Cocco Bill non muore mai

Niente spaghetti, per una volta: cinquant’anni fa insieme a Cocco Bill nasceva piuttosto il salame-western, presso la premiata ditta Benito Jacovitti. Ma come è possibile che un fumetto così surreale, infarcito di violenze inaudite, abbia imperversato per decenni sulle più caute testate per ragazzi, dal «Giorno» al «Giornalino»? La risposta va cercata esaminando la maniera comica dell’autore, che a forza di iperboli, sorprese e calembour disinnesca ogni perplessità, mettendo in azione una giostra irresistibile, con un occhio alle commedie slapstick di Buster Keaton e l’altro ai dipinti di Bruegel il Vecchio, nientemeno.
 
È passato mezzo secolo dal 28 marzo 1957, quando sulle pagine del «Giorno dei ragazzi» Cocco Bill ordinò la prima camomilla: e non si è ancora raffreddata, a quanto pare. Nonostante il suo creatore, Benito Jacovitti detto Lisca di Pesce, sia scomparso nel 1997, il fumetto western più allegro e sconclusionato del mondo continua a furoreggiare sul «Giornalino», grazie alla matita di Luca Salvagno. Recente è pure la raccolta in dvd dei cartoni animati realizzati da Pierluigi De Mas, già trasmessi dalla Rai, dove il Cocco approdò per la prima volta negli anni sessanta, in una serie di caroselli firmati dai fratelli Pagot. Su carta, si contano oltre mille tavole dedicate dal vulcanico Jacovitti alla sua creatura più celebre, protagonista in tutto di una settantina di storie, apparse – dopo un decennio al «Giorno», dove videro la luce gli episodi più significativi – sul «Corriere dei Piccoli», «Il Giornalino», «Tv Junior» e saltuariamente su altre testate, mentre resta ancora da catalogare il capitolo riguardante le traduzioni, dilagate dalla Norvegia al Venezuela.
Nel sagomare Cocco Bill, Jacovitti sfruttò l’enorme proliferazione toccata nel dopoguerra a un genere che in Italia annoverava allora non solo Tex Willer, ma anche altre saghe amatissime, come Pecos Bill, Il Grande Blek, Capitan Miki. È impreciso tuttavia sostenere – come capita spesso – che nell’occasione sarebbe nato il western comico nostrano. Piuttosto, Jac non fece che estendere al campo del fumetto una maniera farsesca che al cinema aveva già fruttato cospicui successi, per esempio a Macario (Il fanciullo del West, 1943) e Renato Rascel (Il bandolero stanco, 1952), ripresa alla fine degli anni cinquanta da Ugo Tognazzi, e poi ancora intorno al 1970 da Terence Hill, nei panni di Trinità. Parodie, in buona sostanza: e a passare in rassegna l’intera produzione di Jacovitti, è facile notare come le riscritture giocose rappresentino una stella polare. Stanno a dimostrarlo le decine di eroi contraffatti che modellò: il mago Mandrago, Giulietto e Romea, Giacinto corsaro dipinto, Zorry Kid, eccetera. Certo non potevano sfuggire al disegnatore termolese le potenzialità dell’ambientazione western, cui un classico come Topolino non per nulla aveva fatto ricorso sin dalla seconda avventura. Non bisogna inoltre scordare che data alla metà degli anni cinquanta il trionfo paneuropeo di Lucky Luke, il solitario cowboy balzato fuori dall’immaginazione del belga Morris. Quanto all’Italia, l’unico precedente di una qualche consistenza si può individuare nella serie «Fox lo sceriffo», impostata da Giorgio Rebuffi nel 1949, con antropomorfizzazioni di chiara matrice disneyana.
Peraltro, l’interesse di Jacovitti per il Far West risulta molto precoce, databile addirittura al tempo di guerra, quando pubblicò – appena ventenne – un albo riservato a Pete lo sceriffo (1943), cui nei tardi anni quaranta fecero seguito svariate storie del ragazzino Pippo farcite di indiani, saloon e sparatorie. In questo orizzonte, spicca infine una lunga storia a puntate apparsa sul «Vittorioso» nel 1955, incentrata sulla figura di Tex Revolver, uno scherzoso replicante dell’eroe di Bonelli (a partire dall’abbigliamento), da considerare un vero e proprio cartone preparatorio dell’impresa coccobillesca, per quanto in essa – è bene precisare – i rimandi appaiano decisamente più laschi. Se Tex Willer è un ranger, di stanza per lo più in Texas, di Cocco Bill non sappiamo granché. Un cacciatore di taglie? Un federale? Un cowboy di passaggio? O un ranger anch’egli? Considerando poi come il nostro cavaliere errante possa entrare in scena «all’alba di un pomeridiano tramonto mattutino», magari nel «milleottocentosettantaquindici», si comprende come la location non sia che una cartapesta di comodo, stesa dinanzi agli occhi di un pubblico che ha già perfettamente assimilato gli stereotipi tipici del filone. Sparatorie, diligenze, sceriffi, baracche, forzieri, indiani: come diceva John Ford, per creare un nuovo western non occorre cambiare niente rispetto ai precedenti – a parte i cavalli. E i salami, verrebbe da aggiungere…
Scegliendo questo genere, Jacovitti si ritrova per le mani un universo perfettamente rodato e al tempo stesso privo di leggi: insomma perfetto, per sbrigliare un’incontenibile attitudine all’assurdo giocoso. In primo luogo, come tutti sanno, dissemina in ogni angolo una caterva di salami, vermi, dita, ossa, macinini, quaglie, porcelli, lische e quant’altro gli passi per il capo, senza alcun rapporto con l’azione principale. Sorvolando sulle presunte valenze psicoanalitiche degli insaccati, mette conto rilevare come in questi riempitivi si concreti un horror vacui che ha spinto molti a definire barocca la maniera in questione. In realtà ben più calzante appare il paragone con l’opera di Bruegel il Vecchio (ammiratissimo da Jacovitti), specie se si guarda alle tavole «panoramiche» brulicanti di vita e deformazioni grottesche, un’altra specialità del fumettista nostrano, che vi fa ricorso soprattutto al momento dell’ingresso in città, o delle risse nel saloon. Il richiamo a Bruegel vale anche con riguardo alla sistematica visualizzazione delle metafore, che ricorda il celebre olio sui proverbi fiamminghi. Jacovitti declina così una tecnica tipica del fumetto umoristico, per cui quando Cocco Bill costringe un malvivente a sputare il rospo, ecco che si vede arrivare addosso un enorme e un po’ stupito batrace; se gli stonano da presso con una tromba, casca per terra tramortito dalla nota; e così via. Il coccomondo trae la sua esilarante incongruenza non da carnevaleschi capovolgimenti di gerarchie e valori, ma dalla fedeltà al letterale, secondo un’inveterata tradizione della stampa umoristica cattolica (sulla quale Jac si formò), tuttora tenuta viva dalle stucchevoli vignette di «Famiglia Cristiana». Quest’immarcescibile, innocuo spirito di patata è trasfigurato grazie a un’inventiva prodigiosa, che suggerisce accostamenti a volte geniali: tuttavia, di qui a ritenere Jacovitti un surrealista tout court – come vorrebbero molti suoi estimatori – ce ne corre.
L’assurdo dilaga anche sul piano linguistico, in una piedigrotta di invenzioni, malintesi, filastrocche e calembour, che precipitano in un immenso calderone, a coniare cento idiomi, dalle maccheronate in russo o inglese all’irresistibile napoletano degli indiani Ciriuacchi («Ahò viscepa’, iovòio quaiò! Oquaiò kaimagnà!»). A uno sguardo d’insieme, colpisce nelle tavole di Jacovitti la verbosità, tanto nei dialogati quanto nelle didascalie (vi si potrebbe vedere un retaggio degli esordi al tempo del fascismo, quando i balloons erano vietati). Ne deriva con ogni evidenza un rallentamento della lettura, aumentato dall’imprevedibilità e dalla movimentazione delle posture. Il dinamismo esasperato, iperbolico, è infatti la cifra stilistica fondamentale del disegno jacovittiano. Oltre la metà delle vignette tratteggia azioni fulminee, sulla falsariga di un modello fondamentale, il Popeye di Elzie C. Segar. Ma Cocco Bill non si limita a cazzotti, manrovesci, bottiglie rotte e tavoli sfondati, secondo il consueto repertorio. Il filo conduttore delle sue storie coincide con la traiettoria delle pallottole, che si rincorre da una tavola all’altra, secondo linee cinetiche stupefacenti, tra tuffi, piroette e salti mortali, naturalmente eseguiti a velocità siderale. Lucky Luke è talmente lesto da impallinare la propria ombra? Bazzecole. Il Cocco può lanciare una pistola in aria e colpirne il grilletto con una seconda, in modo da fulminare un nemico acquattato dietro un masso.
In effetti, scostandosi dalle prassi consuete nel western europeo, le avventure di Cocco Bill sono costellate di omicidi, compiuti con noncuranza o persino allegramente. Se a ciò si sommano i continui squartamenti, le gragnuole di bastonate che non risparmiano vecchi, donne e bambini, bisogna ammettere che abbiamo a che fare con un fumetto di cinismo e violenza inauditi, al quale Sergio Leone dovette gettare più di uno sguardo, nello sceneggiare la trilogia del dollaro: un rapporto più tardi invertito, come tradiscono alcuni titoli, da II Cocco Bello, il Brutto e il Cattivo (1967) a Scioscioscioni Cocco Bill! (1976). Le riserve perbeniste, che sempre accompagnarono questo versante dell’opera di Jacovitti, non gli impedirono di essere abitualmente di casa sulla stampa per ragazzi cattolica, o comunque provvista del marchio MG di Garanzia Morale. Un tale paradosso si spiega con l’assoluta mancanza di drammaticità delle scene più crude, trattate in chiave di commedia slapstick, con morti e feriti che cascano in pose teatrali, o finiscono in una bara comparsa d’incanto, già composti e a mani giunte. Manichini di gomma, rappresentazioni chiaramente antirealistiche, come conferma la programmatica assenza di sangue, persino in occasione di sforacchiamenti a mo’ di gruviera e amputazioni spettacolari, per le quali Jacovitti nutre grande entusiasmo, arrivando in una delle storie più movimentate Jacovittevolissimevolmente Cocco Bill, 1978) a far tagliare in due il Cocco da un sadico Piedi Neri. Ma l’eroe non schiatta e anzi si lamenta con l’indiano irrispettoso dei ruoli, convincendolo a tornare indietro di sette vignette e ricominciare da capo, per poi scorbacchiarlo a modo suo. Allo stesso modo, in Coccobilliput (1970), la Mamma – un malvagio e barbutissimo criminale – sconfigge inopinatamente Cocco Bill, che tuttavia riesce a riscattarsi facendogli presente che restano da riempire ancora nove tavole, abbastanza per rovesciare la situazione.
Al di là del gusto per il metafumetto e la mise en ahimè (che altrove porta Jac a mettersi in scena, o a farsi aspramente rampognare dalle sue creature), quest’ultimo episodio importa in quanto spia di un sostanziale disinteresse nei confronti dell’intreccio. D’altronde, è noto come Jacovitti tenesse a far tutto da sé, sceneggiando le proprie storie e disegnandole direttamente a penna, senza l’ausilio delle matite, a ritmi indiavolati. Inevitabilmente, le vicende del Cocco si dipanano su canovacci standard, disseminati di risse, duelli e agguati, di regola risolti con vittorie travolgenti su variopinte bande di malvagi, senza alcun nesso cronologico tra un’avventura e l’altra. Cocco Bill in ultima analisi può dunque funzionare come un semplice reagente, un principio distruttivo che Jacovitti sposta dall’Alaska al Canada, dal Messico alla Russia, divertendosi a trasformarlo in sceriffo, corsaro e persino cosacco.
Su questi presupposti, chiedersi in nome di quali princìpi il Cocco metta mano alle pistole sarebbe ingenuo. Il liberale anarcoide Jacovitti crea un eroe che viene semplicemente a punire il mondo, senza neppure sognarsi di cambiarlo. Inoltre non dimostra alcuna inclinazione né per lo psicologismo, né per le fisionomie, tanto che i comprimari finiscono per assomigliarsi tutti, partecipi di un prognatismo accentuato e asimmetrico che li fa parere un battaglione di stralunati cugini di Totò. Lo specifico caratteriale di Cocco Bill si fonda soltanto sulla plebea, strafottente irascibilità, che lo pone agli antipodi del serafico Lucky Luke e lo allontana dai trascinanti spacconi di moda ai tempi in cui nacque, Fred Buscaglione in prima fila. Con essi, il Cocco non condivide neppure la passione per il gentil sesso, a giudicare dall’allergia alle sceriffe (d’altronde scusabile, data la somiglianza con Tina Pica) e soprattutto alla dinamica signorina che per lui si strugge, Osusanna, della quale il destriero Trottalemme appare fieramente geloso, tanto che non manca chi si spinge a considerarlo – oltre che spalla, censore e madre premurosa – l’unico vero amante del suo padrone. Ma anche a Trottalemme, almeno una volta, Cocco Bill fece le corna: quando Jacovitti lo disegnò in sella a un cavallo a sei zampe, il Supercavallomaggiore. Uno sberleffo all’Eni, per giunta apparso sul «Giorno» di Mattei, che scatenò un putiferio.