Per favorire lo sviluppo economico, è più utile costruire una biblioteca che una tangenziale? Se è certo che la lettura dipende dallo sviluppo, forse è possibile ipotizzare anche che lo sviluppo dipenda dalla lettura? Per ogni punto percentuale di lettori in più, la produttività è destinata a crescere poco più di un centesimo di punto annuo: abbastanza, anno dopo anno, per cambiare il volto di un paese. Il problema nasce dal fatto che gli investimenti in lettura sono sì produttivi, ma solo nel lungo periodo.
A chi proponeva il tema eterno dei bassissimi tassi di lettura italiani, Luciano Mauri aveva l’abitudine di obiettare che, a ben vedere, questi erano assolutamente spiegati dal livello generale di sviluppo del nostro paese. In fondo, il posto in classifica (ahimè così basso) occupato dall’Italia per gli indici di lettura era assolutamente coerente con quello di altre graduatorie, economiche, di istruzione, sociali.
Dispiace di non aver più la possibilità di sottoporre al suo eccezionale sguardo critico (e quindi spesso inesorabilmente ironico) i risultati delle ricerche che Antonello Scorcu ed Eduardo Gaffeo hanno presentato in occasione degli Stati generali dell’editoria promossi dall’Aie nel settembre 2006. I due economisti delle università di Bologna e Trento hanno provato infatti ad andare più a fondo nello studio dei nessi causali sottostanti alla ben nota relazione. Sostenendo che forse non è soltanto vero che la lettura dipende dallo sviluppo, ma è possibile ipotizzare l’esistenza anche della relazione inversa: che lo sviluppo dipenda dalla lettura.
Tesi ardita? Boutade nata solo per sostenere le tesi di astuti lobbisti? Per quanto si tratti di lobbisti che sostengono nobili interessi (quelli del libro), e anzi proprio per questo, è opportuno vedere se solo di un’astuzia si tratti o se invece la tesi sia sostenuta da un rigoroso impianto teorico e da una robusta evidenza empirica. Chi scrive, quel mestiere di (nobile?) lobbista lo svolge da anni, per cui ha una visione certamente di parte. Ma ama sottoporre al vaglio critico (e ironico) altrui gli argomenti che più lo convincono.
Devo allora innanzitutto dire che la tesi di Scorcu e Gaffeo mi sembra convincente, sia sul piano teorico sia su quello empirico. Analizziamo i due aspetti separatamente.
Non vi è alcuna acquisizione della scienza economica degli ultimi decenni su cui si registri un maggior consenso che quella che sottolinea l’importanza del «capitale umano» nel determinare lo sviluppo economico, e in particolare la produttività del lavoro. Si può litigare su tutto, ma non sul fatto che lavoratori più preparati producono di più, e quindi che una società con livelli più elevati di conoscenza è destinata ad avere una crescita maggiore. Il problema è se mai altrove, e in particolare su quali siano i fattori che determinano la crescita del capitale umano e su quali possano essere gli strumenti per misurare la quantità di capitale umano presente in una data area geografica.
Non vi è dubbio, infatti, che il capitale umano sia legato ai livelli di istruzione. Tutte le ricerche confermano che andare a scuola «conviene», è un buon investimento per gli individui e per la società nel suo insieme. Con due problemi, tuttavia: da un lato le scuole non sono tutte uguali, per cui oltre che la quantità di istruzione occorrerebbe misurare la sua qualità. Se per esempio in un paese vi sono pochi laureati il problema non si risolve aumentando gli universitari attraverso un abbassamento della qualità degli studi, ma portando più persone a studiare sul serio. Dall’altro lato, conoscenza e capitale umano non dipendono esclusivamente dai livelli di istruzione, perché si acquisiscono anche attraverso modalità più informali, sui luoghi di lavoro, oppure nel contesto di percorsi di crescita extracurricolari. La lettura può dunque rientrare in questi diversi percorsi di crescita. «Un uomo che non ha mai visto una fabbrica in vita sua e ha studiato Platone può […] affrontare e considerare la vita in modo mille volte più pratico», scriveva Joseph Roth in Viaggio in Russia, proponendo in fondo la stessa teoria: che leggere aiuti il senso pratico, e quindi, in ultima istanza, la produttività del lavoro.
Il punto, tuttavia, è che tale conoscenza «informale», proprio perché tale, è difficilmente misurabile. L’unico punto fermo è dato dalla quantità di istruzione: il numero di anni passati sui banchi di scuola, l’aver conseguito un diploma o una laurea, e così via, sono informazioni facilmente reperibili e di grande attendibilità. Che danno in genere eccellenti risultati quando inseriti in modelli econometrici per spiegare lo sviluppo. Restano tuttavia le due questioni aperte: la misura della qualità dell’istruzione e della conoscenza informale.
La proposta che Scorcu e Gaffeo fanno riguarda quest’ultimo punto: i tassi di lettura possono essere uno strumento di misura della qualità dell’istruzione e della conoscenza informale di una popolazione. Una scuola di qualità, infatti, produce lettori e pertanto la presenza di lettori (a parità di tassi di istruzione) è una variabile che ci dice qualcosa della qualità della scuola. D’altro canto, è difficilmente contestabile che la lettura aiuti la crescita culturale di un individuo, e quindi della società nel suo insieme, se i tassi di lettura sono elevati.
Torneremo alla fine sulla differenza tra i due fenomeni. Concentriamoci prima sui risultati delle verifiche empiriche operate dai due economisti. Constatare una correlazione tra due fenomeni (lettura e sviluppo) dice poco sui nessi causali. Ma ciò non significa che non vi siano strumenti, consolidati nella letteratura economica, per capire quale dei due fenomeni sia causa e quale effetto. Una di queste tecniche è quella delle cosiddette «regressioni di Barro»: quando si vuole analizzare le determinanti della crescita, si prendono in considerazione diverse variabili, alcune che accompagnano nel tempo la crescita stessa (come i tassi di attività o gli andamenti demografici), altre che descrivono le condizioni di partenza. Se per esempio, a parità di altre condizioni, nel confronto tra diverse aree geografiche, crescono di più quelle che all’inizio del periodo hanno tassi di lettura più elevati, si può dire che questi influenzino la crescita. E in fondo un uovo di Colombo: non è possibile che la lettura del 1973 sia influenzata dai tassi di crescita avvenuti negli anni successivi. Se c’è relazione tra i due fenomeni, dovrà dirsi che il livello di lettura del 1973 ha influenzato la crescita. Il problema è che ciò è vero «a parità di altre condizioni», caso che mai si verifica: se tuttavia analizziamo in un unico modello più variabili, in molte regioni, e per un periodo di tempo sufficientemente lungo, la robustezza empirica di quanto troveremo ne risulterà accresciuta.
E quanto hanno fatto Scorcu e Gaffeo. In sostanza hanno provato a inserire i tassi di lettura di inizio periodo, all’interno di modelli econometrici del tipo di quelli che generalmente si utilizzano in questi casi, contenenti le altre variabili generalmente utilizzate per questo scopo: gli stock di capitale fisico, i livelli di produttività di inizio periodo, i livelli di istruzione, e così via. Lo hanno fatto per le venti regioni italiane per un periodo che supera i venti anni, avendo così un numero di dati sufficientemente elevato per testare in modo statisticamente significativo il modello.
Va per altro detto che ciò è stato possibile grazie al fatto che l’Istat ha una lunga tradizione di studi sulla lettura che consente di conoscere l’evoluzione del fenomeno, rilevato con metodologie sufficientemente costanti, e a livello di singola regione, praticamente dal dopoguerra a oggi. Una prima ricerca fatta in collaborazione con l’Aie sembra indicare che si tratta di una circostanza unica. Non pare esistano, per esempio, dati analoghi per gli Stati Uniti, per i tassi di lettura a livello di Stato risalenti a un passato sufficientemente remoto. E la situazione europea è ancor più complessa, in quanto il confronto tra gli stati è pressoché improponibile per le differenze metodologiche con cui i dati vengono rilevati (quando vengono rilevati). Va dato quindi onore al merito del nostro Istituto di statistica, altre volte criticato, anche da queste pagine.
Il risultato dello studio è che, inserendo i tassi di lettura, la capacità esplicativa del modello econometrico aumenta, e si constata una relazione tra lettura e tasso di crescita della produttività del lavoro che, per essere esatti, è la variabile indagata dai due economisti. Di quanto? Di poco, non esageriamo. Molto inferiore, com’era lecito attendersi, a quella trovata tra l’istruzione formale e la produttività. Ma abbastanza perché nel lungo periodo i risultati possano essere straordinari, grazie alla «magia del tasso di interesse composto», avrebbe detto Keynes. I coefficienti trovati ci dicono che per ogni punto percentuale di lettori in più, la produttività è destinata a crescere poco più di un centesimo di punto annuo: ma questo, anno dopo anno, può cambiare il volto di un paese. Perché appunto si tratta di variazioni sui tassi di crescita annui e non sulle variabili assolute. Scorcu e Gaffeo lo spiegano con una simulazione che – per quanto proposta con la cautela che uno studioso deve avere (e che un lobbista può forse dimenticare) – ci dice che «se [… ] il tasso di lettura nelle regioni del Sud fosse stato pari a quello della Liguria (che registrava il valore più alto), […] la produttività sarebbe cresciuta nell’insieme dei 24 anni considerati tra il 40 e il 50% in più».
Questo può significare più cose. Dicevamo prima che la lettura può essere un indice della qualità della scuola, e quindi – in qualche modo – è l’istruzione formale (nella sua qualità e non solo nella sua quantità) a essere l’origine di tutto. Spiegazione legittima. Ma non credo preferibile a quella che invece attribuisce un valore originale alla lettura nella costruzione di quella conoscenza informale che pure fa parte del capitale umano. Per dirla ancora con Roth, che un operaio legga Platone può essere il segno che ha frequentato una buona scuola, ma rimane vero che leggere Platone, di per sé, indipendentemente da qualsiasi altro fattore, lo aiuta a essere un operaio più produttivo.
La ricerca – che è possibile leggere in forma ridotta all’interno del volume Investire per crescere (http://dx.medra.org/ 0.1390/LB2006); o approfondire nella sua versione più estesa (http://dx.medra.org/10.1390/SG2000_indagine_econometrica) ci dice anche dell’altro. In primo luogo che gli investimenti in lettura sono sì produttivi, ma hanno un passo lento, danno frutti dopo un certo numero di anni. Sono insomma un ottimo investimento economico, ma rischiano di essere un pessimo in vestimento politico, perché i risultati di politiche di stimolo della lettura non possono vedersi se non in un futuro che va oltre i limiti di una legislatura. Qui il lobbista non sufficientemente smaliziato è costretto a fare al politico un discorso di difficile digestione, invitandolo a promuovere cose che daranno i loro frutti sicuramente oltre la prossima scadenza elettorale. Il che per altro spiega, probabilmente, perché molte iniziative di promozione della lettura siano pensate più per dare visibilità a chi le organizza, spesso rivolgendosi soprattutto a chi è già lettore (ed è pur sempre un elettore) di quanto non siano guidate da criteri di efficacia nell’affrontare il problema dei non lettori.
Vi è un altro elemento, tuttavia, nella ricerca che ha una valenza politica immediata. Lo studio dimostra come i tassi di lettura abbiano sulla crescita un’influenza maggiore di quella dello stock di capitale fisico di inizio periodo. Il che suggerisce uno slogan che ben riassume il senso degli ultimi Stati generali dell’editoria: per favorire lo sviluppo economico è più utile costruire una biblioteca che una tangenziale.