Nuove oligarchie elettroniche. Il sapere universale ha fatto click, ed è nato il più grande editore del futuro: uri agenzia pubblicitaria. I potentati dell’educational e del professionale ci aiutano a capire «di cosa parliamo quando parliamo di libri». Il marketing e i social network: c’è la bacchetta, però manca ancora la formula magica per scuotere il consumo di lettura. Tramonta lentamente il mito dei nuovi mercati.
Mentre Barack Obama voltava la prima pagina del new deal americano, nello stesso paese un altro deal – tra i più grandi nel suo genere in tutta la storia dell’editoria – segnava il vero anno zero della smaterializzazione del libro. La data, il 28 ottobre 2008: un momento poco propizio perché le cronache registrassero la nascita del più potente editore del mondo.
Ma tant’è. Dopo sette milioni di libri passati allo scanner e raccolti in un’immensa libreria virtuale, Google ha messo sul piatto 125 milioni di dollari per risolvere la controversia che lo opponeva da tre anni sia all’Association of American Publishers (Aap) rappresentata in tribunale da McGraw-Hill, Pearson Education, Penguin US, John Wiley e Simon & Schuster, ovvero alcuni tra i pezzi da novanta dell’editoria educational e professionale del mondo -, sia all’Authors Guild, il temibile sindacato degli autori americani. L’accordo è fatto, con piena soddisfazione delle parti: il diritto d’autore dei libri contenuti in Google Book Search, un milione di testi in catalogo, altri milioni fuori catalogo ma ancora sotto diritti, sarà d’ora in poi riconosciuto economicamente. Il motore di ricerca più diffuso del pianeta (oltre il 60% di chi usa Internet passa da lì), l’alfiere del libero accesso alla cultura, è sceso a patti con i propri princìpi etici (che però non contemplavano il copyright) e ha quindi accettato di «vendere» la lettura online dei titoli in questione, di tenersi un terzo dei proventi e dare i due terzi ad autori e editori. La contabilità sarà affidata a un organismo indipendente non profit, il Book Rights Registry, creato ad hoc; gestirà i diritti d’autore e il registro di chi, autori o editori, vuole essere in catalogo e di chi no. L’accesso al programma è gratuito per le biblioteche, a pagamento per enti, organizzazioni, college e università. Per i singoli utenti si sta ancora discutendo: per adesso i libri acquistati restano su un apposito scaffale virtuale all’interno del proprio account, ma è ragionevole pensare che presto i file saranno scaricabili sul computer di casa.
Cosa c’è di così importante in questa faccenda? La smaterializzazione del libro, il suo passare dalla carta ai vari formati digitali, alimenta da una decina d’anni la speranza in un potenziale allargamento del mercato. Così non è stato. Quello che doveva essere l’applicazione killer, il reader portatile pensato come gadget tecnologico, non sta al libro come l’iPod alla musica, non raggiungerà mai quel successo, quei volumi di vendita, quello status sociale che ha fatto la fortuna di Apple e affondato il mercato dei cd musicali. Neppure alla terza, sofisticata, generazione tecnologica degli e-book (2007/2008); neppure quando Amazon, la più grande libreria del mondo, il 12% del mercato americano, ha giocato lo scorso anno la carta di Kindle, un reader creato per legare gli acquirenti al proprio sito, dove i libri possono essere comprati solo lì, ma garantendo agli editori una macchinosa procedura che rende impossibile lo scambio gratuito su Internet e quindi la salvaguardia del copyright. Su Kindle, infatti, i testi in pratica si «noleggiano», non si possono scaricare su un computer: in altre parole, si resta sempre online, non si è mai in possesso di un file-libro. Né si può caricare qualsiasi altro formato di e-book, e anche copiare un semplice file di Word richiede una certa competenza. Il Sony Reader, molto più flessibile e aperto di Kindle, si è diffuso solo nella nicchia degli addetti ai lavori e, insieme ai concorrenti di terza generazione (iLiad, Cybook ecc.), è impastoiato da un problema enorme e irrisolto: la mancanza di uno standard comune. Per di più, nessuno dei produttori di questi aggeggi ha mai dichiarato quanti ne siano stati effettivamente venduti, e quando manca un dato di questo tipo, capace di spingere le vendite, creare potere contrattuale con i possibili partner e dare un contributo al valore azionario, vuol dire che di libri elettronici se ne sono venduti pochi, troppo pochi per dirlo. In questa situazione arriva l’accordo tra la l’Aap, l’Authors Guild e Google. Il Profeta del net, sempre due passi avanti agli altri, entra legittimamente nell’editoria libraria con la benedizione di autori e editori americani, perché ha creato – in parte a spallate, in parte grazie a un intuito visionario autofinanziato con grande generosità – qualcosa di nuovo: un sistema e, potenzialmente, un nuovo mercato.
Google Book Search è di fatto un editore, il primo del mondo se pensiamo al numero dei volumi della sua library e al potenziale distributivo, di contatti e servizi a cornice del misterioso algoritmo che ha fatto il successo del motore di ricerca. Google è il primo vero editore elettronico della storia dell’editoria: ha preso milioni di testi e li ha riconfezionati in digitale in modo del tutto autonomo, a sue spese. I libri elettronici di Google non sono file comprati o ceduti dagli editori, ma libri forniti, e passati a un sofisticato scanner, dalle principali biblioteche mondiali (finora sono ventisette, da quella di Harvard alla New York Library, e molte tra le più importanti negli Usa, Spagna, Svizzera, Germania e Giappone), e editati in un nuovo formato digitale; né più né meno di quello che fa un editore specializzato nella riedizione di libri in formato tascabile o un club del libro. Con una marcia in più: fornisce un servizio che nessun altro può dare. Oltre un milione di libri sono infatti già consultabili full text, e presto lo saranno tutti; di altri si potevano leggere solo estratti o sommari, ma con il nuovo accordo sono tutti disponibili nella loro integrità, anche se per quelli sotto diritti bisognerà pagare qualcosa. Per molti titoli sotto copyright, invece, è garantito il libero accesso a non più del 20% del testo, abbastanza per avere un’idea del contenuto. Google ha effettivamente creato un nuovo mercato, rivolto per adesso a studenti, studiosi, professionisti e biblioteche, che non a caso sono le grandi sostenitrici del progetto, vuoi per ragioni ideologiche (l’accessibilità del sapere), vuoi per ragioni gestionali. Ma è chiaro che l’idea è quella di raggiungere tutto il pubblico, il lettore universale. E proprio per questo il sistema Google permette ad autori e editori di poter ricevere royalty da libri di fatto irreperibili o ufficialmente fuori catalogo, o di poter pubblicare titoli a bassa tiratura distribuiti solo su questo canale, evitando i costi di produzione e distribuzione. Non sarà la transitorietà dei bestseller a dare energia cinetica a Google Book Search, ma le potenzialità di un sistema e di una rete di relazioni che distribuisce qualsiasi libro, in qualsiasi parte del mondo, nelle principali lingue, con un solo click.
Ormai pienamente «legalizzato», Google Book Search è il primo editore mondiale di libri «smaterializzati», e sarà un protagonista imprescindibile del futuro editoriale. Capire chi è adesso rende l’idea: Google è un’enorme agenzia pubblicitaria. Nel 2007 il suo fatturato è stato di 20,92 miliardi di dollari, ovvero il valore di tutti i mercati europei del libro messi insieme, con un reddito netto (net income) di 5,11 miliardi di dollari, pari al 24,4% del fatturato, una percentuale che per l’editoria libraria tradizionale è un sogno. E, soprattutto, non ha concorrenti in un servizio senza equivalenti per ruolo strategico. Inoltre Google non ha debiti, ha oltre 20.000 impiegati, il 99% del fatturato deriva dalla vendita di spazi pubblicitari – visto che il 63% (secondo il «Financial Times») del solo traffico americano delle ricerche su Internet passa dal suo portale – e ha una fidelizzazione molto radicata tramite Gmail, Google Maps, Google Earth e YouTube (acquisita per 1,65 miliardi di dollari), solo per citare i suoi assi più conosciuti, e decine di altri servizi, incluso un nuovo browser che potrebbe mandare in cantina tutti quelli in uso adesso. Alcuni osservatori sostengono che Google abbia comprato l’accordo per un piatto di lenticchie – e a vedere i suoi dati finanziari è probabilmente vero – e che per Aap e Authors Guild non c’erano molte alternative, visto che la potenza dell’azienda e il dato di fatto, sette milioni di titoli, parlavano da soli. E questa è la parte inquietante. Da oggi Google apre l’epoca dei libri elettronici su grande scala, mischiando le funzioni di editore a quelle di libraio, bibliotecario e distributore. Ma vive di pubblicità, e anche i libri gli servono per veicolarla: tuttavia, secondo l’accordo, i proventi realizzati dagli avvisi pubblicitari posizionati accanto alle pagine dei libri saranno divisi con lo stesso criterio, 37% al motore di ricerca, 63% ad autori e editori: con questo Google incassa un’altra benedizione degli editori. Non è difficile immaginare quanto possa diventare ingombrante la sua presenza nell’editoria, sostenuta, almeno a parole, dalla sua ambizione prometeica di realizzare il mito della conoscenza universale, un atteggiamento ideologico che sta generando pesanti inquietudini. Ci si chiede: è prudente che un soggetto privato, monopolista della ricerca su Internet, concentri nelle sue mani la più vasta accessibilità al sapere – anche quello tecnico e scientifico – oltre a una biblioteca che per numero di volumi è la terza nel mondo, dopo la Library of Congress e la British Library? Gli editori vedono a ragione Google Book Search come una grande opportunità; al tempo stesso non ha senso chiedersi se possa condizionare il mercato nei prossimi anni, ma solo in che modo e con che tempi lo farà (Randall Stross, Planet Google: How One Company’s All-Encompassing Vision Is Transforming Our Lives, 2008; Jean-Noel Jeanneney, Quand Google défie l’Europe, 2006).
Guardiamo ora a chi se lo trova come concorrente nel proprio ramo d’affari. Le librerie online, Amazon prima fra tutte. Per esempio, cosa starà pensando Amazon del proprio futuro digitale, un futuro in cui crede, visto che si è lanciata con entusiasmo nella realizzazione di Kindle? Come potrà competere con un «sistema» come quello di Google al quale basta girare un interruttore per poter vendere i file-libro che crescono, per ora, al ritmo di due milioni l’anno? Per avere un termine di confronto, un colosso come Amazon ha un fatturato di 18,12 miliardi di dollari, lo stesso numero di impiegati di Google, ma un reddito netto di «soli» 626 milioni di dollari e circa 1,3 miliardi di debiti: troppo pochi per mettere in pista progetti seriamente competitivi.
A questo punto sono necessarie delle distinzioni, e per farle torniamo alla tradizionale editoria cartacea, perché – con l’ingresso del digitale – quello editoriale è un mercato complesso e dalle molte sfaccettature, e perché bisogna tener presente che ciò che succede negli Stati Uniti – il primo mercato librario – prima o poi si diffonde nel resto del pianeta.
La porzione di mercato percepita da un normale lettore, utente di libreria, è quella della fiction, della saggistica e della varia. Come abbiamo visto, il libro elettronico portatile non è diventato un fenomeno di massa e, data la palese impossibilità di leggere un romanzo al computer, tutto il discorso su Google potrebbe sembrare eccessivo. La classica lettura di un romanzo potrebbe quindi restare ancora per parecchio tempo su carta. Ma sappiamo che i comportamenti di lettura sono in rapida evoluzione e i ragazzi non hanno diffidenza verso i testi proposti su uno schermo. Al tempo stesso, la capacità di lettura di testi lunghi è in costante flessione, come aveva anticipato negli anni novanta il sociologo Jean Claude Passeron e come ci avvisa la neuroscienziata cognitivista Maryanne Wolf (Proust and the Squid, 2007), perché la lettura è una delle attività tra le più complesse che il nostro cervello deve affrontare e va tenuta in costante allenamento. Un allenamento che per le nuove generazioni non vuol certo dire lettura ludica, di intrattenimento, ma scuola, università, studio, aggiornamento professionale.
Detto questo, a che lettura si dedicheranno, prevalentemente, i giovani occidentali di domani e le nuove generazione nate in Cina, India, Russia e Brasile, i paesi che l’editoria vedeva come l’Eldorado dei «nuovi mercati», dove espandersi e vendere i propri libri? Leggeranno prevalentemente libri scolastici e testi di studio e aggiornamento, tecnici, scientifici, medici e giuridici, perché l’imperativo è quello di guadagnarsi un posto al sole in un mercato del lavoro sempre più competitivo e globalizzato.
Proprio da questa prospettiva, quando ci chiediamo «di cosa parliamo quando parliamo di libri», e quindi della loro smaterializzazione, un dato evidente ci viene dall’identità dei big dell’editoria planetaria, i Mogul del libro.
La seconda indagine condotta sull’editoria libraria mondiale da Rudiger Wischenbart Content and Consulting (2008) mette in fila i 75 editori che, nel mondo, fatturano almeno 100 milioni di euro: per l’Italia, in classifica solo Gems, Mondadori, Rizzoli e De Agostini.
Cosa salta all’occhio da una classifica di questo tipo? Che il Pianeta Libro è un iceberg. Le grandi sigle che vediamo nelle librerie italiane e internazionali non sono la leadership dell’editoria mondiale. I più grandi editori del mondo lavorano sotto la linea di galleggiamento e sono al timone della scolastica e dell’editoria professionale scientifica, tecnica e medica. Sono loro i messaggeri del sapere globale, loro che producono e diffondono testi che, per forza di cose, hanno un ruolo determinante nell’amministrazione della conoscenza e nella formazione delle coscienze civili e politiche.
Nella top ten, che per fatturato rappresenta il 51% del mercato mondiale del libro troviamo, nell’ordine, Thomson Reuters, Pearson, Bertelsmann, Reed Elsevier, Wolters Kluwer, Hachette Livre, McGraw-Hill Education, Reader’s Digest, Houghton Mifflin, Planeta/Editis, Scholastic. Thomson, canadese, di proprietà familiare, ha un fatturato di 5 miliardi di euro ed è leader incontrastata dell’editoria professionale. A poche lunghezze segue Pearson, la casa editrice del Gruppo Penguin, 4,8 miliardi di euro di fatturato riconducibili in gran parte alla scolastica, di cui è regina mondiale: i libri col pinguino sui banchi delle librerie sono solo una frazione, il 15% a valore, della divisione libri. Bertelsmann (4,4 miliardi) con Random House è la più grande casa editrice di varia e ha ceduto già da qualche anno a una banca d’affari una star del professionale come Springer, all’epoca la prima casa editrice tedesca. A seguire, però, due colossi anglo-olandesi del professionale (Reed Elsevier, 4,2 miliardi, e Wolters Kluwer, 3,4 miliardi), quindi Hachette Livre, che ha comunque una forte attività nella scolastica e, ancora, altri leader dell’educational come McGraw-Hill, Houghton Mifflin Harcourt e la stessa Pianeta, che con la recente acquisizione di Editis si è assicurata una fetta del business dell’istruzione (e il decimo posto nella top ten). Anche in Giappone la prima casa editrice della seconda economia mondiale e del terzo mercato librario mondiale è Shogakukan: scolastica, reference, dizionari ed enciclopedie.
Se consideriamo che il valore globale del mercato del libro è di 70 miliardi di euro circa (Ipa-Uie), i primi dieci gruppi editoriali della nostra classifica realizzano il 51 % della cifra d’affari totale, e di questa somma il 50% circa è editoria professionale, il 30% scolastica e il 20% editoria «generalista», più o meno quella che troviamo in libreria. Il cuore pulsante del mondo del libro è dunque nelle mani di pochi, e questi pochi amministrano i testi prodotti dalla ricerca scientifica, i reference, le interpretazioni giurisprudenziali e i testi scolastici di riferimento per gran parte della gioventù planetaria. Dietro le quinte, dunque, un’editoria libraria sconosciuta ai più lavora con un ruolo non certo secondario all’elaborazione della conoscenza, alla formazione della coscienza politica e sociale, e quindi all’amministrazione del consenso in maniera molto più determinante di quanto possano fare i libri che compaiono nelle classifiche dei bestseller. Bisogna poi tener conto che alcuni di questi colossi del sapere sono in mano, come si vedrà più avanti, a banche d’affari: società per nulla interessate alla cultura e a un’etica coerente con l’oggetto dell’investimento, che guidi i comportamenti strategici e industriali.
Quanto pesa l’editoria elettronica per i super editori? Moltissimo. Alcuni esempi. Per la numero uno Thomson Reuters, testi e servizi in formato digitale rappresentano l’88% delle vendite. Wolters Kluwer è un pioniere del settore: leader dell’informazione medica e fiscale, già nel 2001 aveva imboccato la strada del digitale, nel 2004 era un terzo delle sue vendite, oggi oltre il 65%. Sempre nel 2004 Elsevier lancia un programma per le università pensato per integrare l’online con i testi cartacei, tanto da avere oggi interi settori del catalogo solo online; nel 2006 Springer Science (quasi un miliardo di euro di fatturato, già di Bertelsmann e ora in mano alle banche d’affari Cinven e Candover) decide di mettere tutte le riviste e i libri online, 100.000 titoli, 5.000 novità l’anno, e di venderli in formato elettronico e senza vincoli Drm.
Torniamo alla disputa americana sul Book Search: nel piatto di chi aveva messo i piedi Google? Quali editori avevano aperto il contenzioso per conto dell’Aap? McGraw-Hill, Pearson Education, John Wiley e Simon & Schuster: tutti editori di scolastica e professionale, tutti già in forze sull’online, con testi, studi, paper. La smaterializzazione del libro è quindi una rivoluzione già iniziata per oltre metà dell’editoria mondiale, quella sotto la linea di galleggiamento dell’iceberg, quella che non compare mai nelle classifiche dei bestseller, ma il mondo della cultura, le istituzioni e una buona parte dell’editoria se ne sta accorgendo solo ora. Non è un caso che nel moltiplicarsi di seminari, corsi, convegni sul digitale si vedano sempre più editori di varia, attenti a capire come gestire i diritti in questo nuovo scenario.
Negli ultimi tre anni l’editoria professionale e educational è stata scossa da una girandola di cessioni e acquisizioni che ha coinvolto molti big (Thomson Reuters, Elsevier, Harcourt, Houghton Mifflin, Wolters Kluwer) e alcune banche d’affari (tra le principali Apax, che ha creato il gruppo Cengage, e Education Media and Publishing Group, una sigla che cela una banca d’affari con sede alle Isole Cayman e controlla Houghton Mifflin Harcourt, uno dei gioielli della scolastica made in Usa). L’attività di merger & acquisition è una conferma di come da un lato l’editoria educational/professionale cerchi costantemente di riposizionare il proprio business e puntare sull’innovazione, dall’altra di come anche in questo settore sia in atto un marcato processo di concentrazione, dove però le banche d’affari, e non gli editori, giocano un ruolo non secondario. L’editoria online può rappresentare una chance per medi e piccoli editori di questo settore? Dipende: per creare, offrire e vendere testi scolastici e manuali, studi e saggi specializzati bisogna avere le spalle grosse, una professionalità consumata, relazioni forti e molto denaro, ma la distribuzione diretta, via Internet, apre comunque una finestra competitiva rispetto ai potentati del settore. Comunque sia, l’editoria educational/professionale, la parte principale dell’editoria mondiale, sarà sempre più nelle mani di pochi, e questa non è una bella prospettiva per l’evoluzione del pensiero nella società globalizzata. Abbiamo un più vasto e più libero accesso ai contenuti, e va benissimo. Ma bisogna stare attenti su chi e come crea e amministra questi contenuti. Specie se la proprietà è nelle mani di investitori estranei alle logiche editoriali.
Veniamo all’altra metà del Pianeta Libro, l’editoria cosiddetta generalista. Per i gruppi e gli editori indipendenti centrati prevalentemente nella varia gli anni «buoni» si alternano a quelli fiacchi senza eclatanti variazioni. Narrativa, manualistica e saggistica sono settori governati dalla cessione di diritti, il cui mercato è fisiologicamente e strutturalmente lontano dalle dinamiche dell’editoria professionale e dell’educational. L’editoria d’arte ha già perfezionato il meccanismo delle coedizioni, e tutti gli altri segmenti hanno di fatto un mercato prevalentemente nazionale, o limitato alla propria area linguistica. Nell’editoria di varia è già passato di mano tutto ciò che si poteva comprare e vendere: mancava solo Editis (fatturato 760 milioni di euro), rimasta quattro anni nelle mani della banca d’affari Wendel Investissement e acquisita dal potente gruppo spagnolo Pianeta (fatturato un miliardo di euro) che conquista la decima posizione della classifica mondiale. Probabilmente è stata questa l’ultima acquisizione possibile sul medio periodo, contando che Simon & Schuster (fatturato 607 milioni di euro, proprietà di Viacom-Cbs), ultima casa editrice di varia ancora tutta americana, è da cinque anni in attesa di un acquirente.
Nel processo di concentrazione, se si esclude l’acquisizione di Editis, non si segnalano avvenimenti rilevanti. Il Club del libro, praticamente monopolio mondiale di Bertelsmann, prosegue nel suo lento ma inesorabile declino, tanto che il gruppo di Gutersloh ha deciso di liberarsene, ma non trova un acquirente. E nemmeno un’idea per imboccare nuove strade e sfruttare l’enorme patrimonio di contatti fidelizzati accumulato in decine di anni di successi. Il metaeditore per eccellenza del ventesimo secolo pare impaniato in modelli di business che hanno segnato il passo e che non hanno trovato un’alternativa efficace. O non l’hanno tentata. Il Club è di fatto una community, e forse varrebbe la pena spingere gli associati verso la formula dei social network che stanno riscuotendo un’adesione vasta e fin troppo incondizionata, come nel caso di Facebook. In Italia, per di più, i gruppi di lettura sono ancora una pratica marginale; eppure, specie nel mondo anglosassone, tutte le principali case editrici li seguono e li coccolano con appositi servizi online. Possibile che il milione e trecentomila soci del Club italiano, e le decine di milioni sparse per il pianeta, non possano essere indirizzati verso siti creati ad hoc come Shelfari?
Il marketing librario spera molto nei social network perché è la prima volta che si dispone di una struttura dove le strategie di passaparola possono essere innescate e monitorate; dove il sogno diventa realtà. Penguin, la blasonata Penguin, tanto per fare un esempio, ha da poco lanciato con una rumorosa fanfara Penguindating, un sito per far incontrare le anime gemelle seguendo il filo rosso della condivisione delle passioni librarie. L’idea è ottima, potenzialmente efficace, anche se non nuova, tanto che ci aveva già pensato la biblioteca di Cologno Monzese sul finire degli anni novanta, con un progetto rigoroso, efficace, ben fatto. Eppure l’operazione inglese è stata per adesso talmente sciatta che in Penguindating – gestito in partenariato con match.com, numero uno mondiale degli incontri amorosi via Internet – di libri praticamente non se ne parla. Va da sé che non può esserci alcun passaparola. Il marketing può ben sperare, dal lancio di booktrailer alle strategie di seeding, seminare ovunque notizie e tentare l’inserimento mascherato nelle chiacchiere online per promuovere questo o quel titolo, ma deve ancora trovare il bandolo della matassa. Perché non solo la lettura, ma anche il parlare di libri deve fare i conti con Internet.
A dispetto delle promesse della rete, la recessione globale non fa sperare (nel momento di stesura di questo articolo, all’inizio di novembre 2008) in una buona chiusura dell’anno. Barnes & Nobles, la più grande catena del mondo, si aspetta una «terrible Christmas season»: l’amministratore delegato Léonard Riggio ha dichiarato al «Wall Street Journal» (4 novembre 2008) che il key retail indicato? è in flessione per la prima volta in tutta la storia della catena: «Mai, in tutti gli anni passati in questo business, ho visto previsioni peggiori per l’economia e i consumi; e mai, in tutti i miei anni come libraio, ho visto neanche lontanamente un momento così poor come quello in cui ci troviamo». Borders, la seconda catena del mondo con 1.100 librerie, è in vendita. Anche in Italia le previsioni per la nostra editoria non sono migliori; al crollo dei collaterali in edicola si aggiungono le invenzioni del ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini che hanno tagliato le gambe alla scuola, all’istruzione in generale e all’editoria scolastica, e per i prossimi anni il quadro si fa ancora più fosco. Ma c’è qualcosa di peggio nella fotografia più recente del Belpaese. Secondo il recentissimo rapporto Pisa-Ocse, gli investimenti per l’istruzione in Italia sono tra i più bassi dei principali paesi europei; i ragazzi italiani leggono più dei loro genitori, soprattutto al Nord, ma molto meno dei loro coetanei europei: c’è da chiedersi quindi quanto leggono i genitori italiani rispetto ai loro colleghi europei. Le nostre giovani leve, i lettori del futuro, hanno anche conquistato la maglia nera per quanto riguarda competenze scolastiche, consumi culturali e utilizzo di tecnologie. Il Centro per il libro rimane una delle tante belle promesse che i politici elargiscono con generosità ogni anno, ma se prima mancava soprattutto la comprensione e la volontà per avviare il progetto, oggi mancano anche i soldi.
Forse, editorialmente parlando, è meglio emigrare? Dopo e/o, che è sbarcata con successo negli States un paio di anni fa creando Europa Editions (ora distribuita addirittura da Penguin), Gems ha annunciato la creazione di Duomo Ediciones, una casa editrice nuova di zecca, pensata per il vasto mercato ispanofono, con sede a Barcellona: nel programma, molto scouting, fiction internazionale e un team a quattro stelle con Valerie Miles, già direttore editoriale di Pianeta e Delbolsillo, e l’ad Maurizio Munaretti, vent’anni di esperienza come direttore finanziario di Random House Mondadori.
Se cercare spazio in mercati più grandi può essere un’audace strategia per uscire dalle italiche secche, nell’anno passato si è dovuto aggiornare il concetto di «nuovi mercati», che aveva entusiasmato l’editoria europea e americana al punto che la maggior parte dei grandi gruppi editoriali aveva aperto in tutta fretta propri uffici in India. Pearson, al pari di altri editori anglosassoni, ha iniziato a stampare libri sia in hindi sia nelle altre lingue del subcontinente, ma lo scorso autunno il gruppo indiano Tata – che sta all’india come Fiat stava all’Italia – ha deciso di investire nei libri: il primo segnale forte di come l’editoria libraria indiana intenda smarcarsi da quella occidentale.
Tata è una delle più grandi realtà industriali del mondo: un centinaio di aziende (28 quotate in borsa), 62 miliardi di dollari di fatturato nel 2007, 30 miliardi solo dalle aziende consolidate che danno da lavorare a 300.000 persone (più di ogni altra azienda privata indiana), attività che spaziano – in ogni continente – dalla meccanica alla chimica, dall’elettronica all’industria automobilistica (Jaguar, Land Rover e i mezzi pesanti di Daewoo sono suoi da qualche anno), dall’industria dell’acciaio all’information technology, per finire con distribuzione e abbigliamento. Non possono mancare i media: nelle televisioni, una joint venture all’80% con Star Tv (140 canali); quindi periodici e quotidiani locali, perché in un paese emergente sono un buon business e un prezioso strumento politico; per finire, libri e catene di librerie multistore.
Dopo aver rivenduto a McGraw-Hill la propria quota di minoranza che aveva nella Tata/McGraw-Hill Publishing Company, filiale di McGraw-Hill che presidia l’editoria Stm e l’educational in India, Tata ha lanciato Westland Books, la propria imprint di varia con l’intenzione di iniziare a pubblicare anche nel segmento professionale e scolastico. Partenza con un catalogo di duecento titoli e una rapida espansione della catena di retail Landmark: multistore di libri, musica, stampa, regalistica, giocattoli ed elettronica di consumo pensati anche per la parte laica e benestante della crescente borghesia indiana. Alla London Book Fair 2009 l’india sarà, guarda caso, protagonista del Market Focus. Anche in Cina le cose non sono andate come dovevano per gli editori occidentali. Le case editrici cinesi (fra le quali crescono gli indipendenti, i non statali, ma incatenati a una distribuzione che, quando c’è, è sempre nelle mani del Partito) hanno già iniziato a fare da sé: i titoli di scolastica, professionale, narrativa sono sempre più spesso pubblicati contemporaneamente da case editrici differenti, una a Pechino, una a Canton e l’altra a Shangai, perché non esiste una vera e propria editoria libraria nazionale. E a riprova che l’assenza del concetto di diritto d’autore fa così profondamente parte della cultura cinese da esprimersi non solo verso il resto del mondo, ma anche e soprattutto in casa propria. Se, bene o male, gli occidentali riescono a fare ancora qualche affare, nella scolastica/professionale e nella letteratura per ragazzi, la narrativa straniera è rimasta al palo. Toby Eady, il principale agente tra Cina e resto del mondo, ha spiegato all’ultima Buchmesse perché il romanzo occidentale non smuove gli animi nel Celeste Impero: le nostre storie trasmettono una morale incongrua e priva di interesse per un popolo che ha mischiato confucianesimo e ideologia collettivista. Le nostre sono storie senza senso, rapporti sentimentali inconcepibili, relazioni familiari talmente estranee che appaiono come cattiva narrativa. Si salva solo chi, come Harry Potter, ha una forte componente magica, e forse le strutture più semplici delle storie d’amore, dove il bene e il male sono molto identificabili e mancano di sfumature. Nel paese più popoloso del mondo, che sforna centinaia di migliaia di laureati all’anno e dove la classe media è «il nuovo che avanza», l’editoria libraria ha già iniziato a fare da sé, e al più appetibile tra i «nuovi mercati» possiamo iniziare a dire addio, almeno per quanto riguarda l’editoria tradizionale. L’editoria cinese e quella indiana stanno iniziando a scrivere la propria, personalissima storia. Quella russa non risponde all’appello. E negli sterminati territori dell’Islam, purtroppo, di libri ce n’è uno solo.