavare al di là dei risentimenti, per entrare nello specifico dei rapporti con studenti e genitori. I peggiori nodi da sciogliere, è chiaro, stanno in questi paraggi. Lo si comprende riprendendo in mano La famiglia in bilico, un’esemplare inchiesta di Paolo Di Stefano, che sul tema è tornato in diversi romanzi. L’ultimo, Nel cuore che ti cerca, trae spunto da un noto fatto di cronaca (la segregazione di una ragazza austriaca) per focalizzarsi sui pensieri, le speranze, i sensi di colpa della paternità. Viceversa, sono i guasti di un rapporto tra madre e figlia a innervare II digiuno dell’anima di Pierluigi Panza, dove il dramma dell’anoressia manda in frantumi il rigido decoro borghese del dopoguerra.
La rassegna di romanzieri targati via Solferino potrebbe continuare a lungo. In particolare, è significativo notare come famiglie e comunità siano in genere rappresentate senza smancerie, anzi nel preciso intento di illuminare quei tarli della normalità che sfuggono all’interesse dei saggisti, con speciale riguardo alla condizione femminile. Accade per esempio nei libri di Isabella Bossi Fedrigotti, come pure in La fabbrica delle donne di Goffredo Buccini, incisiva rappresentazione del degrado in cui vegeta un immaginario paese campano, che alle giovani operaie straniere riserva soltanto disprezzo e soprusi. In quest’ambito, è difficile trattenere un sorriso nel rilevare come le eccezioni si debbano proprio alle due punte di diamante del reparto non fiction, Oriana Fallaci e Gian Antonio Stella: feroci inquisitori di questi tempacci cupi ma inclini nel narrare all’idealizzazione del passato, sotto forma di saga familiare in Un cappello pieno di ciliege, di consolante elegia sull’Italia di una volta – povera ma bella, coraggiosa e altruista – in Il maestro magro e La bambina, il pugile, il canguro.