Il giallo storico conferma il diffuso ritorno ai generi letterari. Ma mostra pure uno statuto di genere incerto, incline a sbilanciarsi verso l’uno o verso l’altro dei suoi due modelli. Nei gialli storici le attrattive d’intreccio spesso cedono il passo all’autocompiacimento dell’autore, che esibisce le proprie competenze, gratificando se stesso ma evidentemente anche il lettore. Saremmo tentati di parlare di una narrativa di nicchia: se non fosse che il fenomeno ha notevolissime proporzioni quantitative. Nato nei paesi di lingua inglese, il giallo storico si è ormai consolidato anche in Italia, dove offre un ventaglio di testi comunque molto vari.
Nella sua apparente bizzarria, il sottogenere del giallo storico conferma, con abbagliante evidenza, il diffuso ritorno ai generi letterari, ormai in corso da circa tre decenni: colpisce infatti che, fin dal sintagma che lo definisce, esso faccia riferimento a ben due generi, e quanto robusti. Da un altro lato, e senza alcuna contraddizione, esso mostra uno statuto di genere incerto, cronicamente incline a sbilanciarsi verso l’uno o verso l’altro dei suoi due entrambi irrinunciabili modelli. In parole povere, alcuni gialli storici sono decisamente dei gialli, tesi a sfruttare le risorse d’intreccio della detection e più in generale della suspense legata a vicende criminose; altri gialli storici, invece, sono in buona sostanza romanzi storici, coloriti e vivacizzati da eventi delittuosi. Paradossalmente, i gialli storici finiscono per riaffermare in modo irresistibile la costitutiva vocazione del romanzo alla mescolanza, proprio mentre sembrerebbero negarla, visto che mettono in atto quello che il solito geniale Bachtin chiamava «criticismo di genere»: cioè la relativizzazione inevitabile del modello, nel momento in cui viene visibilmente associato a un altro.
In realtà le oscillazioni strutturali dei gialli storici sono ben più variegate e sfumate: anche se mettono comunque radici nella tendenza a far prevalere l’uno o l’altro dei due modelli principali. L’oscillazione chiama in causa soprattutto l’uso dello sfondo storico: in taluni casi tenuto nei ranghi di un contesto suggestivo, ma funzionale alla progressione della vicenda; in altri invece dilatato e prevaricante, gonfiato di infiniti riferimenti a fatti, usanze, atteggiamenti, abiti, mobili, testi e così via. Da questo punto di vista, il giallo storico si presta chiaramente a sviluppare una sorta di bulimia strutturale, dal momento che in linea di principio legittima ogni tipo di arricchimento dei dettagli relativi al contesto, con il conseguente allargamento delle dimensioni testuali. Potremmo persino dire che esso tende a mettere in crisi il principio di ellissi, implicito ma fondamentale nella narrativa, che impone al narratore di resistere a molte tentazioni, per non perdere di vista il filo principale della storia. Non a caso del resto molti gialli storici (come già molti romanzi storici tout court} tendono irresistibilmente alle grandi dimensioni, dalle quattro-cinquecento pagine in su. Costitutivamente disponibile a rinunciare almeno in parte alle attrattive dell’intreccio, esso sviluppa spesso un patto narrativo dove l’autocompiacimento dell’autore, tutto teso a mostrare le proprie competenze storico-erudite, si riverbera sul lettore, mosso a sua volta da un meccanismo di autocompiacimento, in quanto gratificato dalla propria stessa capacità di muoversi nella selva del sapere autoriale, al quale comunque partecipa.
Molti autori di gialli storici si concentrano su epoche lontane, particolarmente adatte a stimolare l’esotismo temporale, e forse anche i ricordi di scuola. La fanno da padroni, anzitutto, la classicità greco-latina e il Medioevo. Basti pensare alla canadese Margaret Doody, che ha avuto l’idea di ricondurre i metodi logico-induttivi di Sherlock Holmes nientepopodimeno che all’inarrivabile padre di tutte le logiche dell’Occidente: cioè ad Aristotele, protagonista di tutta una serie di romanzi (pubblicati in Italia da Sellerio), da Aristotele detective a Aristotele e la giustizia poetica e così via. L’inglese Lindsey Davis ha invece inventato un ipotetico detective privato dell’imperatore Vespasiano: Marco Didio Falco, protagonista di un’altra serie da Le miniere dell’imperatore a La mano di ferro, La venere di rame, L’oro di Poseidone. Internet può darci la misura del successo di questi autori: lanciando il nome di Lindsey Davis su Google, si ottengono oltre 3.500.000 siti. Se lanciamo il nome di un’altra autrice celebre, l’inglese Ellis Peters (nom de piume di Edith Pargeter), troviamo ancora ben 2.500.000 siti. I suoi gialli, ambientati nel XII secolo, hanno come protagonista un monaco, fratello Cadfael, probabile antecedente del Guglielmo da Baskerville di Il nome della rosa-, il catalogo Longanesi TEA offre al lettore italiano ben ventisei titoli della Peters, dal tardo e fortunatissimo esordio con La bara d’argento (uscito in Gran Bretagna nel 1977: quindi proprio a ridosso dell’ancor più fortunato esordio di Umberto Eco, che è del 1980), a Il cappuccio del monaco, Il rifugiato dell’abbazia, Il novizio del diavolo, Il pellegrino dell’odio, IL apprendista eretico. Alla Peters sono state recentemente dedicate ben tre antologie di racconti, condensate poi in un’antologia delle antologie, IL arte del delitto. Omaggio a Ellis Peters (a cura di Maxim Jakubowski, 2006), dove il prefatore ci ricorda opportunamente, qualora ce ne fossimo dimenticati, che il giallo storico, fondendo «storia e mistero», mostra una sua peculiare vocazione a «offrire al lettore qualcosa di impegnativo e insieme divertente»: il che, aggiungo io, ci riporta dritti dritti (Watt docet) alle origini stesse della civiltà letteraria borghese. Il panorama offerto dall’antologia ci aiuta anche a cogliere il ventaglio dei contesti storico-geografici privilegiati dal genere: il Medioevo in testa, poi la Roma imperiale (con netta prevalenza del I secolo d.C., tra dinastie Giulio-Claudia e Flavia) e la Grecia classica, l’Egitto dei Faraoni, il Cinquecento e il Seicento (specialmente Riforma e Controriforma, ma anche l’Inghilterra elisabettiana), la guerra civile americana, l’età vittoriana, la Seconda guerra mondiale (molto meno la Prima). Ci sarebbe peraltro da riflettere parecchio sulle predilezioni tematiche degli scrittori del genere: perché rivelano evidentemente il persistere di topoi culturali di lungo periodo, cioè insieme di ossessioni e rimozioni, radicate sì nella tradizione letteraria, ma prima ancora nella congiunzione fra miti nazionali e tradizione scolastica. Il che, a mio avviso, la dice lunga sulle dinamiche psicologiche insite nel successo del genere, che offre ai suoi lettori gratificazioni culturali anche e proprio perché dà loro un po’ la sensazione di ritornare a scuola: ma in una scuola senza esami, dove ci si sente immancabilmente bravi.
Anche gli autori italiani si concentrano anzitutto sulla classicità greco-latina: si pensi a Valerio Massimo Manfredi, specialista di topografia del mondo antico (autore, fra gli altri, di Alexandros, Il figlio del Sole, Le sabbie di Amori, Il confine del mondo, Palladion, Chimaira) e a Danila Comastri Montanari (ricordiamo Gallia est, Mors tua, Cui prodest, In corpore sano, Spes ultima dea, Parce sepulto, Morituri te salutant), che come Lindsey Davis ambienta le sue storie nella Roma del I secolo d.C., affidando le inchieste a un detective di alti natali, il senatore Publio Aurelio Stazio. Quanto al Medioevo, mi limiterò a ricordare Giulio Leoni, che ha scelto come detective nientedimeno che Dante Alighieri, nella trilogia Dante e i delitti della Medusa, I delitti del Mosaico, I delitti della luce.
Se ci concentriamo sul biennio 2005-2006, ritroviamo Danila Comastri Montanari, con Tenebrae (2005), tredicesima puntata della saga di Publio Aurelio. Anche se imperniate su casi criminali, le storie di Publio Aurelio hanno trame esili, che continuamente sciorinano compiaciuti dettagli eruditi, con vistosi ammicchi al latinorum scolastico (basti pensare ai titoli). Eppure la preoccupazione dell’esattezza storica s’intreccia con anacronismi flagranti, in un quadro di assoluto antirealismo. Spicca, in particolare, la totale inverosimiglianza del segretario di Publio Aurelio, il liberto Castore, al tempo stesso erede della tradizione comico-teatrale del servo furbo, simpatico e gaglioffo, ma anche di quella giallistica dell’aiutante (da Watson a Archie Goodwin, allo Harry Klein di Derrick): Castore accampa una stupefacente insolenza verso il proprio padrone, cui chiede sempre quattrini, e che non esita a derubare, è sempre in ritardo (perché sempre impegnato a sollazzarsi con bellissime ancelle), sempre riottoso a obbedire, pronto a contraddire Publio Aurelio e persino a fargli rischiare la vita. Ma le esagerazioni del servo sono ben poca cosa di fronte al superlativo assoluto e continuato che affligge il padrone: bellissimo, superseduttore, coltissimo, ricchissimo, generosissimo, fisicamente fortissimo, audacissimo, e, non ultimo, incredibilmente moderno e democratico, pronto a liberare schiavi e perfino a prender parte alle loro rivolte. Al confronto, gli eroi dannunziani sono degli inetti. All’iperbolica nobilitazione del protagonista fa riscontro una narrazione che va avanti a forza di invenzioni sorprendenti, impedendo al lettore qualsiasi ipotesi plausibile sulla soluzione dei crimini. Più in generale, la spudorata glorificazione di Publio Aurelio Stazio fa ben vedere i debiti del giallo storico verso la resistentissima mitologia del superuomo di massa di gramsciana ed echiana memoria.
Anche se ci sono pochi gialli storici recenti dedicati al Medioevo, ce ne sono vari dedicati al periodo fra Rinascimento e Barocco. Fra questi spicca L’amico di Galileo (2006), corposo romanzo d’esordio del valente chimico e sinologo napoletano Isaia Iannaccone, pronto a far valere tutte le sue straordinarie conoscenze di storia della scienza e della tecnica europea e cinese, e a dispiegare una mole incredibile di informazioni sulla storia politica, la storia della Chiesa, la teologia, la medicina, la botanica, la geografia, l’ingegneria, la letteratura, e, last but not least, le lingue straniere, comprese le antiche (magari poco conosciute, come l’estranghelo, «un’antica forma di siriaco» usata dai nestoriani) e le orientali (il cinese). Protagonista assoluto della storia è ancora un frate, veramente esistito: Johan Schreck, detto Terrentius, medico e botanico, figura centrale della predicazione missionaria dei gesuiti in Cina, membro della prima Accademia dei Lincei, dove conobbe appunto Galileo Galilei. A differenza del Guglielmo da Baskerville echiano, Johan Schreck è solo un ricercatore, uno scienziato, e non assume davvero il ruolo del detective. L’intreccio giallo è qui ridotto all’osso, e la vera molla della storia è l’inquisizione, che perseguita lo Schreck fino in Cina, fra dispetti, ricatti, minacce e omicidi. Ciò rende il protagonista, indubbiamente, un eroe positivo, con il quale sarebbe difficile non schierarsi, e consente a 11 amico di Galileo, come del resto già il titolo lascia sospettare, di farsi portatore di un vigoroso messaggio laico: a difesa della scienza e della ragione, della necessità di sperimentare e della libertà di ricerca, contro l’oscurantismo e l’intolleranza, l’arroganza del potere e la violenza di ogni integralismo. Anche per questo L’amico di Galileo fa pensare a Il nome della rosa. La storia però tende a schematizzare l’opposizione tra buoni e cattivi, e troppo spesso annega nell’implacabile dispiegamento di informazioni erudite, davvero interessanti e rare: ma troppo spesso di dubbia funzionalità narrativa.
Come già avveniva nella tradizione del gothic tale, anche nel giallo storico ritroviamo spesso vicende ambientate a Roma: che funziona quasi da archetipo di storicità, nonché come scenografia suggestiva e prestigiosa. Così accade nella prima parte di L’amico di Galileo, ma anche nel garbato romanzo breve di Gianni D’Andrea, La misteriosa storia del ritratto di Oloferne (2006), più vicino alla tradizione del romanzo storico che a quella del thriller. Il bibliotecario Klaus Lusterhandt trova, nella Biblioteca Hertziana a Palazzo Zuccari, un fascio di carte appartenute a Jakob Salomon Bartholdy, console generale di Prussia a Roma dal 1822 al 1825: può così ricostruire la torbida storia di sangue che sta dietro il realismo particolarmente crudo del grande dipinto a olio di Giuditta e Oloferne di un convento di canonici agostiniani. Scopriremo che la testa di Oloferne rappresenta davvero la testa di un uomo decapitato, ucciso dai gemelli Nicola e Giuliano Masi per vendicare l’assassinio a tradimento del padre Tommaso, uomo semplice e buono, di forza straordinaria, diventato brigante dopo aver ucciso involontariamente un esattore delle tasse. Particolare ancora più conturbante, l’autore del quadro è proprio Nicola Masi, pittore capace di dipingere quadri di straordinaria, febbrile intensità: compiuta la vendetta, abbandonerà per sempre la pittura, e non solo.
La scala di Dioniso di Luca Di Fulvio (2005) conserva invece decisamente i tratti di un thriller, per quanto singolare, oltre che di notevole fascino. In prima approssimazione siamo di fronte a un robusto impianto da romanzo storico-sociale, che colloca gli eventi criminosi da cui prende avvio la vicenda in un momento precisamente individuato, e ad alto spessore simbolico: la notte del 31 dicembre 1899. Ma il contesto è d’invenzione: siamo in una città industriale, la cui principale risorsa è una fabbrica di zucchero, ironico emblema di un capitalismo oppressivo e rapace; accanto alla fabbrica sorgono sia le ville dei ricchi azionisti, sia lo squallido quartiere destinato agli operai, icasticamente chiamato La Mignatta. Il clima nebbioso, così come i fantasiosi nomi dei personaggi (Londe, Sciron, Stigle, Noverre, Ignès, Rinaud) spingono a immaginare uno scenario nordico: un po’ Londra di Dickens, un po’ miniera di Zola, ma con livelli di cattiveria tali da far sembrare la Dogville di Von Trier un paradiso per educande. A Zola rimanda del resto il nome stesso del protagonista, il commissario di polizia Milton Germinai, tossicodipendente come Sherlock Holmes, ma molto più tormentato: soprattutto perché, inseguendo un criminale, l’ha ammazzato con una coltellata, salvo scoprire che il criminale era una donna, e per di più incinta. Il romanzo costruisce una fitta rete di parallelismi tra immagini di morte e immagini di nascita: a partire dall’invenzione narrativa centrale, imperniata sul mito di Dioniso, con il quale un ferocissimo serial killer s’identifica, inscenando precise corrispondenze fra le proprie stragi sanguinarie e altrettanti passi di una rivelazione mistica (scandita sulla base delle baccanti di Euripide), che si confonde sinistramente con l’avvento del nuovo secolo. La progressione degli efferati massacri viene insieme rivelata e oscurata dai capitoli dove il narratore è l’assassino, che ci fa assistere in diretta ai suoi deliri di onnipotenza omicida, ma senza far trapelare pressoché nulla sulla sua identità. Non è facile delineare sinteticamente la storia di questo romanzo, perché Di Fulvio riesce nell’impresa, tutt’altro che semplice, di far coincidere l’accumulo di simboli con il procedere di una vicenda energicamente scandita e sempre capace di sorprendere: il risultato è un’atmosfera allucinata, e tuttavia mai privata delle sue radici parasociologiche. La stessa detection s’incrocia con la questione politica sociale: dal momento che le autorità spingono per trovare in fretta un capro espiatorio, convinte che gli assassini! siano in relazione con i conati rivoluzionari degli operai. Ma il commissario Germinai, eroe solitario, pieno di negatività (e pure a sua volta un po’ superuomo di massa), sa che la realtà è più complessa di come appare, e che i confini fra bene e male non sempre sono chiari, come ha sperimentato drammaticamente su se stesso. In modo emblematico, del resto, nel romanzo la spinta alla normalizzazione, tipica del poliziesco, si sovrappone alla presenza ossessiva di «diversi», figure inquietanti di un’irriducibile alterità: fenomeni da circo, scienziati fuorilegge, nani e giganti, autentici freaks, culminanti nella figura del dottor Noverre, medico anatomista deforme e focomelico, direttore di un ospizio per minorati, che la gente chiama «La città degli Animali».
Se Di Fulvio punta sull’accumulo e sull’iterazione, l’ultimo romanzo di Giorgio De Rienzo, Lettere d’amore di un giudice corrotto (2006), s’incardina piuttosto su un calcolato gioco di ellissi e reticenze. L’autore ricostruisce un fatto vero, risalente al 1889, sulla base di documenti non meno veri, ancorché dichiaratamente manipolati. Ma proprio dai documenti scaturisce l’alternanza fra il racconto principale, condotto da un narratore esterno, e i capitoli in corsivo, dove un narratore interno racconta la propria bruciante passione per la protagonista femminile, Ginevra. Anche se sappiamo pressoché tutto della vita privata del narratore secondo, siamo però tenuti accuratamente all’oscuro della sua identità, di cui non sappiamo quasi niente: a parte il titolo… Oltre al misterioso narratore dei corsivi, l’altro protagonista maschile è Giuseppe Bodo, uomo gracile, gobbo, spregiudicato affarista e giocatore in borsa, che accumula enormi fortune e si sposa, già maturo, con la giovane e bellissima Ginevra, di modesta condizione piccoloborghese. Quando Bodo non riesce più a soddisfare la bella mogliettina, che pure lo ama teneramente, la spinge perversamente ad avventure erotiche che devono avvenire nella loro stessa casa: così che lui possa spiarle. Sarà l’imminente rovina economica, dovuta a una serie di speculazioni sbagliate, a far scaturire un omicidio, forse casuale. Il processo però, pur arrivando a una condanna, non chiarirà affatto le circostanze del delitto: e solo le ultime pagine daranno definitiva soluzione all’enigma. Nel frattempo il narratore interno non smette mai di seminare dubbi, interrogandosi ripetutamente sul rapporto tra la verità e la giustizia dei tribunali, in un malizioso e calcolatamente ambiguo gioco di specchi.
Se la fine Ottocento evidentemente attira non pochi autori italiani, molti altri si concentrano invece sulla Seconda guerra mondiale. Il fiore d’oro (2006) ripropone, dopo Lo specchio nero (2004), la strana coppia di autori composta dal celebre medievista Franco Cardini e dal fortunato giallista Leonardo Gori. Il fiore d’oro è un sequel, che ripresenta anche lo stesso eroe detective, l’ufficiale delle SS Dietrich von Altenburg, innamorato della bellissima e intelligentissima storica dell’arte ebrea Elena Contini, ritrovata in incognito e certo anche in pericolo di vita: tanto più che intorno a loro gli omicidi fioccano. La trama di morte pare derivare proprio dal misterioso «fiore d’oro»: gioiello, o forse arma segreta, i cui straordinari poteri, già conosciuti e temuti da Nietzsche e Wagner, rimandano a culti misterici, adombrati dalle didascalie e dalle immagini di un film perduto, il cui autore è nientemeno che Gabriele D’Annunzio. Il tutto ambientato, con scialo di locations prestigiose, a Venezia e soprattutto al Vittoriale, che i tedeschi stanno perquisendo e derubando. Von Altenburg si mostra intanto problematicamente impegnato a far valere il proprio grado, quando ormai quasi tutti i tedeschi diffidano di lui. Fantasmagorico e un po’ cervellotico, Il fiore d’oro dispiega senza risparmio invenzioni pseudostoriche mirabolanti, cui si accompagnano le quasi altrettanto mirabolanti qualità di quest’ennesimo superuomo di massa: bellissimo, buonissimo, coltissimo, intelligentissimo, e – ça va sans dire – irresistibile seduttore. Nonostante tutto, qualcosa nel libro, faticosamente, si salva: soprattutto grazie alla scelta del tempo della storia, il 1944, che moltiplica i contrasti e le ambiguità nei rapporti fra il protagonista e le truppe tedesche, alle quali continua ad appartenere, ma dalle quali ormai è moralmente e politicamente lontano.
In modo assai più sobrio, e narrativamente più efficace, anche Corrado Augias sceglie di ambientare nel periodo più nero della Seconda guerra mondiale Quella mattina di luglio (2005). C’è un omicidio compiuto il 19 luglio 1943: cioè poche ore prima del bombardamento alleato sul quartiere di San Lorenzo e pochi giorni prima del 25 luglio. Anche il protagonista di Augias, il commissario Flaminio Prati, è a suo modo un irregolare: solo che la sua irregolarità fa tutt’uno con l’onestà. Subito dopo aver esaminato il cadavere della ragazza assassinata, Prati si trova sotto il bombardamento: decine di persone vengono ammazzate in pochi minuti, ma certo per loro nessuno si preoccuperà di fare giustizia. La coscienza morale e professionale del protagonista si scontra così con una realtà tragica, che rischia di mettere in forse il senso stesso del suo lavoro: perché dedicare tutte le proprie energie alla ricerca dell’autore di un assassinio, mentre il mondo si va coprendo di morti innocenti? Il bombardamento, peraltro, distrugge la casa e il corpo della vittima: complicando così le indagini, che sembrano poter coinvolgere dei pezzi grossi del regime fascista. Ma le cose sono ancora più complicate, perché in quegli stessi giorni si sta preparando il colpo di stato con cui il Gran Consiglio del fascismo toglierà il potere a Mussolini: il malcapitato Prati, fascista moderato, sarà così costretto a districarsi fra potenti sempre più infidi anche perché forse non più tanto potenti, prossimi a essere rovesciati o coinvolti in congiure contro quelli che fino a poco prima erano i loro stessi amici. Narratore esperto ed elegante, Augias non sempre sfugge alle tentazioni del compiacimento letterario, e finisce anche lui per santificare un po’ troppo il proprio pur problematico eroe; ma d’altro canto riesce con abilità sia a tenere in pugno la trama del giallo, sia a innestare con buona coerenza la trama poliziesca sullo sfondo storico.