Napoli come epicentro di un neomodernismo barbaro. Luogo diffuso in cui economia e delinquenza camorrista si saldano senza residui. E un giovane che, a cavallo di una Vespa, scruta ogni mossa dei clan, ne evoca i massacri, disposto a fare i nomi, rendendo il proprio dire un’arma che non si concede prigionieri. Gomorra e la moglie di Lot, colei che ha saputo voltarsi per contemplare la rovina. Queste le immagini e le strategie civili adottate da Roberto Saviano, non senza ansie e dubbi esistenziali, ma certo che i modelli a cui attinge consentono di diffondere con il massimo scandalo la verità.
Testimoniare senza reticenze, condividere, esplorare con occhio vigile: sembrerebbero questi i fattori decisivi per un libro potente e inquieto come Gomorra (2006). I viaggi che vi si contemplano, e che il sottotitolo richiama, si snodano entro un perimetro ristretto, domesticamente ribadito nei giorni di massacro camorristico quanto nelle pause meditabonde, necessarie a comporre un’ansia viscerale con opportune strategie di resistenza:
«attraversavo con la mia Vespa questa coltre di tensione»; «mi è sempre piaciuto girare con la Vespa nelle straducole che costeggiano le discariche». Solo la perlustrazione diuturna, la consuetudine con un habitat devastato del malaffare consentono il monito più caratteristico delle pagine savianesche, capire cioè «come funzionano le cose», «farne parte», una volta assodato che la «neutralità e la distanza oggettiva» altro non sono se non camuffamenti intrisi di astrattezza condiscendente. Ma soprattutto capire, comprendere, cogliere «l’alito del reale», nel solco di un profetismo semireligioso e magari anche titanistico, romanticheggiante, a cui il narratore e palombaro sociale si affida d’altronde in spirito sottomesso, quasi si trattasse di un ufficio imposto.
Confesso di aver incontrato qualche difficoltà nell’assumere appieno i valori civici che questo napoletano nemmeno trentenne mi veniva proponendo. Un primo assaggio di lettura era fallito dinnanzi al capitolo di esordio, stucchevolmente infarcito di colori giornalistici e di immagini a sensazione: cadaveri stipati «come aringhe in scatola», navi da carico che si accostano alla darsena «come cuccioli a mammelle», il porto «come un ano di mare che si allarga con gran dolore degli sfinteri», il golfo antistante come «un’enorme vasca di percolato». A pagina 25 avevo messo il segno, poco convinto di una gergalità consunta, di una sintassi franta e americaneggiante che proprio nell’eccesso di ornato lasciava trasparire le troppe mani editoriali intervenute a conforto di una scrittura altrimenti piatta e aridamente comunicativa.
Poi, in altro tempo e per un rimorso professionale, l’esame era ripreso, rivelando più della cronaca e delle sue crudezze mozzafiato la corposità problematica del personaggio cronista. Non che egli dica molto di sé: nulla sul piano degli affetti, quasi nulla dell’ambito lavorativo. Ma di là da un’origine mediocremente borghese, e da una cultura umanistica che non si nasconde e non si compiace, due momenti topici ce ne rendono ragione. Il trauma della violenza cittadina, vissuto in età ancora adolescente, e la figura paterna, appena emersa tra la folla romana eppure didascalicamente compiuta nel suo grumo di frustrazioni e di velleità virili. E più in dettaglio: il membro eretto del cadavere incontrato per via, lo sputo sprezzante del carabiniere, la passione per le armi di un padre oltraggiato dalla camorra, la sua assenza di autorevolezza dinnanzi a una nuova moglie e a un nuovo figlio.
Episodi sparsi, richiamati con parsimonia dall’io narrante, ma utili a suggerire da quale fondo reattivo emerga il suo atteggiamento di persona civilmente partecipe. A quale urgenza di sublimazione intellettuale obbedisca il conflitto che egli muove al proprio tempo; preda com’è di una solitudine certamente attivistica e agguerrita, ma niente affatto esente da nevrosi olfattive e tattili (l’odore delle donne camorriste percepito ai processi, i polpastrelli delle dita che si muovono sulle vetrine maculate dalla mitraglia). Molti, in realtà, sono i luoghi che piegano il discorso su una china ansiosa e impreveduta. Alla notizia di un’ennesima vittima sul lavoro, lo sdegno del protagonista è veemente, quasi patologico: «con la morte di Iacomino mi si innescò una rabbia di quelle che somigliano più a un attacco d’asma piuttosto che a una smania nervosa»; «una vera perversione» lo accompagna nei moti di quotidianità più banale: «non riesco proprio a scordarmi come funziona il ciclo del cemento quando vedo una rampa di scale». E lo stesso impegno a testimoniare in prima persona la strage che si va compiendo della legalità e della buona convivenza non è scevro di coloriture autodistruttive: «nell’inutile battaglia in cui sei certo di ricoprire il ruolo di sconfitto, c’è qualcosa che devi preservare e sapere. Devi essere certo che si rafforzerà grazie allo spreco del tuo impegno che ha il sapore della follia e dell’ossessione».
E evidente lo stato psichicamente sovreccitato di colui che scende nell’inferno camorrista, il suo dominio malsicuro delle pulsioni etiche che sta suscitando. Tuttavia non i disturbi emotivi affollano la pagina, non i proclami furenti, bensì gli sforzi di conoscenza e il costante appello alle risorse di una ragione indagante. Nel nesso tra testimonianza diretta, analisi saggistica e racconto, è ben vero che affiora una didattica dei casi più atroci: il Lazzaro di Miano, le morti innocenti di Gelsomina Verde e Annalisa Durante, le torture inumane che si infliggono gli affiliati dei clan contrapposti. E però un insieme di accorgimenti documentari a renderne autorevole la voce, non l’indulgere a una retorica del macabro e dell’efferato. Le verità che egli si incarica di testimoniare si fondano su esperienze dirette e notizie ufficiali; ai testimoni di cui resta traccia orale (il gruista del porto, Xian Zhu, l’ex sarto Pasquale) si assommano più numerose le dichiarazioni dei pentiti, le intercettazioni, le risultanze della Direzione nazionale antimafia, della Procura napoletana; le analisi condotte da enti privati come l’Osservatorio sulla camorra, il Gruppo Abele, le stime di Legambiente sullo smaltimento illegale dei rifiuti. La mozione sia pure negativa degli affetti, e lo stesso sovraccarico sensibilistico e artificioso dei tropismi, sempre paiono controbilanciati dall’esattezza delle statistiche, delle quantità in gioco. Viene chiamato in causa un sapere complesso, ma non specialistico, anzi a disposizione di chiunque voglia sul serio «sapere»: unico rimedio per non soccombere a un disordine abissale, a un diffuso senso di morte che il sistema criminoso alimenta senza sosta.
Forte di simili strumenti, il cronista savianesco si inoltra nei territori della napoletanità profonda, tra «aziendalisti violenti», «samurai» del conflitto economico e «manager killer». Con ardimento dissimulatore visita Las Vegas, il triangolo sino-americanista a nord del capoluogo dove si coltiva «il sogno orizzontale» di un post-fordismo rapace; landa fantasmatica in cui le fabbriche cinesi in Italia entrano in diretta concorrenza con le fabbriche cinesi in Cina, emarginando i comparti tessili di Prato, di Roma, delle tante Chinatown sparse lungo la penisola. Una modernizzazione brutale si viene rappresentando in queste pagine, ma sempre frutto di una filogenesi sociostorica anziché di un salto inatteso. Lo stesso irraggiamento tentacolare dei clan camorristici oltreconfine trae spunto da logiche più antiche, dai magliari, dai «venditori che dopo la Seconda guerra mondiale avevano invaso mezzo mondo macinando chilometri». Tradizione e innovazione selvaggia si corrispondono in modo inquietante, facendo dell’area partenopea l’apice estremo nel tragitto verso il neomoderno. Non già luogo dell’eterno folclore, anzi breccia casalinga tramite cui penetra ciò che ci ostiniamo a considerare «lontano», le genti dell’Asia, le loro merci, i loro costumi appartati e inassimilabili.
Uno, invero, è l’assunto categorico: l’inestricabile frammischiarsi di illegalità delinquente e fervore d’impresa; quasi che i princìpi di Adam Smith e del libero mercato abbiano avuto un’applicazione massima proprio nei territori in maggior debito di sviluppo. E con una fondamentale ricaduta sul piano di una società opulenta diffusa, giacché i «prodotti che prima erano appannaggio della borghesia medio-alta» divengono, «attraverso l’importazione della camorra napoletana, accessibili a un pubblico più vasto». Allo stesso modo va per la cocaina, «in passato droga d’élite», e ora «grazie alle nuove politiche economiche dei clan assolutamente accessibile al consumo di massa».
Si potrà discutere sulla modernità, sulla primazia italiana e addirittura continentale di un potere che si basa sul cemento, sull’edilizia, sugli appalti. Ma limpidissimo e più volte ribadito è l’orgoglio del centro: «qui – scrive Saviano, forse sedotto letterariamente da Conrad – è il cuore d’Europa. Qui si foggia la maggior parte dell’economia della nazione». Davanti alle rovine civili di Secondigliano, «molti cronisti credono di trovare il ghetto d’Europa, la miseria assoluta. Se riuscissero a non scappare, si accorgerebbero di avere dinnanzi i pilastri dell’economia, la miniera nascosta, la tenebra da dove trova energia il cuore pulsante del mercato». E non senza un moto politico di sconforto, di virile e compartecipe disincanto al pensiero dei gregari e delle vittime adolescenti, giacché tutti «erano cresciuti nella Napoli del Rinascimento, nel percorso nuovo che avrebbe dovuto mutare il destino degli individui».
Difficile stabilire quanto vi sia di postpolitico e quanto di prepolitico, di preparatorio, nell’accorata perorazione savianesca. Certo è che in assenza di prospettive a breve o a medio termine più alta si leva una protesta fondata sulla parola pubblica, di cui il cronista/narratore fa uso instancabile e che insieme celebra con romanticismo inorgoglito. «Pensavo – scrive – alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere»; e ancora, lungo una medesima linea di protagonismo accorato: «riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola», e per suo tramite «inseguire come porci da tartufo le dinamiche del reale», aggredendone i nodi occulti e le risultanze più atroci «con la sola lama della scrittura». Il conforto massimo che una simile attitudine gli garantisce è senz’altro la consapevolezza, il pregio del riconoscimento, e non solo di sé, di sé nel rapporto con gli altri, ma dell’evo tragico in cui l’io viene collocandosi. Giacché in terra di camorra «conoscere i meccanismi di affermazione dei clan, le loro cinetiche d’estrazione, i loro investimenti significa capire come funziona il proprio tempo in ogni misura e non soltanto nel perimetro geografico» entro cui tocca di vivere.
E tuttavia spiccatamente esistenzialistico il fine a cui lo sforzo intellettuale e scrittorio di Saviano mette capo. L’urgenza di conferire un senso alla propria inchiesta, di trascenderla a favore di un ethos magari umile ma robusto, si addensa in brani di dubitazione continua e insoddisfatta. «Non capivo davvero perché avevo ancora una volta scelto di andare sul posto dell’agguato. Di una cosa ero certo: non è importante mappare ciò che è finito, ricostruire il dramma terribile che è accaduto. E inutile osservare i cerchi di gesso intorno ai rimasugli dei bossoli che quasi sembrano un gioco infantile di biglie. Bisogna invece riuscire a capire se qualcosa è rimasto. Questo forse vado a rintracciare. Cerco di capire cosa galleggia ancora d’umano; se c’è un sentiero, un cunicolo scavato dal verme dell’esistenza che possa sbucare in una soluzione, in una risposta che dia il senso reale di ciò che sta accadendo.» L’umano, l’esistenza, il cunicolo che dà accesso ai fatti e a un loro decorso diversamente orientato; di qui discende l’obbligo di una parola, e di una scrittura, evangelicamente intesa allo scandalo ma mai soddisfatta di se stessa: «Mi tormentavo, cercando di capire se fosse possibile tentare di capire, scoprire, senza essere divorati, triturati. O se la scelta era tra conoscere ed essere compromessi o ignorare – e riuscire quindi a vivere serenamente».
Di là dai rinvii multiculturali che pure affiorano nelle pagine, due sono i modelli espliciti per un civismo tanto tormentato; e forse un terzo, di cui Saviano difficilmente ha potuto ignorare l’esistenza. Anzitutto Pasolini, non «un santino laico, né un Cristo letterario», ma un testimone incomodo e tuttora implacato alla cui tomba il cronista si reca come già il poeta delle Ceneri presso quella di Gramsci. Il momento è delicatissimo: in un accesso di rabbia vendicativa, accanto a lui si è profilata l’ombra di Bianciardi e della sua Vita agra, eco di un attivismo anarchico e dinamitardo pronto alla sconfitta. «Mi rimbombò nelle orecchie l’“Io so” di Pasolini come un jingle musicale che si ripeteva sino all’assillo. E così invece di setacciare palazzi da far saltare in aria, sono andato a Casarsa.» Solo in extremis la polemica fondata sulla parola pubblica prevale dunque sulle tentazioni pure latenti di estremismo velleitario. Ed è allora, con curioso, implicito, apologetico ribaltamento, che prende massimo rilievo la strategia nominalistica, la più coraggiosa e gravida di conseguenze per il giovane scrittore. Con studiatissima retorica, nel celebre pezzo corsaro dedicato allo stragismo nazionale Pasolini dichiarava ossessivamente di sapere i nomi dei responsabili e dei politici conniventi, ma di non avere le prove, e dunque di non poterli fare. Saviano, mentre richiama alla memoria dei concittadini il modello indomito del casarsese, ne mutua sì gli artifici verbali di ordine anaforico, ma ne capovolge senza esitazioni gli esiti reticenti. In Gomorra i nomi ci sono eccome, tutti quanti, perché «io so e ho le prove. E quindi racconto»; «io so e ho le prove. E le prove hanno un nome»; «perché io so. Ed è una perversione»; «io so e ho le prove. Non faccio prigionieri».
Ciò avviene d’altronde in forza di un secondo e più cogente exemplum di polemismo civile, fornito stavolta da don Peppino Diana, parroco di Casal di Principe assassinato a trentasei anni.
Lui il vero esempio di un fare verbale ma non verbalistico, concreto, trascinante; lui l’artefice di una parola anchesì consacrata ma risolutamente a ridosso del secolo, «necessaria come una secchiata d’acqua sugli sguardi imbrattati». Una parola al cui centro, chissà se per una reminiscenza di Vonnegut e del suo Mattatoio n. 5, sta la figura della moglie di Lot, colei che nonostante una promessa di morte ha saputo voltarsi verso Gomorra in procinto di essere distrutta. «Dobbiamo rischiare di divenire di sale – ammoniva don Peppino dal pulpito -, dobbiamo girarci a guardare cosa sta accadendo.» Lo stesso atto compiuto da Giancarlo Siani, giovane cronista del «Mattino» ucciso dalla camorra nel 1985, e di cui il napoletano Antonio Franchini ha esumato la figura nel romanzo verità dal titolo L’abusivo. Sta qui il terzo, possibile modello per Saviano: una riflessione non accomodante sulla scrittura e sul suo potere di intervento presso una realtà inaccettabile. Non una scrittura in genere, ma una scrittura civile, da opporre alla vanagloria della prosa umanistica, luogo in cui si celebra «l’inutile sensibilità delle parole, la fatua ermeneutica alla quale fin da ragazzo mi volevo dedicare e che vivendo ho in qualche modo patito, appreso, desiderato espiare». Così scriveva Franchini, e se anche Saviano si congeda da noi con la più effettistica e cinematografica delle formule, «Maledetti bastardi, sono ancora vivo!», non è detto che non abbia saputo farne tesoro.