Da più di un quinquennio, i libri di Luciana Littizzetto continuano a ottenere un vastissimo consenso tra i lettori, non solo grazie alla popolarità televisiva del personaggio. Rivolte a un pubblico soprattutto femminile, le provocazioni della comica torinese trovano il loro punto di forza nell’arguta trasfigurazione umoristica dei minimi fatti dell’esperienza quotidiana e nell’impiego di modalità stilistiche cordialmente prive di sussiego. L’agilità di lettura, la maneggevolezza d’impianto e lo schietto carattere di intrattenimento di questi testi non impediscono d’altronde efficaci incursioni nel dibattito dei temi civili più attuali.
Nell’ormai affollato panorama delle opere di comici televisivi, le prove di Luciana Littizzetto hanno riscosso fin dal 2001 un clamoroso successo di vendite. Pubblicati in un primo tempo nella «Biblioteca umoristica» Mondadori, i libri che compongono la scanzonata «Trilogia della verdura», ovvero Sola come un gambo di sedano (2001), La principessa sul pisello (2002) e Col cavolo (2004) sono entrati tutti a far parte della collana «Oscar Bestseller», superando abbondantemente il milione di copie vendute. I dati editoriali indicano che non si è trattato di una popolarità effimera: anche il seguente Rivergination (2006) ha ripetuto l’affermazione delle opere precedenti, con una seconda edizione nei «Miti Mondadori» l’anno successivo e una posizione stabile in testa alle classifiche dei libri più letti.
Il pubblico non sembra insomma essersi stancato delle provocazioni facete della comica torinese, manifestando verso gli esperimenti libreschi il medesimo gradimento notoriamente riservato al suo lavoro in tv. Non c’è dubbio che le apparizioni settimanali dell’artista sul piccolo schermo contribuiscano molto ad assicurare la longevità del fenomeno: sarebbe sciocco negarne l’efficacia promozionale. A sfruttare editorialmente l’onda lunga del successo televisivo ha d’altronde provveduto l’ultimo Che Litti che Fazio. I duetti più divertenti di «Che tempo che fa» (2008), che nella collaudata doppia formula di libro con dvd ripropone senza variazioni di sorta gli spettacoli domenicali su Rai Tre.
Come sempre in questi casi, tuttavia, anche per la Littizzetto la visibilità mediatica non è di per sé sufficiente a motivare gli exploit sul fronte del mercato librario, tanto più che la comicità di tipo cabarettistico si avvale di mezzi espressivi che in parte esulano dalla comunicazione verbale, quale può essere veicolata dalla parola scritta. In altre parole, non è affatto detto che un personaggio televisivo si tramuti automaticamente in autore di successo: per raggiungere i lettori, è necessario mettere a punto una formula testuale che si dimostri editorialmente efficace.
Il percorso della Littizzetto come autrice è da questo punto di vista esemplare. L’artista ha iniziato la sua fortunata carriera interpretando numerose macchiette dotate di un effetto comico irresistibile: la strepitosa Sabbry, rozzissima giovane della periferia di Torino, Lolita, l’adolescente assatanata, Nives, l’improbabile pianista, Ciaociciu, la frenetica cameriera di un ristorante cinese. Solo la figura di Sabbry, tuttavia, si è felicemente adattata alla doppia veste di tormentone televisivo e personaggio di carta: poco dopo il debutto nel 1993 nella trasmissione Cielito Lindo, Sperling & Kupfer pubblica L’agenda di Minchia Sabbry, che ripercorre le avventure della strampalata eroina. Ma il vero successo in libreria la Littizzetto lo ottiene nel 2001, con Sola come un gambo di sedano, significativamente scritto durante un periodo di lontananza forzata dal piccolo schermo. Smessi i panni altrui, qui la voce di chi narra è agevolmente identificabile con quella dell’autore in carne e ossa: una soluzione che ha il pregio di semplificare il patto con il lettore, e che soprattutto consente una fruizione autonoma del prodotto librario. Anche l’individuazione dei destinatari si fa più selettiva: se le parodie sperimentate in tv si rivolgevano a un uditorio tendenzialmente generalista, le pagine della «Trilogia della verdura» s’indirizzano di preferenza alle lettrici. In nome della sorellanza e di un’esibita affinità esistenziale sarà così possibile mettere in scena una spassosa psicopatologia dei rapporti tra i sessi, dove l’affannosa ricerca dell’uomo ideale si scontra con le tragicomiche pochezze dei maschi reali. Da questo punto di vista, il pubblico dell’artista torinese è in parte assimilabile a quello della cosiddetta chick literature: donne fra i trenta e i quarant’anni, mediamente colte, propense a identificarsi nelle peripezie della ricerca del principe azzurro a patto di poterne sorridere con autoironia. Mentre il modello tipico di chick lit tende tuttavia a rappresentare con divertito realismo le vicissitudini delle protagoniste e dei loro inadeguati partner, nei libri della Littizzetto l’intensificazione della vis comica finisce spesso per virare sui toni dell’iperbole caricaturale, specie quando a essere ritratti sono esemplari maschili da incubo: «I Sapientini sono quelli che se devono comperare un paio di scarpe mandano alla neuro i commessi. Io ci ho avuto un fidanzato così. Il castigo del cielo acquistava le scarpe e poi le rodava in casa tutto il giorno successivo per verificare l’effettiva comodità del prodotto. Ma per non sporcare la suola foderava il pavimento di fogli di giornale». A stimolare questo vivace antagonismo nei confronti dell’altro sesso è del resto una consapevolezza di sé tanto assertiva quanto baldanzosa; nessun vittimismo sulla condizione donnesca, semmai una reiterata e mordace rivendicazione di autonomia: «In confidenza. Da imbecille a imbecille. Care Sheherazade che non avete ancora trovato uno straccio di sultano a cui raccontare uno straccio di storia che vi faccia passare la notte, non disperatevi. Smettete di affogarvi in cisterne di fiori di Bach e datemi retta. Quando vi sentite sconfinatamente single, quando la malinconia di essere sole vi blocca il gozzo e non riuscite più a mandar giù neanche un goccio di succo di frutta, fate così. Guardate i fidanzati o i mariti delle vostre amiche. Guardateli bene. E poi domandatevi se c’è ancora da piangere perché siete sole».
Se ridere delle magagne degli uomini è senz’altro un ottimo metodo per rafforzare la complicità con il pubblico delle lettrici, non meno efficaci sono le riflessioni semiserie sull’ordinaria fatica dell’essere donna; occasione immancabile di verve umoristica è la presa in giro degli stereotipi e dei modelli estetici a cui l’universo femminile è invitato a conformarsi: «Facciamocene una ragione. Gli uomini sono più fortunati. Possono tenersi i peli, farsi crescere i baffi, stare spettinati come lo Yeti, guardarsi in faccia e continuare a parlare mentre fanno pipì negli orinatoi delle stazioni e perfino trasudare come provole stagionate di Battipaglia perché tanto Tomo ha da puzzare. E non di bergamotto. Per noi è il contrario. A noi tocca essere fighe sempre». Un altro terreno assai fertile per sviluppare i modi dell’esagerazione parodica sono le contingenze minime della quotidianità; anche in questo caso, è l’adozione di un punto di vista femminilmente connotato a far scattare il sorriso: «C’è un segnale inequivocabile. Un’azione apparentemente innocua. Un piccolo gesto che annuncia che… ok, hai cominciato a prendere la tua vita tra le mani. E quando riesci a dire al tuo parrucchiere che il taglio che ti ha fatto fa schifo. Che persino la cavia peruviana di tua cugina è pettinata meglio. Che la frangia non te l’ha scalata, te l’ha mozzata come la coda di un mulo e che, per non dare nell’occhio, non ti rimane che metterti a ragliare». A rafforzare nei destinatari l’impressione di un dialogo tra pari, improntato a un atteggiamento di amichevolezza disinvolta, concorrono poi le scelte stilistiche: il registro adottato è vistosamente informale, dalle forti tinte oraleggianti, dove le concessioni al turpiloquio, più che a un intento dissacratorio, obbediscono alle esigenze di mimesi del parlato corrente e di una comunicazione allegramente disinibita. Ciò non significa affatto che i monologhi della Littizzetto manchino di inventiva linguistica: al contrario, l’effetto comico è garantito proprio dalla briosa profusione di associazioni buffe o irriverenti, per lo più scatenate da oggetti e fatti quotidiani. Una delle tecniche privilegiate è una sorta di accumulazione iperbolica, dove il medesimo concetto è replicato attraverso una serie di immagini sinonimiche via via più esilaranti: «Ho un desiderio. Profondo. Almeno una volta nella vita poter vedere un film dell’orrore in cui l’eroina non sia una demente. […] In una pellicola classica il mostro assassino comincia a perseguitare la disgraziata dopo pochi secondi. E noi, senza essere discepoli di Lombroso, lo identifichiamo già dal primo fotogramma. Lei invece, l’ottusangola, non se ne accorge. E dire che non è difficilissimo. Il maniaco, combinazione, ha tre mani, le sopracciglia cespugliose come il Parco della Rimembranza, due canini esagerati e quasi sempre sanguinanti, ha amici licantropi e sviene ogni volta che sente pronunciare il nome di Maria».
La radice del meccanismo umoristico risiede insomma nella trasfigurazione faceta delle esperienze generazionali più ordinarie; se le proverbiali incomprensioni nei rapporti tra i sessi offrono gran parte del materiale comico, l’ironica messa a fuoco dell’universo dei consumi e della comunicazione mediatica può regalare vere e proprie perle, come quella che conclude questa nostalgica riflessione sull’infanzia: «Io ci avevo la Tanja al posto della Barbie. Un mostro castano pettinato come Nicoletta Orsomando».
La sintonia empatica con un pubblico assai ampio non si fonda solo sulla risonanza condivisa dei temi trattati: ad appianare i meccanismi di lettura provvede anche una drastica semplificazione della compagine narrativa. Frutto di un atteggiamento comunicativo cordialmente disimpegnato, a metà tra la confessione e la chiacchiera, i monologhi della Littizzetto si strutturano in capitoletti molto brevi, due o tre pagine al massimo, liberamente disposti secondo un criterio di eterogeneità fortuita, così che ogni capitolo svolga un apologo umoristico a sé stante. Un impianto di questo tipo presenta parecchi vantaggi: la brevità delle sequenze facilita la concentrazione e il frazionamento dei tempi di lettura, mentre la casualità del montaggio, mutuata dalla rapida successione degli sketch televisivi, favorisce un consumo del prodotto librario sciolto da obblighi di consequenzialità. Ma l’adozione di una costruzione aperta e priva di intreccio ha anche il pregio di prestarsi a una serialità virtualmente illimitata: tutte le opere della Littizzetto presentano la medesima struttura, configurandosi come compendi ampliabili all’infinito di microstorie, scenette e battute.
Il rischio di usura è insito semmai in un repertorio tematico fatalmente circoscritto: non a caso, gli ultimi libri affiancano alle consuete riflessioni sui guai della vita di coppia significative prese di posizione su argomenti di attualità civile, specie sulle questioni controverse dei diritti e della laicità dello Stato. Così suona un’ottimistica esortazione al governo di centrosinistra: «E poi occupatevi dei Pacs. Spiegate bene che non sono una minaccia per la famiglia. Pacs significa Patti civili di solidarietà. Son tre belle parole, patti, civili e solidarietà. Anche abbastanza in disuso. Non è che Pacs vuol dire “Pronti al casino sempre” o “Porcelli amanti come sposati” o “Pisquani ammonticchiati a schifio”». Più che di satira politica, si tratta della naturale evoluzione di una vena comica da sempre nutrita di combattivi umori postfemministi. Proprio la sostanziale estraneità dell’intrattenitrice torinese alla tradizione della comicità politicamente impegnata ha permesso una diffusione assai ampia di argomentazioni e parole d’ordine capaci di raggiungere anche il pubblico meno attento e meno informato.
Così anche le variazioni nella struttura delle performance non ne intaccano l’efficacia comunicativa: nell’ultimo libro i dissacranti monologhi dell’attrice sono intervallati dalle obiezioni fintamente scandalizzate di Fabio Fazio, che assume il classico ruolo di spalla, con l’effetto di enfatizzare le pungenti canzonature della classe dirigente e dei ricchi e famosi. Nutrita di un solido buon senso di fondo, l’irriverenza della Littizzetto coglie quasi sempre nel segno: di qui il successo di una comicità tanto arguta quanto largamente accessibile.
A dimostrarlo basterebbero i lusinghieri dati di vendita di Rivergination, che in quarta di copertina reca una strepitosa foto dell’autrice bambina vestita da prima comunione, o le prese in giro del cardinale Ruini, presto diventate un tormentone, di fatto una delle pochissime voci contro le ingerenze ecclesiastiche che abbiano avuto spazio sul piccolo schermo. E, di questi tempi, non è poco.