Racconta un mondo instabile punteggiato di esperienze esistenziali, politiche e sociali drammatiche, e si serve della lingua del paese ospite per produrre una visione «straniata» e dunque più efficace. È la narrativa del «broken Italian»: quella di chi è nato altrove ma, migrato qui, scrive nella nostra lingua; quella delle seconde generazioni in bilico tra identità primaria e futuro. Un patrimonio di storie «altre» che rompe la lingua, i modelli rappresentativi, i codici dell’immaginazione, la fragilità della fedeltà e dell’infedeltà alla tradizione della letteratura nazionale.
Se non è una novità l’uso dell’inglese (non meno di quello del francese o del portoghese) nei romanzi di scrittori con origini o radici diverse da quelle della «lingua franca» che veicola l’esperienza del raccontare, lo è invece l’uso dell’italiano. Inglese, francese e portoghese hanno a che fare con lo sviluppo di una letteratura che è stata anche chiamata, con termine controverso, «postcoloniale». Al di là di un non mai troppo ovvio legame fra classe, educazione e forme di egemonia culturale, la lingua dei colonizzatori ha giocato un ruolo fondamentale nello stesso processo di affrancamento, e soprattutto – attraverso assorbimenti progressivi – è venuta cedendo a forme e modi che ne hanno reso più duttile la struttura, creando un’interazione non conflittuale fra normatività ed espressività. Ne è esempio eclatante il broken English, l’inglese scorretto, che da tempo è, e continua a essere – quanto più si impone come lingua d’uso trasversale –, un’area fertilissima di sperimentazione.
L’italiano è esposto invece a forme di migrazione recentissima. Si «rompe» non meno di quanto si sia rotto attraverso l’influenza dei dialetti nazionali, ma crea in ogni caso – e necessariamente – aree franche, mescidazioni, brecce. E comunque, credo, fenomeno troppo recente perché gli studi linguistici possano registrare sensibili trasformazioni.
La stessa esperienza di scrittori che «adottano» l’italiano come lingua narrativa non va al di qua dei primi anni novanta, quando la prova-battistrada fu il libro scritto a quattro mani da Oreste Pivetta e Pap Khouma, Io, venditore di elefanti (Garzanti, 1990). L’esperienza reportagistica di Pivetta apriva la strada, attraverso l’ascolto e il montaggio di un materiale che apparteneva a un naturai born storyteller. Apriva la strada ad altre storie che avrebbero non solo testimoniato le migrazioni in atto, ma anche acceso l’opportunità di raccontarne le conseguenze. Fra il 1990 e il 1991 escono anche Immigrato di Salah Methnani e Mario Fortunato (Theoria), Chiamatemi Ali di Mohamed Bouchane (Leonardo), La promessa di Hamadi di Saidou Moussa Ba e Alessandro Micheletti (De Agostini).
Piccoli e grandi editori hanno cercato negli anni successivi di motivare scritture o monitorarne l’emersione creando un paesaggio ricchissimo di nomi e titoli, di cui dà nota Raffaele Taddeo nel suo generoso Letteratura nascente. Letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche (Raccolto Edizioni, 2006). Un paesaggio avventuroso, ricco di sperimentazioni, che in ambito accademico ha avuto un attento scrutatore in Armando Gnisci (cito fra gli altri i titoli: La letteratura italiana della migrazione, Lilith, 1998 e Nuovo planetario italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa, Città Aperta, 2006).
Né peraltro, da un punto di vista più militante, si possono dimenticare l’attenzione esercitata da uno scrittore come Piersandro Pallavicini (la sua collaborazione alle riviste «Fernandel» e «Pulp», e la consulenza attiva alle Edizioni dell’Arco), o gli interventi che alla letteratura migrante ha dedicato Carmine Abate.
Ma non voglio qui ripercorrere un segmento di storia letteraria ancora così denso di potenzialità e dunque esposto a periodiche accelerazioni giornalistiche (un articolo importante di Flavia Capitani e Emanuele Coen apparso sul «Venerdì di Repubblica» nel 2005: E l’Italia gira pagina con gli scrittori venuti dall’Africa), entusiasmi critici compresi fra la perorazione e la promozione, sospette appropriazioni accademiche.
Le mie competenze non possono in ogni caso contribuire a una valutazione del «fenomeno» nel suo complesso – così difficile, mi sembra, da ricondurre a una sintesi efficace. Preferisco limitarmi alla percezione di alcuni elementi che il lavoro editoriale mi porge con sufficiente chiarezza. Fra gli altri, quello che concerne il notevole impegno profuso da editori grandi e medi, ma soprattutto piccoli (fra gli altri: Portofranco, Fara Editore, Sinnos Editore, Edizioni dell’Arco, Edizioni Eks&Tra), nel sostenere la «causa editoriale» della letteratura migrante. Una «causa» che, ad esempio, gli stessi Capitani e Coen hanno sposato, dopo l’articolo sul «Venerdì», curando per Laterza nel 2006 Pecore nere, un volume che raccoglie le prove narrative di quattro scrittrici: Igiaba Scego, di genitori somali; Laila Wadia, nata a Bombay da genitori indiani; Ingy Mubiayi, nata al Cairo da padre congolese e madre egiziana; e Gabriella Kuruvilla, nata in Italia da padre indiano e madre italiana.
Il guaio – se così possiamo chiamarlo – è che «letteratura migrante» rischia di diventare una formula che in verità assembla esperienze (e migrazioni) molto diverse.
Ho preferito porre direttamente la domanda su cosa possiamo intendere per letteratura migrante a Piersandro Pallavicini. «Vedo la letteratura migrante» dice «come la letteratura di chi è nato altrove, è migrato qui, e scrive nella nostra lingua, ma non solo: “percepisco” come letteratura migrante anche quella delle “seconde generazioni”, cioè quella scritta dai figli – nati qui – dei migranti. Non ne faccio una questione di esperienza della migrazione vissuta in prima persona: il carico di differenze, il catalogo di immaginario, gli attriti e la sovrasensibilità vissute su (o causate da) la propria pelle appartengono anche a chi ha una famiglia migrante ma è nato qui. La definizione di “letteratura migrante”, nella mia immaginazione, non è insomma né tecnica né di comodo, ma riunisce in una categoria che percepisco chiaramente (ma fatico a definire con una formula) gli scrittori che portano su di sé visibili differenze che, consciamente o meno, si riverberano profondamente su ciò che scrivono [corsivo mio].»
In verità, il fenomeno sociale della migrazione non è univoco e uniforme. Così come non è uniforme il rapporto che si stabilisce fra lingua originaria e lingua di servizio, fra radici identitarie e costruzione di una nuova identità, fra l’espressione di un disagio in forma di dialogo o di polemica con il paese ospite (o con il paese di origine) e il racconto di un’esperienza drammatica che ha bisogno della lingua del paese ospite per produrre una visione «straniata» e dunque più efficace dal punto di vista dell’evocazione di dolorosi dati di realtà.
In questa fondamentale difformità esiste comunque un aspetto non trascurabile che accomuna esperienze esistenziali, politiche, sociali profondamente diverse: quali che siano la provenienza o le ragioni della provenienza di chi scrive, ci troviamo di fronte a un patrimonio e a una ampiezza di storie dalle quali discende una visione di un mondo instabile, che si muove, spesso con esiti drammatici.
Una scrittura narrativa che, consapevolmente o meno, sia veicolo di quel movimento e di quelle storie è in grado di aprire un taglio prospettico inedito sulla realtà del nostro paese, messo per la prima volta alla prova con l’immigrazione, con i conflitti etnoreligiosi, con il razzismo.
Fondamentale è la formazione di una percezione socioculturale destinata a erodere progressivamente l’immaginazione modellata dall’esotismo culturale, quel misto di distanza e diversità folkloristica che è l’altra faccia dell’odio e della paura della diversità.
Chi ha riconosciuto nelle prime prove di quella che è stata chiamata letteratura migrante una svolta vitale, non sbagliava.
Sbagliava forse nell’istituire classificazioni di comodo, nell’immaginare una sorta di rigenerazione letteraria, nel compiacere esperimenti espressivi non sempre all’altezza delle ambizioni e delle aspettative.
Quel che si «rompe», come anticipavo sopra, non è esattamente la lingua, o non è solo la lingua – anzi, semmai potremmo registrare un percorso inverso, un uso rispettoso di un italiano letterario, comunque di un italiano corretto –, quanto i modelli rappresentativi, i codici dell’immaginazione, la fragilità della fedeltà e dell’infedeltà alla tradizione di una letteratura nazionale. Da quel «rompersi» è possibile il discendere di un taglio straniato del guardare indietro – alle proprie origini – o del guardare avanti – all’Italia ospitante, o ancora, più semplicemente, del guardare in sé.
Dal punto di vista della cultura nazionale, tutto ciò ha un peso specifico non indifferente.
Più della lingua italiana, è l’Italia a rompersi. Ad aprire spazi. Ad arricchire di sostanza e sicurezza l’avventura interculturale che caratterizza la vita sociale del nostro paese.
Il modo in cui Jadelin M. Gangbo, in Rometta e Giulieo (Feltrinelli, 2001), muove uno scenario multietnico è significativamente privo di intenzioni dimostrative: è lo scenario che conoscono i protagonisti del suo romanzo. La stessa cosa accade in Amiche per la pelle (e/o, 2007), di Laila Wadia, che pur affronta deliberatamente il tema dell’integrazione. E numerosi sono gli esempi che, dentro la letteratura di testimonianza o al di fuori di essa, si dispongono «semplicemente» a raccontare.
Si direbbe che, rispetto alle nuove generazioni di scrittori italiani (giovani e no) che si sono affaticati intorno alla destrutturazione del «parlato», alle tardive prove di non-romanzo, di romanzo ombelicale, di romanzo-reportage egocentrato, e infine di riscoperta del romanzo attraverso il recupero (anche quello tardivo) del postmoderno americano, gli scrittori che hanno adottato l’italiano solo recentemente come lingua letteraria si sono sentiti – anche per ovvie ragioni – molto meno condizionati dal fare i conti con codici linguistici in ebollizione, con lo schierarsi pro o contro la restaurazione della narrazione pseudoottocentesca. Questi scrittori portano innanzitutto delle storie, e le portano in un contesto linguistico che sentono permeabile – forse più permeabile di quanto appaia a chi di quel contesto sente soprattutto la costrizione.
Superata la fase della letteratura testimoniale (che è sovente fatta di testi scritti a quattro mani o ampiamente rivisti in sede editoriale), ci troviamo di fronte a figure di narratori forti.
Insieme al romanzo di Gangbo posso citare – facendo riferimento alla mia esperienza editoriale – le opere di Bijan Zarmandili, Elvira Dones e Maksim Cristan.
Quattro esperienze molto diverse fra loro. Bijan Zarmandili, dopo il trasferimento in Italia dall’Iran dello scià, ha lavorato a lungo come giornalista. La grande casa di Monirrieh, che ha pubblicato per Feltrinelli nel 2004, è il suo primo romanzo. Vi si racconta la storia di Zahra (unico personaggio, al di là di quelli della recente storia persiana, che porti un nome). E una donna che, senza proclami o prese di partito ideologiche, opera continuamente scelte controcorrente che la espongono progressivamente a un destino in tollerabile. Si leggono attraverso Zahra – o addirittura sul corpo di Zahra – le vicende di un paese sospeso fra istanze di straordinaria apertura e improvvise risoluzioni reazionarie. A La grande casa di Monirrieh ha fatto seguito destate è crudele (2007), dove si racconta di due studenti iraniani, del loro amore nato in Italia nel 1960 e della loro dedizione alla lotta politica fino al sacrificio della vita. Rispetto al primo romanzo, è più evidente la relazione Italia-Iran (che è parte costitutiva della biografia dello scrittore) e, per molti versi, suona più decisiva quella lingua «di esilio» che è il tratto specifico della scrittura di Zarmandili: una lingua corretta, addirittura limpida e a volte elegantissima, che aderisce con straniata partecipazione alle vicende drammatiche attraverso un uso insistito, e tutt’affatto particolare, dell’indicativo presente.
Singolare il percorso dell’albanese Elvira Dones. Nel 2001 Feltrinelli pubblicò Sole bruciato, un romanzo molto duro, molto severo sulla prostituzione albanese. Dones, che aveva già allora un sicuro possesso dell’italiano, seguì le fasi più complesse della revisione della traduzione dall’albanese. Fu quella un’esperienza che successivamente finì con il convincerla a scrivere direttamente in italiano, sua lingua di adozione dopo la fuga dal paese d’origine (precedente l’esodo di massa degli anni novanta) e una lunghissima permanenza a Mendrisio nel Canton Ticino (dove viveva il marito).
E interessante che il passaggio sia avvenuto con un romanzo, Vergine giurata (2007), in cui l’autrice prende le mosse da una antica tradizione delle montagne del Nord dell’Albania che prevede la possibilità di farsi uomini per le giovani donne la cui famiglia non possa contare su una prole maschile. Fa «vergine giurata» assume allora il ruolo e i poteri del maschio di casa, fa lavori pesanti (pastorizia, per lo più) e gode dei privilegi appannaggio degli uomini. Tornare a essere donna è una scelta punita anche con la morte. Hana, la protagonista del romanzo di Dones, tradisce due volte: prima la sua femminilità, per diventare il maschio della famiglia e garantirne l’onore, poi il patto che le ha assicurato il privilegio della virilità istituzionale. Il fascino di questa storia è in realtà legato al passaggio dalla arcaicità di un mondo semitribale all’America delle libertà apparenti, in cui è comunque una sofferta fatica trovare in sé la donna tradita e perduta. Ancora una volta, è nel segno dell’intercultura o del multiculturalismo che la particolare accezione di un possibile broken Italian apre spazi inattesi. Non è la storia arcaica (interessantissima dal punto di vista antropologico – alla quale peraltro Dones ha dedicato uno straordinario documentario realizzato per la tv svizzera), non è la storia arcaica a fare da perno in Vergine giurata, ma lo strappo dall’uno all’altro mondo (l’America), dentro un terzo mondo (quello linguistico italiano).
E lo strappo avviene anche a livello linguistico. Uno strappo sul quale ho interrogato sia Elvira Dones sia Ornela Vorpsi, egualmente albanese ma residente in Francia e autrice di II paese dove non si muore mai e La mano che non mordi (Einaudi, 2005 e 2007). Essendo entrambe le scrittrici «esposte» a una sollecitazione multilinguistica e avendo entrambe scelto l’italiano come lingua della scrittura, viene quasi naturale la curiosità di sapere se sia indifferente l’uso dell’una o dell’altra lingua (la lingua materna e la lingua, diciamo così, creativa).
Dones: «Dal momento che si è trattato d’un passaggio maturato nel tempo – e non improvviso, non forzato –, ormai mi trovo in pace con entrambe le lingue. Perché è vero che affinare l’italiano è per me un lavorio continuo, ma è altrettanto vero che io devo proteggere sia il mio italiano, sia il mio albanese, dal pericolo di contaminazione con le altre lingue che uso quotidianamente: l’inglese, soprattutto, ma anche lo spagnolo. In questo senso, vivendo ora negli Stati Uniti, nessuna delle mie due lingue principali è in una condizione privilegiata. Entrambe hanno bisogno di cura e protezione. E una situazione sicuramente anormale, non facile da tenere a bada, e per questo mi piace».
Vorpsi: «Non può essere indifferente l’uso dell’una o dell’altra lingua, per il fatto che si deve entrare nella dimensione della lingua che “scegli”, penetrare la sua atmosfera, ci si deve scavare dentro, si deve creare il proprio “nido”, o meglio sentire la possibilità di “utilizzarla”, conoscerla (intendo conoscerla visceralmente, organicamente, non intendo la conoscenza corretta, ortodossa, perfetta), nel senso di sentire come puoi vestirla. Quando cambio lingua – nel mio umile caso –, devo “direzionarmi” per vestire altro, cosa che mi chiede tanta energia mentre sono divorata dai dubbi. Potrei vestirmi di questo abito? Non sempre può essere il caso. Sento che il francese per il momento mi stringe fin troppo la carne, me la rende livida».
L’esperienza di Maksim Cristan e del suo (fanculo pensiero) è ancora diversa. Somiglia ai memoriali che per molti versi hanno costituito la testa di ponte della letteratura migrante, ma in realtà muove verso altri esiti: un romanzo di deformazione e riformazione nel quale l’esperienza soggettiva del protagonista (un croato trentenne che abbandona i traffici di legname che lo hanno arricchito nel dopo comunismo e sceglie di fare il barbone e poi lo scrittore di strada nelle vie di una Milano berlusconiana, oscura e segreta) diventa bukowskianamente la calamita morale dell’accadere. Maksim sembra entrare progressivamente in possesso di un punto di vista sbilenco, sguincio, che fra humour, grottesco e squarci sentimentali si fa obiettivo puntato (senz’astio, senza moralismo) sul finto benessere italiano, o più in generale sulla finzione assoluta delle ruolizzazioni, dei comportamenti precostituiti.
Anche qui il multiculturalismo, non c’è dubbio, svolge una parte importante. Quanto più la lingua di Cristan assume sicurezza, e dunque più «diventa italiano», tanto più qualcosa si rompe, e in quel rompersi ci pare di cogliere il senso non tanto di un migrare, non tanto di un rinascere, bensì di una fitta trama di possibili relazioni tra identità altrimenti riconoscibili solo sulla nuda mappa della geografia sociale.
«I signori comprano. La scena continuò a ripetersi diverse sere. Incuriositi gli acquirenti mi chiedevano: “Non sei italiano. Di dove sei?”. “Non ho ancora deciso” rispondevo io, e molti ridevano.» Così scrive Cristan in un episodio del racconto. Quella sapiente indecisione la dice lunga sulla fisionomia del broken Italian. Quando l’identità primaria sta scivolando in una identità nuova, lo stallo si rivela un’istanza di vitalità. È inevitabile restare sul confine che divide l’una dall’altra «condizione».