Un decennio di successi ha convertito il concetto di noir in un ombrello smisurato, sotto il quale si va ammassando una compagnia eterogenea, decisa a marciare verso le radiose mete del romanzo sociale. Se però non mancano storie convincenti di delitti maturati nel cuore delle campagne, in provincia o nel recente passato, desta qualche perplessità l’approccio alle odierne realtà metropolitane, spesso risolto in chiave esotica, grazie all’intraprendenza con cui gli investigatori – sempre più sciamannati e intrattabili – si calano all’arrembaggio degli abissi plebei.
La criminalità è il momento della vita privata in cui questa diventa per forza pubblica.
M. BACHTIN
Riviste, festival, corsi di scrittura, circoli di appassionati, programmi radio, siti internet: e carrettate di romanzi, naturalmente. Il buon vento che da un decennio abbondante sospinge il noir italiano verso trionfi inusitati non accenna a calare, e anzi ha ormai scavalcato le Alpi. L’euforia suscitata dall’indubbio salto di qualità compiuto dal genere, per la prima volta esportato in misura massiccia, ha reso intanto velleitarie le consuete critiche al linguaggio crudo e al dilagare della violenza, risuonate con forza ancora una decina d’anni fa, ai tempi delle polemiche sui massacri pulp. Peraltro, mentre sempre più spesso le migliori penne nere si dicono progressiste, mosse da nobili intenti demistificatori, la morte di un reazionario del calibro di Mickey Spillane è valsa a ricordarne gli oltre 200 milioni di libri venduti, che ne hanno fatto – come amava ricordare – lo scrittore più tradotto al mondo «dopo Lenin, Tolstoj, Gorkij e Jules Verne». D’altronde basta dare un’occhiata alle uscite della serie di spionaggio «SAS», ideata da Gérard de Villiers (da un quarantennio firma di punta della collana «Segretissimo»), per comprendere quanta presa abbia tuttora la rappresentazione di un mondo manicheo, dove i conflitti si risolvono con la brutalità, dove il dubbio è il contrassegno dei deboli, dove la difesa dell’interesse nazionale – perseguita tra un amplesso e l’altro – passa attraverso la negazione dei valori altrui e il disprezzo della vita umana.
Beninteso, sarebbe fuorviante considerare il noir una mera filiazione dell’hard boiled, come pure vorrebbero alcuni nostalgici del buon vecchio giallo, che lamentano quanto sia difficile al giorno d’oggi trovare un invitante red herring (cioè uno specchietto per le allodole ben dissimulato, una falsa pista credibile). Del resto il paradigma indiziario, con la conseguente sfida all’intelligenza del lettore, tende inevitabilmente a dissolversi, nel momento in cui il baricentro della storia non verte più sul «chi è stato?». Proprio a partire da questa divergenza strutturale i paladini del noir ne fondano (con un certo snobismo) la superiorità sulla detection novel classica, che in ultima analisi postulerebbe – come sostenne Siegfried Kracauer già negli anni venti – il rasserenante trionfo della razionalità borghese. Solo l’inquietante, corrusco, pessimistico noir sarebbe viceversa in grado di ambire alla patente di romanzo con la erre maiuscola: sebbene anche il tratteggio di situazioni infinitamente più drammatiche e brutali, in confronto alla realtà che in genere ci tocca, si potrebbe a buon diritto ritenere consolatorio, al pari dei teoremi complottistici che galvanizzano i lettori da secoli. Ma certo la catarsi, coi suoi nipotini, meriterebbe d’essere maneggiata con estrema cura.
A ogni modo, occorre senz’altro riconoscere che al momento l’etichetta di noir viene percepita come nobilitante rispetto alle concorrenti. L’acquisito prestigio, anzi, ha contribuito a farne uno smisurato ombrello sotto il quale trovano ricovero un po’ tutte le vicende che hanno a che fare col delitto: fenomeno che, sfortunatamente, ricorre nella maggior parte dei libri sin dal Vecchio Testamento. Non è questa, s’intende, la sede per affrontare problemi definitori, in mancanza di una classificazione efficace che metta ordine nell’ambito delle crime stories, ragionando sul rapporto tra le specializzazioni in cui vanno vieppiù articolandosi e la dominante tra le reazioni presupposte nei lettori: sia il rovello speculativo, la tensione, la sorpresa, la semplice paura, o altro. A uno sguardo d’insieme sull’ultima produzione nostrana, comunque, il grosso di ciò che ci siamo abituati a definire noir sarebbe in fin dei conti assegnabile a caselle affollate da decenni. Si prenda per esempio il poliziesco, un filone senza recise soluzioni di continuità tra l’ottimo e longevo sergente Sarti Antonio di Loriano Macchiavelli e i commissari apparsi più di recente, nei quali si accentuano i tratti di scontrosità e disincanto, fermo restando l’ossequio a un’idea di giustizia non di rado donchisciottesca, perseguita individualmente, a volte finanche in contrasto con l’istituzione che rappresentano. Capita come tutti sanno a Salvo Montalbano, ma anche al quasi omonimo e semialcolizzato ispettore inventato da Piergiorgio Di Cara, Salvo Riccobono. Nella sua nuova avventura, Vetro freddo (2006), Riccobono viene trasferito da Palermo nella Locride, dove si trova a fronteggiare la ’ndrangheta, stranamente sottovalutata nel settore librario in esame, nonostante vanti potenzialità narrative non inferiori alla mafia, vedi l’impasto deflagrante di modernità e tribalismo tipico delle ’ndrine, i nessi sotterranei con l’imprenditoria locale e le fantasiose modalità di riciclo del denaro, tutti elementi sfruttati a dovere in Vetro freddo ma anche nei pochi altri thriller calabresi rintracciabili, come Il passo del cordaio, di Domenico Gangemi (2002); o Ragù di capra, di Gianfrancesco Turano (2005).
Al Nord, le peculiarità della criminalità regionale hanno fatto la fortuna di Massimo Carlotto, impostosi nel decennio scorso con la serie dell’Alligatore, bluesman prima ingiustamente carcerato, poi riciclatosi in detective: insomma il classico lupo solitario, sguinzagliato nel Veneto del malaffare, pronto a combattere il sapore amaro dei ricordi a colpi di calvados. In seguito, Carlotto ha offerto le più notevoli versioni italiane dei noir alla maniera di Jean-Patrick Manchette e Derek Raymond, tesi a illuminare di sbieco il contesto che propizia il crimine, in modo da suggerire come il mandante ultimo sia il sistema. In tale prospettiva, oltre che a Nordest (2005) si può fare riferimento a L’oscura immensità della morte (2004), incentrato sul motivo di gran lunga più congeniale allo scrittore padovano, ovvero la vendetta, nell’occasione covata per anni da un uomo in apparenza normalissimo, ma intimamente sconvolto dall’assassinio dei familiari nel corso di una rapina. La barbara ferocia che si scatena nel finale trova spiegazione in questo tarlo: altrove, invece, va prendendo piede la rappresentazione di delitti efferati e incomprensibili, esplosi all’improvviso nella routine quotidiana. Di qui Valerio Evangelisti si è spinto a postulare una progressiva estinzione del movente, che dalla realtà si starebbe trasferendo alla fiction.
Proprio sul perché di una strage assurda, compiuta da uno studente sui colleghi, va scervellandosi l’insegnante cui Antonio Scurati affida il compito di narrare Il sopravvissuto (2005). Una scelta d’altri tempi, a fronte delle decine di romanzi recenti in cui il lettore è proiettato nella mente di delinquenti, psicotici, serial killer, disperati e storditi di ogni genere, nella speranza che il fascino del male lo coinvolga emotivamente. Il ritardo con cui è stata recepita questa strategia, di derivazione statunitense, non ha favorito soltanto declinazioni in chiave grottesca, che tanto hanno irritato (condensabili nel ben noto «ho ucciso i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo»), ma anche varianti se non del tutto originali, decisamente riuscite. Tra esse in fondo può contarsi anche Io non ho paura (2001), in cui Niccolò Ammaniti ha colorato di nero l’assolata campagna del meridione grazie all’inesperienza dello sguardo di un bambino, posto al cospetto delle crudeltà degli adulti.
Il mondo dei campi, peraltro, riveste da tempo un ruolo non trascurabile nell’ambito del noir grazie all’opera di Eraldo Baldini. Il suo ultimo romanzo, Come il lupo (2006), si fa apprezzare sin dal prologo, che verte su un fallito episodio di brigantaggio, immaginato a metà del Seicento in una remota valle dell’Appennino tosco-romagnolo. Negli stessi luoghi, ma tre secoli più tardi, si dipana la storia di Nazario, ispettore della forestale, ex partigiano, vedovo, che può ricordare alla lontana il protagonista del Taglio del bosco di Cassola. Ritmato dalle visionarie crisi di epilessia della figlia, il suo rapporto con un’enigmatica comunità di vignaioli finisce con l’assumere i tratti dell’incubo, o meglio della fiaba tenebrosa, asciutta e intensa, senza concessioni al populismo, alla gergalità, agli effettismi da tregenda. L’ambientazione nei primi anni cinquanta del Novecento, tra l’altro, vale a richiamare un punto che meriterebbe una riflessione specifica, ovvero la clamorosa frequenza con cui gli specialisti del genere guardano al concitato quarantennio che si stende nel cuore del Novecento, tra gli anni del fascismo trionfante e il Sessantotto: Lucarelli, Wu Ming, Camilleri, Perissinotto, Vichi, non sono che alcuni nomi estratti da una rosa amplissima.
In una fase meno distante, tra la fine degli anni settanta (la medesima epoca di Io non ho paura) e il 1992, si accalcano i delitti della Banda della Magliana trasposti in Romanzo criminale (2002) da Giancarlo De Cataldo, il più dotato tra i molti magistrati meridionali che di recente hanno deciso di imbracciare la penna nera. La sanguinosa, memorabile Roma pulsante nel suo capolavoro inevitabilmente riporta alla questione del noir come spalliera indispensabile all’attuale romanzo sociale. Il banco di prova decisivo per saggiarne la robustezza andrà però individuato nelle realtà metropolitane di inizio millennio. E qui, un’antologia temeraria come Thè dark side (2006), mettendo a confronto racconti italiani con quelli di maestri del calibro di Stephen King, F.X. Toole, Ed McBain, James Ellroy, mostra bene la nostra sostanziale estraneità all’orizzonte di Jungletown Jihad, cui proprio Ellroy ha voluto dedicare il titolo del suo nuovo libro. Un’estraneità prevedibile, confermata da un’altra miscellanea di racconti, Città in nero (2006), espressamente riservata al tema in questione.
In quest’ottica, appare paradigmatico il caso di Milano, stante la latitanza nelle trame buie immaginate nella «città più città d’Italia» delle due incognite che nell’ultimo quindicennio l’hanno scossa sin nelle fondamenta, ovvero il crimine d’impresa, tortuosamente intrecciato alla politica, e il ruolo di presunto crocevia del terrorismo fondamentalista. L’unica eccezione di peso è costituita da Grande Madre Rossa (2004), in cui Giuseppe Genna connette i fili facendo esplodere il Palazzo di Giustizia insieme ai suoi roventi dossier in un misterioso attentato, attorno al quale prende forma un labirintico complotto internazionale, condito in una salsa schiettamente postmoderna. Di regola, invece, ci si limita al riassemblaggio di fattori tradizionali, senza allargare l’obiettivo sopra la piccola e media criminalità, della quale va in scena la montante spietatezza, la sete di denaro, il mancato rispetto delle regole, non senza rimpianti per i malandrini d’antan, umani e simpatici, magari anche un po’ ciula. Un trend tanto più sconcertante, ove si rammenti la crudele, livida, indifferente Milano allestita non l’altro ieri, ma oltre quarant’anni fa da Giorgio Scerbanenco. Il che non significa, naturalmente, che da paraggi meno anonimi non possano muovere lavori di qualità, come ha dimostrato Piero Colaprico nei tre romanzi brevi riuniti nella Trilogia della città di M. (2004), dove colpisce innanzitutto il piglio «archeologico» della narrazione, che porta per esempio l’ispettore Bagni, durante un viaggio in metrò, ad associare a ogni fermata il ricordo di un fatto di sangue avvenuto in zona. Come nella serie del maresciallo Binda, sullo sfondo brulica un universo che non si dubita autentico, ma al tempo stesso appartiene a un collaudato repertorio: l’arguto clochard, il gretto negoziante, l’occhiuta battona in disarmo che ha fatto studiare il figliolo, e così via. Le medesime figure danno vigore all’impianto corale su cui Gianni Biondillo è solito proiettare le indagini dell’ispettore Ferraro, a mollo in una turbolenta Quarto Oggiaro, in cui tutti sembrano conoscersi e ammazzarsi volentieri, non solo al sabato e in tutte le stagioni, come provano i quattro delitti che scandiscono l’anno in Per cosa si uccide (2004). Biondillo (al pari di Pinketts, Dazieri e altri) si colloca agli antipodi di Scerbanenco anche sul versante dell’umorismo, profuso a piene mani, secondo moduli debitori più spesso a Fred Buscaglione che a Donald Westlake.
Altrettanto degna di attenzione è la frequenza con cui le storie nere meneghine attribuiscono un ruolo decisivo agli immigrati extracomunitari, nelle vesti di manovali prostitute badanti spacciatori lavavetri e molto altro ancora. Questa predilezione, leggibile secondo diverse prospettive, rappresenta comunque una spia dell’attitudine del genere a cogliere le dinamiche esistenziali degli strati meno abbienti della popolazione. Per converso, anche gli ispettori si proletarizzano sempre più, sicché non di rado si assiste alla riedizione abbassata della proficua corrispondenza tra Maigret e i dimessi habitat nei quali si muove a meraviglia. Una simile evoluzione allontana tuttavia l’esperienza del lettore a una distanza presumibilmente cospicua, sufficiente a rendere inutilizzabile la classica formula che indica nel poliziesco l’unico tipo di romanzo d’avventure senza traccia d’esotismi: a patto di ragionare in termini di esotismo sociale, prima ancora che geografico. In effetti, sembra riproporsi uno schema d’ascendenza fine ottocentesca. Come allora, un’accelerazione nel processo di separazione fisica e culturale dei ceti inferiori sembra aver prodotto una crescente e morbosa curiosità per la devianza, che spinge a vedere un appropriato precedente degli sviluppi attuali nei «palombari» dello stampo di Paolo Valera, pronti a immergersi negli abissi plebei per regalare un frisson al pubblico borghese meno timorato (anzi può essere istruttivo notare come Valera negli anni venti non perdesse occasione per deprecare la scomparsa della bonaria malavita d’epoca umbertina).
Per un altro verso, il concetto di esotismo si presta a inquadrare il fenomeno del cosiddetto noir mediterraneo, che ha traslocato lo scenario principale dei delitti di carta dai geli plumbei e silenziosi delle metropoli del Nord Europa al chiasso variopinto dei vicoli, dei sottoscala, dei porti affacciati su flutti tornati tempestosi, dopo la fine del bipolarismo. Guerre, terrorismo, migrazioni, mafie indigene trasformano in formicai frenetici e micidiali la Marsiglia di Jean-Claude Izzo, la Napoli di Giuseppe Ferrandino, l’Atene di Petros Markaris, l’Algeri di Yasmina Khadra – e chi più ne ha, più ne uccida. Intanto, negli odierni noir italiani l’esibizione di un forte retrogusto regionale è divenuta prassi consolidata, sebbene molti piatti traboccanti di spezie lascino sospettare qualche magagna negli ingredienti di base. Ben guarnita e impeccabile, invece, la ricetta di Andrea Camilleri non prescinde da un’attenta ricognizione sui nodi cruciali offerti dalla cronaca. Al di là dell’impasto dialettale, che ha abbagliato la critica, vale la pena di rimarcare la rovente attualità sottesa alle indagini di Montalbano, di volta in volta a confronto con macchinazioni politiche, terrorismo religioso, traffici d’organi, tragedie dell’immigrazione, truffe finanziarie, speculazioni edilizie… I gialli vecchio stile, a volte, reggono il passo dei tempi meglio dei noir.