Del perché mezzo milione di persone sia disposto a percorrere centinaia di chilometri per ascoltare un reading dell’autore prediletto, ovvero come Roberto Benigni sia divenuto lo sponsor di Dante Alighieri. A un decennio abbondante dall’avvio del padre di tutti i festival letterari italiani, quello di Mantova, si impone una riflessione sul ruolo di questo genere di manifestazioni: luoghi in cui si consuma e si produce davvero cultura oppure semplici eventi spettacolari?
In una delle prime pagine dell’esilarante libro di Alessandro Banda, Scusi, prof, ho sbagliato romanzo (2006), ci imbattiamo nel personaggio di un docente di scuola secondaria superiore «che passava i mesi estivi frequentando i festival culturali». Quali? Un po’ tutti (alcuni sono veri, altri inventati): «Festival della letteratura di Mantova, festival della mente di Sarzana, festival dei cinque sensi di Modena, festival del noir di Cattolica, festival del romanzo rosa di Collegno, festival del libro d’arte di Bologna, festival del tascabile di Botticino Sera – e poi Pordenonelegge, Cremonasfoglia, Trevisoconsulta, Vicenzacompulsa…». Amaro l’epilogo: «Così, di festival in festival, non leggeva mai un libro che fosse uno: non ne aveva proprio il tempo».
La tagliente ironia e il pungente sarcasmo di Banda centrano una delle critiche che da più parti vengono mosse al mondo dei festival culturali e letterari. Polemiche che rinascono periodicamente ogni anno sui giornali tra l’inizio e la fine della stagione festivaliera: che comincia grosso modo in tarda primavera, per terminare a metà autunno. I «favorevoli» sottolineano l’importanza del ruolo dei festival a livello di «divulgazione intelligente», nel promuovere la pratica della lettura, l’appeal che questa attività può iniziare a esercitare anche su chi sia alieno al mondo dei libri a partire dall’incontro personale con gli autori, la possibilità che tali eventi offrono di far conoscere anche autori giovani o non ancora sufficientemente «lanciati».
I «contrari», dal canto loro, smontano una per una queste «lodi». Sostenendo, per esempio, che i lettori «veri» non hanno bisogno di occasioni come i festival per appassionarsi ai libri: lo fanno già per conto loro e a prescindere da «cause esterne». Si dice, poi, che i finanziamenti pubblici ai festival sottraggono risorse ai già striminziti budget stanziati per l’acquisto dei volumi per le biblioteche. O, ancora, che la spettacolarizzazione della cultura in eventi come i festival è la negazione stessa di un’esperienza culturale autentica, condotta a livello personale e con la possibilità che essa si sedimenti nell’esperienza degli individui.
In tal modo la cultura si trasforma, per usare la fortunata espressione di Dwight Macdonald (nel suo saggio Mass-cult and Midcult, prima edizione americana 1960), in midcult. Cioè cultura depotenziata, ridotta a consumo e, appunto, a puro spettacolo, da fruire come un prodotto e niente più. Da parte di un pubblico piccoloborghese con velleità artistiche e culturali, a cui la moderna società di massa provvede un’offerta adeguata.
Così, nel caso dei festival letterari, la persona fisica dello scrittore, nel momento della sua performance in pubblico, diventa quasi più importante dei suoi stessi libri. Ciò che conta non è l’opera (che rimane), ma l’evento (che si produce per poi finire subito). Nel mondo post-televisivo, un’opera letteraria non esiste o non è interessante se non le si crea attorno un «evento» capace di renderla appetibile e, prima ancora, «presente».
Forse l’idea-chiave delle critiche rivolte ai festival risiede proprio nei concetti di «spettacolo» e di «spettacolarizzazione». Tanto che appaiono perfettamente applicabili alla fattispecie del fenomeno di cui ci stiamo occupando le considerazioni espresse da Guy Debord nel suo celeberrimo saggio La società dello spettacolo. Lo scritto del pensatore francese risale al 1967, quando evidentemente i festival letterari erano ancora ben al di là da venire. Ma quando egli parla di un mondo reale sull’orlo di trasformarsi in un complesso di immagini e di uno spettacolo che, di conseguenza, sarebbe diventato la principale produzione della società attuale, dice qualcosa che ben si attaglia anche al nostro caso. Debord, in altre parole, sostiene che lo spettacolo avrebbe soppresso la realtà. Cioè, mutatis mutandis, i festival, come esperienza mediata e spettacolarizzata della cultura, hanno soppresso l’esperienza diretta della cultura. E anche se non si condivide un giudizio così estremo, non si può tuttavia non riconoscere come spesso l’evento pubblico e spettacolare rappresenti per molti l’indispensabile reagente affinché l’esperienza culturale si attivi.
Un caso analogo è quello delle letture dantesche operate da alcuni interpreti più o meno illustri. In Italia in quasi tutte le case delle persone scolarizzate c’è una copia della Commedia di Dante. Eppure quest’opera è tornata «di moda» presso un vasto pubblico solo di recente, cioè da quando prima Vittorio Sermonti (per un pubblico più ristretto) e poi Roberto Benigni (per un pubblico più vasto) hanno preso a leggerla nei teatri o in televisione. Sarà anche colpa della scuola che non sempre è in grado di trasmettere il piacere della poesia e, più in generale, della letteratura, ma un po’ spiace che ci sia bisogno dell’intervento di un comico per far amare i versi di Dante.
Una riflessione sul fenomeno dei festival letterari e culturali si impone dopo che un decennio abbondante è trascorso dall’avvio delle prime esperienze italiane di vasto respiro. Nel 1996 nascevano infatti il Festivaletteratura di Mantova e Chiaroscuro di Asti. Il primo, in particolare, sarebbe diventato poi il modello a cui si ispireranno analoghe esperienze un po’ in tutta la Penisola: pubbliche letture e presentazioni di libri, colazioni, pranzi e cene con gli autori, eccetera. In realtà Mantova si rifaceva a sua volta a un modello straniero assunto esplicitamente in quanto tale, il più antico festival della cittadina gallese di Hay.
Ma quanti sono i festival letterari in Italia? Un censimento ufficiale dotato di incontrovertibile precisione non esiste. Ma le stime dell’Aie (Associazione italiana editori) parlano di circa 200 iniziative, localizzate in larga parte nelle regioni del Nord e del Centro, mentre in quelle del Sud gli appuntamenti sono percentualmente meno (con l’eccezione della Puglia). E, come argomenti, c’è davvero un po’ di tutto: dal giallo al fumetto, dalla saggistica scientifica alla letteratura di viaggio, dalla Bibbia e dalle religioni alla filosofia.
Si calcola che gli italiani che prendono parte a questi eventi sono più di un milione ogni anno. In genere si tratta di persone di media e alta cultura (43 su 100 sono laureati), a conferma del fatto che i festival, più che creare nuovi lettori, agiscono su chi ha già una soglia elevata di attenzione al mondo del libro e della lettura. In genere è la popolazione locale che accorre alle singole iniziative disseminate sul territorio. Ma in alcuni casi, come Mantova, spesso arriva molta gente anche da fuori: per i giorni del Festivaletteratura gli hotel della città sono tutti esauriti. E, comunque, il 56% dei partecipanti ai festival si dichiara disposto a percorrere oltre 150 km per ascoltare un autore di loro interesse.
Del resto il bacino delle iniziative, dagli albori festivalieri del 1996, è cresciuto in maniera esponenziale. Tanto che qualcuno ha evidenziato la necessità di attivare un coordinamento tra le varie sedi. Sempre più spesso è capitato infatti che uno stesso autore (italiano o straniero che sia) venga «conteso» tra due o più festival attivi nelle stesse date. Per parte loro, richiesti da molti festival, gli scrittori più «gettonati» hanno iniziato ad avanzare richieste economiche sempre più salate, spesso da autentiche star. Ma i festival non erano nati per avvicinare gli scrittori ai lettori? In realtà, stando così le cose, sembra che gli scrittori siano diventati delle vedette che fanno sempre più le preziose. Magari finendo con l’essere, semplicemente, i testimonial di un prodotto, il loro libro.
Lo aveva intuito, già negli anni ottanta, un’autrice come Doris Lessing. La quale si lamentava di come i tour promozionali a cui i suoi editori la sottoponevano assomigliassero sempre più a veri e propri tour de force. In tal modo funzionali più al mercato e all’industria editoriale (con i relativi fatturati) che non a quella diffusione di cultura su cui qualcuno, parlando di festival, ancora si illude.