La canzone cerca il libro. E viceversa

Il libro di Luciano Ligabue pubblicato da Einaudi docet: perché un opera di poesia susciti un effettivo interesse presso il grande pubblico, oggi, occorre che l’autore sia già famoso. Ma non come poeta. Il paradosso del divismo poetico della rockstar rilancia la sfida della poesia alla canzone come forma di espressione più aperta e duttile. E mentre ci sono poeti come Ida Travi che aprono la propria scrittura ai suoni, il sapere accademico cerca di mettersi in pari con lo spirito dei tempi avallando il prestigio culturale della musica rock e pop. Così non stupisce che, attraverso le note, l’elogio della follia arrivi sul palco del Festival di Sanremo e sui banchi della libreria.
 
Cos’è successo, nel mondo della canzone, nel corso dell’ultimo anno? Luciano Ligabue ha battuto il record olimpionico di salto con l’asta. Non ci credete? Va bene. Ligabue ha composto sette fughe a tre voci, e nei momenti liberi ha contribuito alla stesura della finanziaria. Neanche a questo credete? Ok, non è vero. Ligabue ha scritto delle poesie; l’editore Einaudi gliele ha pubblicate. Questa è la notizia.
In qualsiasi altro paese, un evento del genere passerebbe inosservato; in Italia scuote le telescriventi, mobilita recensori, fotografi, conduttori radiofonici e televisivi.
Di fronte a tanto fermento, un osservatore esterno potrebbe essere spinto a pensare che da noi l’arte della parola occupi il centro della pubblica attenzione. In un certo senso, non avrebbe torto: quasi tutti gli italiani scrivono versi (leggerli è un altro discorso). Molti li stampano, per la delizia di parenti e amici; alcuni pochi – riescono a varcare i confini del vicinato, a pubblicare presso un vero editore; ma perché un’opera di poesia diventi davvero pubblica, perché susciti un effettivo interesse, oggi, occorre che l’autore sia già famoso. Famoso, ma non come poeta. Se Ligabue si fosse dedicato sempre e solo a scrivere versi per la pagina, giungendo a guadagnarsi così un certo credito letterario, le sue Lettere d’amore nel frigo (tale il titolo) verrebbero serenamente ignorate; invece è una rockstar, e il fatto che pubblichi una raccolta di poesie mette in moto cronisti e critici.
Sensazionale – ci dicono – è il coraggio che il Liga dimostra nell’aggirare l’ozioso dibattito sulle qualità poetiche delle canzoni, mettendosi alla prova direttamente come poeta. Viene da chiedersi: che cosa lo ha spinto a questa rischiosa impresa? Che cosa spinge un popolarissimo cantautore verso il genere letterario più impopolare che ci sia?
«Le poesie – racconta l’interessato a Paola Zanuttini sul «Venerdì di Repubblica» del 29 settembre 2006 – le ho scritte tre anni fa sull’onda di un periodo molto movimentato: era appena morto mio padre, mi ero separato, e un cugino che era quasi un fratello cominciava a dare i primi segni di una malattia che se l’è portato via in un mese». D’accordo; ma per esprimere quel dolore, l’autore di Happy hour non aveva già il suo strumento d’elezione, la canzone? Evidentemente non bastava. In poesia, a quanto pare, trovano spazio cose che dalla canzone restano escluse («l’energia è tanta, e la canzone è stretta», spiega Nico Orengo nella Prefazione al volume einaudiano). «Nella sintesi tra parole e musica non riesco a far entrare tutto quello che mi gira per la testa», dichiara il rocker di Correggio.
Con tutto il male che se ne dice, insomma, la poesia sarebbe ancora una forma di espressione più aperta, più duttile, più libera della canzone. «Quindi – propone Paola Zanuttini al nostro Autore – lei è diventato poeta per uscire dalla metrica.»
Qui occorre una precisazione: con il termine metrica, nel gergo della canzone, si intende lo schema al quale il paroliere deve attenersi quando applica un testo a una melodia data. L’idea, da tempo radicata tra gli operatori del settore (critici inclusi), è che la «metrica» – e ogni genere di rigore ritmico – siano stati definitivamente liquidati dalla poesia moderna: quando uno scrive per la pagina, può mettere giù le parole un po’ a caso, andare a capo qui, là, come viene viene. In effetti, leggendo certe poesie di Ligabue si ha l’impressione che il ritmo si sia preso una settimana di ferie: «questa è la parcella / per il ballo / nel luogo emotivo / dove / al sicuro / è un concetto / non rispondente». Ai malevoli, «versi» come questi faranno venire in niente i singulti della Lontana malata di Palazzeschi; ai benevoli l’Ungaretti più vulgato, cui generazioni e generazioni di aspiranti poeti hanno attinto negli ultimi ottant’anni. Il Ligabue Luciano, come tutti, lo avrà studiato a scuola, ma non ammetterebbe mai – c’è da scommetterci – di esserne stato influenzato: ve li immaginate Elvis Presley o Jim Morrison con in mano L’Allegria o Sentimento del tempo? No, no: il Liga legge Bukowski, di cui ama «la rudezza». E poi – indovinate? – i poeti della beat generation. «Vorrei essere poetico usando un vocabolario scarno, vicino al linguaggio parlato» spiega. Gli sarebbe bastata un’occhiata alla poesia italiana degli ultimi cinquant’anni per trovare, nella direzione indicata, qualche esempio interessante col quale confrontarsi; ma forse era troppo occupato a leggere Ginsberg (in inglese?) e a farsi venire la raucedine da avventuriero on thè road. «Ho paura della melensaggine» confessa ancora a «Repubblica». Per non essere melenso, scrive cose così: «La puzza di fiume in vacanza / è puzza di utero morto». Se la poesia è questa, forse è meglio continuare con le canzoni.
Mentre i cantautori si accostano clamorosamente al silenzio del libro, ci sono poeti che – con molto minor clamore – aprono la propria scrittura ai suoni. E il caso di Ida Travi, che sotto il titolo La corsa dei fuochi (Moretti & Vitali, 2006) allinea testi pensati per la pagina (o per la lettura in pubblico) e quelle che definisce «poesie per la musica». La resa sonora di entrambi è testimoniata da un cd allegato, dove alla voce recitante dell’autrice si alterna il canto (altrettanto emozionante) di Patrizia Simone. Quando ho ricevuto il libro sarò sincero – temevo di trovarmi di fronte uno dei tanti esperimenti tardonovecentisti, l’ennesimo massacro «musicale» della parola; invece, i tre «canti» composti da Andrea Mannucci (musicista di formazione «colta») si muovono nel massimo rispetto del testo, assecondandone e amplificandone il pathos, senza attentare alla sua comprensibilità. Anche l’ascoltatore musicalmente meno avvertito avrà l’impressione di entrare senza fatica nei percorsi di queste melodie. La scelta degli autori di chiamare «canti» e «poesia per la musica» le loro composizioni, evitando il termine «canzone», ha le sue buone ragioni e non discende, mi pare, da spocchia intellettuale: le differenze, tanto sul piano letterario quanto su quello musicale, ci sono; io credo però che il prossimo passo dovrebbe essere quello di lasciare che sia chi ascolta a scoprirle, a sentirle. Sono convinto che l’annosa contesa tra poesia e canzone assumerebbe caratteri meno astratti, meno vuotamente ideologici, se cantautori, compositori «colti» e poeti si misurassero non a partire dallo status del genere in cui si muovono, dal suo credito storico, ma dal risultato artistico, dalla qualità della singola opera.
Per capire quanto e come sia cambiato, negli ultimi quarant’anni, l’atteggiamento degli intellettuali italiani nei confronti di quella che una volta si chiamava «canzonetta», basta ripensare al primo studio importante uscito da noi, Le canzoni della cattiva coscienza (1964, contributi di Umberto Eco, Sergio Liberovici e altri) e confrontarlo con un recente lavoro di Stefano La Via, Poesia per musica e musica per poesia (Carocci, 2006). L’autore – musicologo, studioso del Rinascimento – insegna Storia della poesia per musica all’Università di Pavia; il suo libro, però, non vuole presentarsi come un grigio manuale a uso universitario. Il sottotitolo, «dai trovatori a Paolo Conte», dice al potenziale lettore: qui non si parla solo di melodrammi, madrigali e Lieder, questo è uno studio senza pregiudizi, aperto alla produzione popolare contemporanea. Negli anni sessanta, della cultura «di massa» era lecito occuparsi seriamente solo a patto di denunciarne i limiti estetici e le pecche ideologiche; oggi la situazione si è rovesciata: il prestigio culturale della canzone, del rock e del pop sono fuori discussione; è il sapere accademico a doversi mettere in pari con lo spirito dei tempi. La Via lo fa con misura, senza trasgressioni clamorose: la prima parte del libro («Parametri, principi generali e tipologie d’interazione tra poesia e musica») è una trattazione sistematica e approfondita dell’argomento; roba che va studiata, mica leggiucchiata al bar. Il lettore profano capace di attraversarla senza perdersi d’animo avrà un premio: negli ultimi paragrafi parte lo spettacolo, entrano in scena Bob Dylan, il blues, i fratelli Gershwin, Paul Me Cartney, Chico Buarque, Paolo Conte. Nella seconda parte, dedicata a una serie di analisi, lo schema si ripete: da Can vei la lauzeta mover di Bernart de Ventadorn si procede senza freni verso Thè Man I Love, fino a Yesterday, fino a Madeleine di Paolo Conte.
Oltre che un contributo per molti aspetti originale intorno all’interazione tra testo e musica, il libro di La Via mi sembra un importante passo avanti nel rapporto tra ricerca accademica e canzone. Un ulteriore passo, assai auspicabile, sarebbe la liberazione degli studi scientifici dai frettolosi giudizi di valore e in genere dalle idées recues care al giornalismo «specializzato». A margine di un ragionamento sulle varie tipologie del rapporto tra testo e musica, parlando di Guccini, La Via lo decreta (p. 165) «riconosciuto dalla critica letteraria ufficiale come poeta autentico», grazie alla «indiscutibile qualità letteraria» della sua poesia. Dell’autorevolissima «critica letteraria ufficiale» sarebbe interessante conoscere l’indirizzo. E soprattutto le argomentazioni.
Febbraio 2007: da settimane giornali riviste radio e tv mi avvertono che arriva il Festival di Sanremo. Trent’anni fa era un appuntamento irrinunciabile per me e per i miei amici («compagni» e «compagne», si diceva allora). A decine ci riunivamo davanti alla tele, a casa di qualcuno, per commentare le canzoni in concorso: ognuno sceglieva il suo campione e gli tributava un tifo da stadio (ricordo di essermi sgolato per Loretta Goggi). A poco a poco, l’allegro snobismo che sosteneva quei raduni è svanito, insieme ad altri entusiasmi d’epoca. Da anni l’attenzione che dedico a Sanremo è sporadica, superficiale, del tutto inadeguata; solo per caso assisto a sprazzi – a una serata dell’annunciatissima edizione 2007. Un ragazzone alto alto, vagamente «alternativo», occhiali rossi e un’acconciatura a metà tra Jimi Hendrix e i Cugini di campagna, canta un ritornello in cui rosa rima con cosa e sposa} la strofa è garbatamente rappata: «I matti sono punti di domanda senza frase, / migliaia di astronavi che non tornano alla base /… /1 matti siamo noi quando nessuno ci capisce…».
Guarda un po’ chi si rivede: i matti. Jack Nicholson col berrettino di lana da «cuculo», il ’77, Bologna, Radio Alice, Foucault, Deleuze-Guattari, la rivolta «creativa» a colpi di antipsichiatria, il trionfo del «demenziale»… Trent’anni dopo, nella canzone di Simone Cristicchi (Ti regalerò una rosa, vincitrice del Festival) e nel suo libro uscito in contemporanea, Centro di igiene mentale (Mondadori, 2007), quasi le stesse idee si ripropongono, seppure in versione «ingentilita»: «I matti sono sensibili, veri e puri», «Io sono Matto, e vivo senza punteggiatura, così la mia mente cresce e si sviluppa libera…», «Il senso sono io, in quanto Matto», e via dicendo. A uno della mia generazione, questo «elogio della follia» rischia di suonare come un ritornello un tantino stagionato; ma in questi anni di deliri identitari, di arroccamenti sanfedisti e xenofobi, anche l’apologia del «diverso» proposta da Cristicchi, ingenua e sincera com’è, può servire a far circolare un po’ di aria buona.