In un’annata editoriale in cui l’«essere fascista» suscita letteraria (e cinematografica) simpatia, l’onda lunga del fenomeno Moccia chiede qualche supplemento di interpretazione. D universo valoriale dei suoi libri, dietro l’apparenza di romanticismo innocuo, tratteggia l’immagine di un italiano medio, non necessariamente giovane, che fa un po’ apprensione. Sullo sfondo, la provocazione mancata di un campione ufficiale della destra narrativa come Buttafuoco induce riflessioni intorno ai requisiti di un romanzo – quale che sia la sua ideologia – degno di questo nome.
Non credo che in proposito possano esserci troppi dubbi: il personaggio più riuscito (diciamo più memorabile, diciamo più simpatico) offerto dalla narrativa italiana degli ultimissimi tempi è il Rino Zena di Come Dio Comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti uscito alla fine del 2006 per Mondadori. Cioè, come molti sanno, uno skinhead ubriacone, invecchiato sì ma non certo pentito, capace ancora oggi di menare le mani con sadica efficacia e di trattare le donne (peraltro prelevate in locali detti alternativi, ovvero di sinistra) come materia prima sessuale usa-e-getta. Del resto, siamo di fronte a un paradossale buon padre; e la sua ideologia nazistoide è tanto ben naturalizzata, fatta carne e sangue di un’autentica relazione umana, da rendere pienamente accettabili – tra le molte distorsioni formative evocate – il revisionismo storiografico del figlio Cristiano, un ragazzo affettuoso e sensibile capace però di scrivere uno dei «temi» scolastici più politicamente scorretti, e certo esilaranti, della storia della letteratura italiana. Poniamo: «anche oggi ci vorrebbe un nuovo Hitler che cacci dall’Italia tutti i negri e gli ex tracomunitari [sic!] che rubano il lavoro e che aiuti i veri italiani a lavorare. I negri e gli ex tracomunitari stanno costruendo in Italia una mafia: peggio di quella degli ebrei durante la seconda guerra mondiale». Se poi dall’edificante famigliola Zena passiamo al triangolo parentalmente perverso che nel film Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti si intreccia fra un padre elettivo fascistissimo (interpretato dal «naturalmente» mussoliniano Luca Zingaretti), una «madre» incestuosa recitata da Anna Bonaiuto e il giovane Accio (l’attore è Elio Germano), scopriamo un altro universo di personaggi godibilissimi. Del resto, la «scelta» missina del giovane protagonista conquista tutta la nostra simpatia, in positivo, grazie alla sincerità della ribellione di Accio, a quel tanto di giusto odio verso la famiglia «vera» e di spessore culturale faticosamente e orgogliosamente perseguito (la voglia di studiare e di capire). E poi, in negativo, quella scelta trae vigore dalla sostanziale noia e ridicolaggine e infine goffaggine – siamo alle solite: il cinema italiano non sa raccontare il terrorismo brigatista! – che accompagnano le vicende del fratello Manrico (esatto, è quello interpretato dall’insopportabile Riccardo Scamarcio): che è bello e comunista e all’inizio fa anche il bravo operaio, ma appare sempre falso.
Certo. E varrebbe la pena adesso discutere un po’ del fatto che il cattivissimo Ammaniti ottiene i suoi effetti di senso in modo con ogni evidenza voluto, mentre il buonista Luchetti si invischia in un gioco che non controlla e che, in fondo, lo porta all’autogol. Ma non la finiremmo più, e poi bisognerebbero fare troppi excursus storici indietro di un secolo e più, alla ricerca delle parentele che accomunano molte rivolte novecentesche di opposto colore politico. Bisognerebbe, dico, fare ragionamenti troppo sottilmente dialettici rispetto al senso comune oggi diffuso (ahimè anche in campo storiografico, nonché politico): secondo il quale se tu hai fatto il fascista da giovane, resti colpevole per tutta la vita, anche perché nel 2000 si è veri democratici solo se si rinnega ogni forma di violenza passata, presente e futura, e se si riscrive una storia politicamente corretta a colpi di pacifismi e irenismi retrospettivi.
Tanto più che una tale raffinatezza culturale è del tutto sproporzionata rispetto alla caratterizzazione critica del campione narrativo che è sceso quasi ufficialmente in lizza a rappresentare la cultura di destra, e per il quale molte anime belle – anche a sinistra – palpitano da un paio d’anni a questa parte: vale a dire Le uova del drago di Pietrangelo Buttafuoco (Mondadori, fine del 2005). E il rilievo si impone se non altro perché in questo romanzo incontriamo il personaggio – in fondo dispiace che sia una donna – viceversa più inutile e degno di oblio di tutta la narrativa italiana recente. Dico della Giovanna d’Arco tedesca Eughenia Lenbach, la spia guerriera nazistissima, paracadutata nel luglio 1943 sulla Sicilia invasa dagli alleati per organizzare, con l’aiuto di un aitante sacerdote cattolico e di undici guerrieri musulmani, la «resistenza» al nemico. Le azioni dell’eccitante e tuttavia frigida eroina finiscono per risultare noiose, ripetitive, prive di ogni interesse narrativo, a dispetto del contenuto grezzo della storia raccontata, di per sé promettente: ammazzamenti a palate, perversioni etniche, religiose e sessuali, la tesi di un complotto magari un po’ greve ma saporito, in cui «comunisti, chiesa, carabinieri e mafia» cospirano contro la legittima (!) autorità; né mancano Majorana e la progettazione della bomba atomica… L’idea era appunto quella di ribaltare provocatoriamente il senso comune storiografico, per lasciare che ne scaturisse qualche effetto espressivo inatteso. Ma a ben vedere non succede nulla. L’eroina Eughenia è immobilizzata dal tentativo mal riuscito di riprodurre la statuaria fascista anni trenta, o le fattezze di un’atleta-amazzone di Leni Riefenstahl. A Buttafuoco mancano del tutto le doti dell’epica (anche di quella ingenuamente «pupara», peraltro esplicitamente evocata), e le sue risorse narrative oscillano tra un’attrezzatura di impianto salgariano (chessò: «infuria la battaglia», «spettacolare femmina», «furie inglesi», «commovente fedeltà», «ceffo temibile», «sangue freddo da cobra», fino alla perla di un «formidabile oculista» infine sposato dalla nazista in disarmo) e le iperboli di grana grossa fornite dallo stile brillante giornalistico (particolarmente stucchevoli le ripetizioni enfatiche dette anadiplosi: «[…] proverbiale e inestirpabile indigenza. / Indigenza che […]»). Su tutto trionfa un metaforizzare sfocato, spesso ridondante, insieme al vezzo, di antico retaggio ermetico, di omettere gli articoli (talvolta con il tipico quasimodismo gazzettiero: «ed era voce rauca di vecchio»; ma vedi anche «facendosi rumorosa lepre», e persino nell’apposizione del tutto gratuita «stanza numero 18, tempio di immacolato silenzio»). Di modo che il malcapitato lettore, il quale anche pochissimo sappia di letteratura, non può non inorridire di fronte ad altre perle stilistiche del seguente tenore, veri capolavori di supponenza e insieme di approssimazione: «La provvisorietà di quelle giornate sotto il codice militare era infatti un’irripetibile opportunità di coniugare forme di libertà negate in condizioni normali, per sprigionare l’essenza anarchica in una voglia di vivere che qualsiasi volano di pur ristretta comitiva riusciva a riempire di divertimento e d’avventura» (dove si cerca di dire che Eughenia e un altro personaggio femminile godono di una certa libertà di comportamento nei giorni convulsi della guerra).
Insomma, Buttafuoco (e verrebbe da dire che lì sta il suo vero fascismo) cerca di imbrogliare il lettore, trascurando le norme più elementari della tecnica narrativa. Una qualche consuetudine con le vecchie polemiche comunistoidi intorno al realismo socialista (al rapporto fra descrizione e narrazione, al nesso tra personaggio positivo e storia ecc.) gli avrebbe forse permesso di sostenere meglio i suoi martiri dell’idea, capaci solo di farci sbadigliare e di confermarci nell’opinione (lo aveva capito Brecht settant’anni fa) che nefandezze e uccisioni in serie producono indifferenza. Oddio, da avversario politico del Buttafuoco reale, personalmente gongolo, perché la sua incapacità rappresentativa finisce per danneggiare ulteriormente la tesi storiografica esposta. Sì, perché il revisionismo provocatoriamente strombazzato è di impianto vecchiotto: e il nucleo del discorso storico, circa la fine della guerra in Sicilia e circa il «tradimento» da parte della «nostra» marina militare, è già ben presente negli scritti anni sessanta di Pietro Capottili e cioè appartiene all’armamentario tradizionale della cultura neofascista.
L’unico scandalo delle Uova del drago consiste allora nel fatto che un intelligente editor come Antonio Franchini ci abbia creduto, e che un numero non indifferente di recensori vi abbia visto un capolavoro, composto – si è persino osato dire – con una «lingua sontuosa». Crisi della critica, appunto, scarsa serietà dei lettori professionali: e il dubbio che le prime 50-60 pagine scritte stranamente meglio, molto meglio, delle successive 200 e più abbiano qualcosa a che fare con questi pareri (anche con quelli editoriali?) mi sembra plausibile.
E poi lo spuntatissimo e attardatissimo Buttafuoco ci distoglie dal vero eroe letterario della vera destra italiana; quella che fa più paura. Riflettiamo intanto sul «mondo possibile» che le sue opere restituiscono. Dico di una realtà seconda in cui i giovani maschi sono preoccupati innanzi tutto di avere muscoli perfettamente scolpiti e le giovani femmine sono in grado di fare qualsiasi cosa per uscir di casa esibendo un abito firmato (i consigli dell’autore-narratore in questo senso si configurano peraltro come una mezza istigazione a delinquere); quelli appaiono tanto più eroici e vincenti quanto più mettono i propri bicipiti al servizio della violenza immediata, privata, cioè quanto più sanno farsi giustizia da soli; queste invece saranno davvero se stesse quando si sottometteranno al proprio uomo, assecondandone la superiore forza e autorità. E comunque i valori cui le giovani sono tenute a conformarsi sono quelli che le madri hanno sempre conosciuto: sopportazione, passività, comprensione per le inevitabili mattane del marito (che a casa «prima o poi torna sempre»). Viceversa, se è la donna sposata a concedersi l’avventura, le accade quanto capitava all’eroina ottocentesca che perdeva la verginità troppo presto: piangeremo tanto, tantissimo pensando alla sua sventura, ma insomma la società dovrà eliminare la trasgressione, farla scomparire, e la morte dell’infelice (della mezza puttana, dico) suggellerà e sancirà necessariamente la sua esistenza sbagliata. Gli è che in questo universo peculiare le fanciulle devono stare molto attente a usare nel modo giusto la propria verginità, che infatti è un valore sostanziale: e chi se ne sbarazza incautamente con l’uomo sbagliato (magari in discoteca, sotto effetto di droghe) non può che essere castigata con una gravidanza indesiderata, che è tanto più punitiva perché in questo mondo l’aborto è, in tutti i sensi, un crimine. Va da sé che qui non si leggono libri, e che le ragazze vorrebbero tutte andare in televisione per fare le Letterine; salvo però scoprire che nella realtà catodica alberga il male assoluto, fatto di trucidi vecchiacci assatanati i quali cercano tuttodì di violentarle. E così via. Persino chi scrive per Tirature, e persino io, facciamo parte dell’universo diegetico in oggetto: «Distratti e annoiati», una coppia di lettori del quotidiano «il manifesto» (contro il quale l’eroe della storia ha comprensibili pregiudizi) costituisce la perfetta – allegorica – antitesi all’universo spensierato in cui i giovani sono liberi di perseguire la loro felicità.
Step, Babi, Pollo, Gin, la traviata mamma di Step e il resto dell’universo diegetico di Tre metri sopra il cielo (2005) di Federico Moccia e del successivo Ho voglia di te (2006) ci parlano appunto di tutto ciò. E dovrebbero costringerci a una difficile riflessione intorno alla «destra profonda» che attraversa la società italiana e che la formula narrativamente vincente di queste opere è riuscita, se non a occultare, certo a rendere più complessa e problematica. Mimetismi visivi e auditivi (cambi di voce, dialoghi, monologhi, canzoni), montaggi cinematografici e televisivi, situazioni perfettamente giocai, pasoliniane quanto basta per parlare a tutti: il prodotto letterario di Moccia, in particolare il dittico (ma mi sembra che il successivo – Scusa ma ti chiamo amore, 2007 – non abbia costituito una svolta), è arrivato al successo utilizzando tecniche rozze ma efficaci, capaci di dare piena coerenza a un plot in sé agghiacciante, infarcito di tutto ciò che un «sincero democratico» dovrebbe respingere. Ultimo dettaglio ma non minore, che è il caso ricordare (e mi meraviglio che la cosa sia stata trascurata): in un punto narrativamente non secondario di Tre metri sopra il cielo, l’universo valoriale del romanzo ritiene del tutto plausibile che una promozione a scuola possa essere comprata. Nessun segnale dall’interno dell’opera obietta alcunché a questo che probabilmente è il cardine di ogni fascismo scolastico: la superiorità di classe che si istituzionalizza in privilegio.
E vero, certo: il residuo ideologico che pare sedimentarsi nei comportamenti giovanili all’era di 3MsC è quello di un romanticismo abbastanza innocuo (la fedeltà proclamata, urlata, iperbolizzata dalla pratica del lucchetto); e sarebbe ridicolo se qualcuno definisse diseducativa l’opera di Moccia. Semmai è vero il contrario: lo sguardo (per nulla giovanile: molto viceversa adulto, lamentoso, laido e risentito) che osserva la nostra realtà dall’interno di questo eterocosmo ci insegna molto su quello che qui e ora, in Italia, siamo diventati, sul normale fascista che non vive solo nei pugni di un ragazzotto ignorante e prepotente o nelle sue romanticherie fuori tempo massimo. Gli opposti dell’odio e dell’amore come assoluti immotivati, princìpi che regolano le relazione affettive e sociali senza altro fondamento che non sia il piacere del soggetto; l’alternativa fra l’inclusione perfetta nella «piccola patria» (la Roma di Moccia è, a ben vedere, unicamente Heimat) e l’espulsione dell’altro, di chi non sa divertirsi con e come noi, del vecchio, del debole, del povero, e magari dell’insegnante (colpevoli solo di essere vecchi deboli poveri, e di fare un mestiere sottopagato): questa brutta alternativa, secca e violenta, cinica, ormai priva del pathos ancora romantico che il «superuomo di massa» manteneva in vita, dice molto di noi. Davvero, leggere Moccia è utile e raccomandabile, altamente istruttivo: non soltanto per la/il quindicenne o per il sociologo della letteratura. Ci si attrezzi dunque di un po’ di odio storicamente fondato («Io li odio, i nazisti dell’Illlinois», sillogizzava quel tale, prima di agire), e molto si imparerà.