Il senso delle donne per la guerra

Abbiamo in mente la loro figura nei collegamenti via satellite con i telegiornali della sera: Lilli Gruber, Monica Maggioni, Giuliana Sgrena, Tiziana Ferrario. Ce le ricordiamo con il velo islamico o in mimetica, su sfondi di sabbia, eserciti, carri armati, minareti; e così le ritroviamo sulle copertine dei volumi che affollano il reparto non fiction delle librerie. Ma nel passaggio dalla diretta televisiva alla cronaca narrativizzata sulla pagina, le inviate di guerra del terzo millennio cambiano pelle e ruolo: forzano la popolarità mediatica in consapevolezza autoriale, e cedono alla tentazione della metamorfosi da giornalista a scrittore. Nel nome di Oriana.
 
Esiste una prima linea della scrittura in cui le quote rosa sembrano essersi imposte da sé.
E se è probabilmente una banalità sostenere che, se sono gli uomini a fare le guerre, sempre più spesso tocca alle donne raccontarle, resta però il dato di fatto che, mentre i bestseller della saggistica italiana d’attualità a firma maschile (Stella, Saviano, Travaglio…) si concentrano sui vizi e problemi nazionali, il racconto dei conflitti mondiali più recenti – quelli dello «scontro di civiltà» post 9/11, quelli della Cnn – è pressoché completamente affidato a penne femminili.
Nel corso dell’ultimo triennio sono stati pubblicati I miei giorni a Baghdad, di Lilli Gruber (2003); Dentro la guerra, di Monica Maggioni (2005); Fuoco amico, di Giuliana Sgrena (2005); Il vento di Kabul. Cronache afghane, di Tiziana Ferrario (2006).
Quasi sempre l’autrice è una giornalista televisiva tra le più note (tre conduttrici del Tg1 serale) prestata all’editoria libraria. Quasi sempre è ritratta nell’immagine di copertina: con il velo islamico o in mimetica, su sfondi di sabbia-eserciti-carri armati-minareti, ad avvalorare il ruolo del narratore testimone ed evocare immediatamente chi e dove. Quasi un sottogenere, o un format.
Certamente donne inviate di guerra ci sono state anche in passato (e sono dell’autunno 2007 le inaugurazioni di due mostre dedicate alla fotografa Lee Miller a Londra e a Oriana Fallaci a Milano), ma ora presidiano stabilmente il settore e – potenza dei collegamenti via satellite – sono molto più «visibili». La ricaduta editoriale testimonia questa avanzata: si tratta di libri che escono per importanti marchi editoriali, arrivano sui banchi della grande distribuzione, passano nei tascabili (e quindi, in qualche modo, hanno successo e fanno catalogo). Più che un fenomeno, ormai, un sistema.
Perché il pubblico dei lettori ha premiato queste opere? Da una parte c’è senz’altro la volontà di conoscere ed essere informati su una situazione che, passata l’urgenza della cronaca, non è più la notizia di apertura del telegiornale ma comunque richiama alla consapevolezza, alla volontà di capire, di informarsi (situazione questa coerente con l’avanzata della saggistica d’attualità, quella che più facilmente va in classifica). Al bisogno di docere delegando il libro-resoconto risponde in maniera più strutturata e insieme più fruibile della somma di articoli su un quotidiano: anche perché lascia meno sottintesi, e concede più tempo. Inoltre, va detto che si tratta di opere di buon intrattenimento e piacevole lettura (pur nella drammaticità delle situazioni descritte): la scrittura è scorrevole, la leggibilità buona (anche perché spesso dietro c’è un significativo lavoro di editing; qualche volta, nei ringraziamenti viene anche dichiarato).
È però indubbio che la popolarità mediatica delle autrici giochi la sua parte: il dato di fatto (le reporter italiane sui fronti di guerra – almeno quelle televisive – sono non soltanto più numerose, ma più riconoscibili dei colleghi maschi, qualsiasi telegiornale può testimoniarlo) si traduce in strategia editoriale: un autore già famoso presso il grande pubblico – anche non come autore librario, anche e forse di più se esordiente – è ingrediente importante del mix che spiega un successo. Progressivamente prende poi corpo lo sfruttamento dell’onda lunga del fenomeno: siccome l’editoria tiene le posizioni, se l’equazione giornalista «volto noto»-resoconto narrativizzato funziona, è comprensibile che gli editori la declinino in tutte le nuances del caso.
Ma si può sostenere che esista uno specifico femminile, in queste narrazioni? Piuttosto, sembra di poter dire che funzioni più l’autore-personaggio del gender. Il «senso delle donne per la guerra» emerge tra le pagine, soprattutto quando alla cronaca dello scontro si accosta la restituzione di un mondo «altro» e per certi versi ostile – o percepito come tale, soprattutto in questi casi che raccontano di conflitti nei paesi islamici – proprio nei confronti del sesso femminile. (Anche se non manca un paradossale pregiudizio positivo: Christiane Amanpour, in un’intervista al «Guardian» ripresa dalla stampa italiana, ammette che il lavoro di inviato svolto da una donna «è la stessa cosa, eppure è diversa», riferendosi all’aggressività trattenuta che generalmente gli uomini dimostrano nei riguardi delle giornaliste. Come se, in un contesto in cui le differenze di genere si fanno con evidenza più marcate – che si tratti di avere a che fare con un battaglione di marines o un funzionario ministeriale iracheno – un minimo di ancestrale cortesia tendesse a emergere. E anche Monica Maggioni si sentirà dire uno straniante «Credo che per un uomo sia più duro fare il tuo lavoro».)
È a Lilli Gruber che tocca il ruolo di apripista – e del resto non poteva essere altrimenti, considerando che le note biografiche in quarta di copertina chiosano implacabili «prima donna a condurre un telegiornale di prima serata» –, con I miei giorni a Baghdad (Rizzoli, 2003; n.e. accresciuta «Bur», 2005). Come suggerisce il possessivo nel titolo, il suo non è soltanto il racconto della guerra ma è anche – e una parte non indifferente dell’interesse del libro sta in questo – il racconto di come si racconta la guerra. La restituzione degli eventi, seppure scandita con progressione cronologica lineare, è spesso interrotta dalle riflessioni della narratrice-testimone che, con un particolare icastico anche extravagante (l’ultimo caffè a Roma, il minareto sullo sfondo della diretta televisiva, la mezza pastiglia di sonnifero che la costringerà a lavorare intontita proprio nella notte dello scoppio del conflitto) o una considerazione più personale, stempera la cronaca nel diario: diario degli incontri, dei sentimenti, dei giudizi. L’autrice ne dà conto nell’introduzione in cui giustifica la propria scelta di scrittura libraria «ex post»: a muoverla, il desiderio di superare l’imperativo dell’inviato che «deve scomparire dietro la realtà che racconta. E solo un portavoce – il più onesto possibile – della storia che si compone sotto i suoi occhi» per «andare oltre i fatti e avventurarmi nel campo più elaborato dei giudizi… costruire un itinerario». Quasi una dichiarazione di poetica da narratore onnisciente. Testimone oculare della prima guerra del terzo millennio, ma pur sempre narratore onnisciente.
Siamo allo snodo cruciale. L’approdo al libro, come livello ulteriore della somma di articoli, come prodotto di riflessione dopo le urgenze della diretta, ha un suo pendant dalla parte di chi scrive. L’autorialità cronistica di questo genere, che non è narrativa, né saggistica, ma meglio si qualifica con l’espressione «non fiction», si declina nel ricorso a un narratore – di più: in una narrazione classica con narratore onnisciente –, il che testimonia un’avvenuta presa di coscienza autoriale. Il passaggio da giornalista a scrittore, o almeno a giornalista-scrittore. L’acquisita consapevolezza non si smentisce, anzi si rafforza in maniera coerente nei libri successivi: dalla cronaca-reportage si passa all’inchiesta-reportage (L’altro Islam, 2004; Chador, 2005; America anno zero, 2006), alla raccolta di testimonianze (Figlie dell’Islam, 2007): a validarli è sempre l’autorevolezza della firma, avvalorata da una stagionalità ferrea: una nuova uscita ogni anno, e successivo passaggio in «Bur» (magari con il bollino «Best Seller Rizzoli» in bella vista sulla copertina), debitamente arricchito da un aggiornamento o nuovo contributo tra cui va notata, nell’ottobre 2005, l’intervista a Giuliana Sgrena all’indomani del rilascio.
Punta decisamente sulla narrazione in presa diretta, e soprattutto sull’originalità del punto di vista, Monica Maggioni con Dentro la guerra (Longanesi, 2005), non a caso tascabilizzato in Tea nella serie «Esperienze». La sua è la cronaca di una giornalista embedded con l’esercito Usa in Iraq: una scelta potenzialmente molto criticabile, che viene però subito virata su un altro genere: il diario day by day, con la restituzione della quotidianità dei soldati americani. E questo l’unico libro che presenta una sottolineatura editoriale della muliebrità dell’autore fin dalla quarta di copertina, su cui si legge che quello dentro la guerra «è il punto di vista di una donna in un mondo tenacemente maschile». E siccome la giornalista è obbligata a condividere la situazione che descrive, tra tute a prova di guerra chimica e tempeste di sabbia, pagina dopo pagina si dipana addirittura una sorta di Bildungsroman. Si tratta del testo più narrativizzato e godibile: documentato ma mai pedante, scandito da dialoghi particolarmente efficaci e con un buon ritmo. (Quasi a correggere il tiro, è del novembre 2006 La fine della verità. Iraq, guerra al terrore, scontro di civiltà: cronaca di una mistificazione.)
Protagonista in prima linea, ed è la linea del tragico fuoco amico che dà il titolo al volume, è anche Giuliana Sgrena. La giornalista del «manifesto», vittima di un rapimento il cui ritorno mediatico è riuscito a scombinare le statistiche – si deve alla copertura stampa del suo caso se, in una recente indagine presentata dalla Fondazione Bellisario Lombardia che ha censito le attività associate alle donne su quattro grandi quotidiani, non compaiono solo termini come attrice, stilista, insegnante, casalinga, soubrette e modella, ma anche «giornalista» –, ha dalla sua un’esperienza senza confronti, anche sul piano emotivo, ma non tradisce la cifra saggistica della «Serie Bianca Feltrinelli» e dei suoi precedenti libri per manifestolibri. Rapimento, certo, ma anche Tempo, Vitamorte, Guerra, Resistenza, Religione, Donne, Libanizzazione, L’incidente, Italia: sono i sostantivi forti che scandiscono i capitoli in cui si raccontano le fasi del sequestro, della prigionia – fino al rilascio e all’uccisione di Nicola Calipari –, alternandole però alla descrizione della situazione irachena: una documentazione serrata che si intreccia alla testimonianza sotto il comune denominatore della denuncia civile. Non c’è nessun indugio compiacente né morboso reducismo e anche l’immagine di copertina, a piena pagina, è pudicamente sfumata e quasi coperta dal lettering. (Se si vuole, per conoscere i dettagli del sequestro è più mirata la già citata intervista inserita in L’altro Islam della Gruber, intitolata in maniera un po’ infelice La paura di morire sgozzata.)
Ha un taglio saggistico che a tratti sfiora l’enciclopedico anche II vento di Kabul. Cronache afghane, di Tiziana Ferrario (Baldini Castoldi Dalai, 2006; Tascabili Baldini Castoldi Dalai, 2007). Le cronache del sottotitolo si frastagliano in una serie di capitoli che raccontano l’Afghanistan del dopo talebani e della corsa alla costruzione della democrazia. Cinque anni di inchieste e servizi da inviata del Tg1, ma anche di incontri con le popolazioni locali, i governanti, gli uomini del contingente alleato e delle organizzazioni non governative. Quasi una guida, o un manuale di storia recente, provvista di note, rimandi a fonti, dati, statistiche, cronologie, cartine… ma anche citazioni letterarie, digressioni sull’origine del nome Kabul, stralci dal prontuario di comportamento fornito dal Pentagono. Unico caso della nostra selezione, la giornalista conduttrice del Tg1 non viene ritratta in copertina, però non rinuncia a un inserto fotografico fuoritesto in cui raccogliere alcuni dei suoi scatti.
«Io sono uno scrittore rubato dal giornalismo» diceva di sé Oriana Fallaci. Anche nel suo caso, l’esordio letterario (Niente e così sia, 1969) era stato con un reportage dal fronte che la immortala, sulla copertina della prima edizione Rizzoli, giovane e bellissima inviata di guerra con mocassini ai piedi e capelli raccolti in due trecce. Da lì in poi, la firma autoriale ha prevalso sul narrato, e interviste, romanzi, denunce e invettive si sono succeduti senza soluzione di continuità, all’insegna di un macrogenere «giornalismo letterario», accomunati sempre dall’inconfondibile accento della voce narrante. Ne è nata anche una sottocollana dedicata: «Opere di Oriana Fallaci» – riconoscimento non così diffuso, in vita.
La «deriva Oriana» può essere una mira, o un rischio.