Macchine narrative sempre più perfezionate, le storie di distretti o commissariati, detective o reparti di polizia scientifica raccolgono consensi sterminati tra i telespettatori. Poco importa che si prediligano gli enigmi classici delle signore in giallo e le indagini psicologiche degli investigatori nostrani in tonaca o divisa, oppure si venga conquistati dal ritmo serrato delle serie americane tutte laboratori high tech, autopsie compiaciute e glamour criminale delle metropoli. Quello che funziona è la compresenza, nella misura breve di una singola puntata – punteggiata di picchi di tensione collocati in maniera funzionale in coincidenza degli stacchi pubblicitari –,ndi un protagonista noto e rassicurante e di un intrigo sempre nuovo.
In televisione il delitto abbonda, da gran tempo e in varie forme. Notevole attenzione viene riservata ai fatti di sangue realmente accaduti, o meglio, ai casi più appassionanti e clamorosi, poi variamente ripresi in programmi di ricostruzione e approfondimento spesso istruttivi, condotti con passione e competenza (Franca Leosini, Carlo Lucarelli).
Lasciando da parte i «fattacci» della cronaca nera e limitando il campo d’osservazione alle storie di fantasia, occorre distinguere tra la fiction che rientra esplicitamente nel genere poliziesco («Colombo», «Montalbano», «Maigret», «Starsky & Hutch», «CSI» ecc.) e le componenti gialle, di delitto e mistero, saltuariamente reperibili in serie e sceneggiati di tipo completamente diverso, da «Orgoglio» a «Incantesimo», da «ER» a «Desperate Housewives». In questi casi, e in tantissimi altri, l’omicidio, la colpa, il rimorso entrano in gioco come espedienti più o meno efficaci per innalzare la temperatura passionale della vicenda e mantenere desta l’attenzione dello spettatore.
Non diversamente da ciò che accade nella produzione letteraria corrente o in tanti soggetti cinematografici, il delitto è un agente d’intensificazione narrativa quasi infallibile, un acceleratore di emozioni, una spezia che rende gustosa anche la pietanza più insignificante. I comportamenti, i sentimenti, i moti dell’animo dei personaggi possono anche sfuggire e annoiare, ma l’uccisione, il morto ammazzato s’impone come qualcosa di fatale e definitivo, un fatto che non si può ignorare, una violazione della norma e dell’ordine che non può rimanere senza conseguenze, e che anzi esige una risposta, un’indagine, uno svelamento.
Superato l’orrore e l’indignazione per la violenza esercitata contro la vittima, subentra infatti il piacere del mistero, l’eccitazione investigativa, il paziente lavorìo che farà venire alla luce i moventi e i processi che hanno portato al delitto: un grumo d’odio e di segreti che l’assassino deve difendere a ogni costo, anche al prezzo di nuovi crimini. Ne scaturisce un potente effetto di curiosità, se non di complicità, variamente ripartita tra detective e colpevole.
Le serie poliziesche in tv offrono tutto questo, in abbondanza e con regolarità, in mille varianti e in forma molto concentrata. La brevità, la condensazione è forse il loro primo e più evidente requisito.
La durata di un’ora scarsa, caratteristicamente scandita dalle pause per gli inserti pubblicitari, costringe a racconti piuttosto semplici, schematici, privi di fronzoli. C’è appena il tempo per svolgere, in modo sintetico, la sequenza antefatto-delitto-scoperta del cadavere-indizi-sospetti-falsa pista-crisi-intuizione-prova-smascheramento-arresto o morte/suicidio del colpevole. Per contro, è quasi impossibile cogliere e descrivere decentemente i caratteri dei personaggi di turno, spesso ristretti a uno stereotipo: il sociopatico di buona famiglia, il pusher nero, l’adolescente nei guai, la bella fredda e senza scrupoli, il poliziotto corrotto, il vizioso uomo di successo ecc. Lo scavo psicologico (che poi di solito si riduce alla presentazione di un insieme di contrassegni ricorrenti – vezzi, tic, manierine – esclusivi del personaggio) è riservato alle figure che compaiono stabilmente nella serie: l’investigatore, i suoi aiutanti ecc.
Le pause precostituite sono un ulteriore vincolo: ogni tot minuti, prima della raffica dei «consigli per gli acquisti», l’azione deve registrare un picco, una discontinuità, un punto d’arresto e d’apertura alla fase successiva. Insomma, una sospensione che sia una suspense. Si procede quindi a piccoli strappi e colpetti di scena, sovente telefonati, accompagnati da frasette sentenziose o brevi battute, lapidarie quanto formulaiche e prevedibili. L’episodio di una serie spesso si dà a vedere come una concatenazione di frammenti narrativi con una parvenza di autonomia, talvolta introdotti da una breve inquadratura ricontestualizzante, tanto per far capire al più torpido dei teledipendenti che non siamo più all’interno dello stacco pubblicitario.
Lo spezzettamento d’altronde tiene conto e fa parte delle correnti abitudini d’uso del mezzo televisivo, ricche d’interruzioni, andirivieni, rumori e disturbi di ogni sorta. La confidenza con la struttura, i personaggi-chiave e i caratteri peculiari dei propri serial preferiti permettono di riprendere facilmente il filo, e questo è un altro bel vantaggio rispetto a storie gialle più elaborate e impegnative.
L’intenzione facilitante, e la facilità di comprensione e di orientamento che ne discende, accomunano molte serie poliziesche. Si direbbe che una delle preoccupazioni dominanti sia di trovare un buon compromesso tra la complessità costitutiva dell’enigma e la speditezza della soluzione. Una situazione che appariva intricata fino a un momento prima si chiarisce poi in un batter d’occhio, anche a costo di eventuali implausibilità e forzature logiche, che generalmente si tollerano o passano inosservate grazie alla stessa sbrigatività dei tempi televisivi.
La semplicità delle storie, o semplificazione che dir si voglia, si appoggia anche a una differenza tra buoni e cattivi che in altri contesti è spesso molto meno netta. Hanno cioè un peso molto minore le ambiguità e i risvolti problematici di tanti film e romanzi gialli, variamente impegnati a mostrarci le ragioni dell’assassino e i lati oscuri di chi deve prenderlo o giudicarlo.
Nei telefilm polizieschi la certezza degli schieramenti appare essenziale. Da una parte – incarnata dall’eroe positivo fisso – la legge, la giustizia, la virtù, la sicurezza, l’ordine sociale, la difesa di chi è in pericolo. Dall’altra parte, la devianza, la violenza, il male, l’arbitrio, il disordine, l’offesa che ogni omicidio arreca alla comunità, e che è percepibile anche nei gialli «da camera» più giulivi e stilizzati, risolti da mature signore apparentemente svaporate come Miss Marple o Jessica Fletcher.
Scoprire il colpevole e punirlo con severità è dunque tassativo, anche se spesso si sorvola sul dopo: importante è vedere subito lo scintillio delle manette, non tanto il carcere o la forca. Del resto, nel corso del tempo una certa indulgenza verso i colpevoli si è insinuata anche nei serial. Non è solo questione di fare della tv educativa, chiarendo per bene i diritti di cui gode il sospetto o l’imputato, fosse pure il peggior tagliagole con le mani ancora lorde di sangue (lo sforzo di autocontrollo del detective manesco che legge all’arrestato la formula d’uso è un classico).
Si nota anche qualche sommaria ambizione sociologica, un tentativo d’inquadrare e dare un senso alle scelte di vita nell’illegalità, una sbirciata veloce al degrado dell’habitat urbano, al retroterra familiare svantaggiato, alle violenze subite nella tenera infanzia ecc. Dominano ovviamente le preoccupazioni di «correttezza politica», specie in ambiente nordamericano: si cerca di non calcare la mano contro ispanici e afroamericani, gay e islamici ecc. tranne quando non se ne può proprio fare a meno, essendo stati troppo cattivi.
Sul versante italiano, s’intravede piuttosto una disposizione diffusa all’indulgenza e alla bonarietà, implicita nella maschera stessa di certi protagonisti (il maresciallo Rocca di Gigi Proietti, per esempio), ma forse determinata più in profondità da una mentalità «perdonista» o «buonista» di matrice cattolica e solidaristica.
Pur senza le qualità tecniche e il ritmo serrato degli americani, i telefilm polizieschi di produzione italiana sono spesso godibili, scorrevoli, sostenuti da buoni interpreti e sceneggiature non disprezzabili. Tuttavia, è difficile che si facciano prendere sul serio fino in fondo: per quanto le vicende possano essere drammatiche e i crimini efferati, aleggia pur sempre un sentore casereccio e vernacolare, che stempera la tensione e induce a prendere le distanze di quando in quando. La scelta degli attori – figure amate, come Manfredi, Proietti, Terence Hill, Zingaretti, o bellezze popolari italiane come Marcuzzi o Arcuri – conferma il forte legame con la commedia all’italiana, che assicura gli innesti ironici e sdrammatizzanti.
Tra l’altro, la colloquialità e la simpatia del trattamento, spesso applicata a personaggi in divisa, carabinieri o pubblica sicurezza, devono aver contribuito a rendere più popolari, accettabili, psicologicamente vicini coloro che lavorano nei corpi di polizia. L’umanizzazione del poliziotto è un tratto comune a molti telefilm, di ogni paese, ma nella produzione italiana sembra particolarmente felice, ottenuta in modo spontaneo, con notazioni accattivanti ma tutto sommato credibili, al di là dell’inevitabile accentuazione scenica. Basti pensare alla galleria di tipi umani che attorniano il commissario Montalbano: se dovesse accadere di essere coinvolti in un’indagine di polizia, chi non vorrebbe avere a che fare con personaggi come Augiello, Fazio, Tatarella?
La ripetizione è un altro aspetto saliente, alla base del piacere e dell’attaccamento al telefilm poliziesco. Si ama la riproposta e il ritrovamento del già noto almeno quanto la scoperta e la sorpresa del nuovo.
Fin dal primo apparire di una serie è facile notare la spinta – abilmente assecondata, o forse anche suscitata dai produttori stessi – a fissare alcuni punti di riferimento essenziali, utili per godersi al meglio le puntate successive. Vengono cioè colti rapidamente e isolati certi contrassegni espressivi caldi e rassicuranti, che piacerà incontrare di nuovo, più e più volte, così da creare prima possibile un effetto di riconoscimento, consuetudine e confidenza.
Nel caso dei personaggi costruiti con più cura, questi contrassegni emergono presto e con chiarezza: le operazioni di pulitura della pipa di Maigret, «Montalbano sono!» e i suoi «cabasisi» da non rompere, l’impermeabile e la gesticolazione italica del tenente Colombo, i baffi esageratamente curati di Poirot. Ma anche gli eroi minori, senza quarti di nobiltà culturale, sviluppano qualche tratto proverbiale che li rende riconoscibili e affettivamente investiti: la pelata di Kojak, lo sguardo fintoinnocente di don Matteo, la bocca a cuore e il toupet di Derrick ecc.
E pur vero che – diversamente da altre forme di racconto televisivo: soap opera, telenovela ecc. – gli episodi di una serie gialla sono storie autonome, in sé concluse e apprezzate per la singolarità della vicenda che presentano di volta in volta. Ogni caso fa storia a sé e richiede indagini e soluzioni diverse da ogni altro.
Nello stesso tempo però viene apprezzata al massimo grado la continuità, la stabilità, la tipicità dei comportamenti, dei caratteri, degli stili d’indagine, dei rapporti tra i personaggi fissi: un certo modo di rivolgersi ai sottoposti; l’ammirazione e il rispetto di cui gode il leader; le tecniche d’interrogatorio ben collaudate, i trucchi, i saltafossi; le battute di spirito ricorrenti; le forme caratteristiche in cui si esprime la collera, l’ansia, l’euforia, l’amicizia, il desiderio, l’attaccamento, l’antipatia; l’impulsività o la prudenza nel momento dell’azione ecc.
L’unicità dell’episodio, con tutto ciò che può contenere di sorprendente, viene sì goduta, ma alimentandosi di continuo di certezze e ricorrenze, così da consolidare quel senso di vicinanza e familiarità che appare decisivo ai fini dell’affezione alla serie. Si potrebbe anzi sostenere che il singolo episodio sia preso e percepito come una variazione, una delle tante possibili, su un motivo di fondo, indefinitamente replicato, che poi è ciò che si vuole veramente sentire.
Naturalmente, l’appuntamento fisso e l’intimità dello spazio domestico in cui avviene l’incontro con i protagonisti delle serie gialle preferite rafforzano il senso di prossimità e appartenenza. Muovendosi tra gli oggetti e gli atti della quotidianità del telespettatore, gli eroi eponimi dei serial – e qualche volta anche qualche personaggio secondario – entrano a far parte del pantheon familiare, in una posizione che sta tra l’amico provvidenziale e il genio tutelare. Il loro intervento è sempre benefico e apportatore di pace. Parte da una realtà esterna percorsa dalla violenza, inquietante, caotica, pericolosa, e la bonifica mediante uno sforzo di comprensione e ricostruzione del senso. Il finale del singolo episodio potrà anche essere talvolta amaro, ma in ogni caso corrisponde al ripristino di un equilibrio prima gravemente turbato. Per quanto imperfettamente, la soluzione del caso raddrizza i torti, risarcisce gli innocenti, restituisce fiducia nella giustizia. In una parola, rassicura: i luoghi abitati, le strade, le case, la propria stessa casa, trovano per un poco una forma di pacificazione, un riparo immaginario dalla minacciosità del reale.
Le necessità di sentirsi tranquilli e al sicuro è implicita nei riferimenti domestici che spesso caratterizzano i discorsi e i vezzi privati dei protagonisti delle serie poliziesche. Molti investigatori per esempio apprezzano la buona tavola – Montalbano, Maigret, Poirot – e la disposizione di spirito più distesa che il mangiar bene comporta (e che talvolta favorisce l’insight risolutivo). Altri, come Colombo, amano evocare la figura della moglie o alleggeriscono la tensione parlando di vacanze, di sport, della propria casa. Altri ancora (Cordier, Barnaby) sono volentieri rappresentati su uno sfondo domestico, in scenette di famiglia, nei rapporti con i figli, nelle piccolezze della vita quotidiana. In certi telefilm tedeschi (ma anche italiani), realizzati alla buona, senza grandi mezzi – Derrick, Siska ecc. – sono gli stessi uffici investigativi ad apparire quanto mai «domestici», dimessi, privi di certi segni usuali del lavoro poliziesco (armi, grate, uniformi ecc.), non diversi da un comune trilocale d’abitazione.
Tutto questo, certo, serve a «umanizzarli» aggiungendo un tocco di colore, ma contiene anche un messaggio di «normalità», ribadisce l’esistenza – la necessità dell’esistenza – di uno spazio protetto e relativamente libero da conflitti, ben distinto dalla dimensione dell’illegalità, delle violazioni, dello scatenamento delle pulsioni. Dato che questa dimensione di fatto assorbe il grosso delle energie e delle attenzioni, sia di chi indaga sia di chi guarda la tv, occorre sottolinearne il carattere di eccezionalità, la non normalità.
La grande quantità di delitti e violenze che passa ogni giorno attraverso i telefilm polizieschi, in realtà, lavora proprio nel senso della normalizzazione. Specie se si pensa ai telefilm di produzione americana e alle ambientazioni più sfruttate – New York, Los Angeles, Miami – è difficile evitare una sensazione di violenza endemica e di comportamenti delittuosi diffusi in ogni strato sociale, con una facilità a usare le armi e un tasso di mortalità davvero impressionanti. Per contrastare con efficacia il male, non bastano certo le forze del singolo detective, per quanto brillante, ma è necessario un lavoro di squadra, un impegno collettivo costante. E una situazione ben rappresentata in serie come «Law & Order» o «CSI», dove il soggetto dell’investigazione è il gruppo, molto coeso ma articolato su una pluralità di competenze distinte e bene integrate.
La notevole qualità tecnica e il realismo dei serial americani, per non parlare della loro numerosità, sortiscono un effetto di amplificazione e danno il senso di una società pervasa dal crimine, molto al di là della realtà dei fatti. I ritmi piuttosto veloci, la frequenza dei colpi di scena, la crudezza di certi dettagli, la scabrosità dei retroscena, l’impegno e l’estrema serietà dei componenti del gruppo, tutto contribuisce a intensificare la drammaticità, con effetti positivi sul piano spettacolare, ma anche con qualche ricaduta ansiogena. In una società ormai malata e autodistruttiva, che ha perso qualsiasi contatto con le regole di moralità e di convivenza, non bastano più le capacità intuitive e identificatorie dell’investigatore.
Si cerca salvezza negli strumenti della tecnologia e nei saperi specialistici, applicati alla ricostruzione della scena del crimine («CSI»). L’ispezione accurata del cadavere va di pari passo con la raffigurazione ravvicinata dei corpi martoriati, che enfatizza (e in parte erotizza) gli aspetti macabri e orrorifici. A partire da indizi sottilissimi e labili tracce biologiche, col sostegno di eccellente spirito d’osservazione e solide capacità logico-deduttive, si perviene allo smascheramento del colpevole, senza bisogno di agitarsi troppo con interrogatori, pedinamenti, pressioni psicologiche. Il fattore umano rimane in secondo piano, di fronte alla diabolica efficienza della strumentazione scientifica utilizzata al meglio. I personaggi stessi agiscono come macchine o come robot: oggettivi, imperturbabili, completamente assorbiti dal lavoro, raramente distratti da passioni o debolezze.
Il risultato complessivo è insieme affascinante e raggelante. Attraverso l’ingrandimento e la fissazione sui minimi dettagli, il senso e l’integrità di quella persona che era una volta la vittima si scompongono e vanno perduti. In compenso, il delitto acquista interesse, diventa più accettabile, trova di nuovo il modo di normalizzarsi e di permeare le fantasticherie quotidiane.