C’è stato un tempo in cui poesia e canzone non erano universi contrapposti, e tra i parolieri c’era un letterato come Salvatore Di Giacomo. A che punto siamo oggi? Al riconoscimento del valore della «lirica creaturale» di Vasco Rossi. Acrobatici parallelismi filologici tra canzonette e letteratura e riflessioni sul «mandato sociale» delle parole in musica non sembrano però avere davvero avvalorato una fruizione dei testi che regga il confronto con la pagina scritta, e con il lettore. Senza chitarre né coretti.
Una serata tra colleghi e conoscenti. Dopo cena, in mezzo al brusio della conversazione, d’improvviso si alza un canto: «Dàitan! Dàitan!». Subito un coro risponde: «Tu sei invincibile!». Applausi, allegria. In falsetto, una signora propone: «Heidi! Heidi! Ti sorridono i monti…». Il coro, sempre più caldo: «Le caprette ti fanno ciao!». Entusiasmo. «Grande! Mitico! Geniale!». Nell’euforia generale, un’altra voce si leva, comincia: «Che donna sei / in ogni cosa che fai…». Silenzio. Gelo.
Ma come, il vecchio jingle dell’amaro Averna non è mitico, grande, geniale? A me sembra persino meglio della sigla di Daitan 3. È che qui (per ragioni di età, o chissà per che altro motivo) non lo conoscono. «Grande, mitico, geniale», è quello che uno conosce. E io, cosa conosco? Mi mettono in mano una chitarra. Suono un po’ di Dylan, poi Brassens. Cortese attenzione, noia. «Ma di italiano non sai suonare niente? Non so, Lucio Battisti… Il tempo di morire…». Non faccio in tempo a rispondere, che venti voci partono a squarciagola, in sei tonalità diverse: «Motociclettaa… 10 accapìì…». Ne approfitto per passare la chitarra al mio vicino. Mi bloccano, me la rimettono in braccio. A questo punto, dopo un accordo, attacco: «Ah che bell’aria fresca / ch’addore ’e malvarosa…». Coro: «I’ te vurrìa vasà…». Vedi? La canzone napoletana funziona. Funziona nei salotti di Milano come nelle caserme di Bari. A distanza di un secolo e più, se la ricordano meglio del jingle dell’Averna.
A questo ripenso, mentre sfoglio la nuova edizione economica dell’opera in versi di Salvatore Di Giacomo (Poesie, a cura di Davide Monda, Bur, 2005). Ecco A Marechiare, ’E spingole frangese. Quando le ho imparate? Da chi? Non lo so. Di sicuro, mentre cominciavo a cantarle, molto molto tempo fa, non sapevo nemmeno chi fosse l’autore. Ancora oggi, comunque, per quanto lo abbia letto e rivisitato a più riprese, mi accorgo di conoscere Di Giacomo poco e male. Giusto qualche poesia, e le canzoni. Ma le canzoni me ne rendo conto una volta di più – sono solo un episodio, e nemmeno dei più consistenti, all’interno della sua vasta produzione per la pagina. Spulcio tra i numerosi interventi critici riportati nel volume. Nel 1903, quando A Marechiare era già celebre, Benedetto Croce, indicando Di Giacomo come un autore dialettale tra i più notevoli, fa riferimento ai sonetti, al poemetto ’O Munasterio, insomma alle poesie; nel 1912, Giuseppe De Robertis riscontra nei suoi versi «una concisione quasi formidabile e tale da ricordare in alcuni scorci il divino Dante». Agli occhi dei suoi contemporanei, e ai propri, Salvatore Di Giacomo (1860-1934) non è un canzonettista: è un poeta. Poeta che all’occasione, oltre a novelle, drammi, saggi, sceneggiature, compone anche versi per musica. Solo più tardi il loro successo metterà in ombra il resto della sua opera. Nel 1914, Renato Serra riferisce di lui: «Dicono che abbia seguitato a creare poesia anche in questi anni; dopo l’edizione compiuta di Ricciardi [il volume delle Poesie caldeggiato da Croce, uscito nel 1907, N.d.A.] scrive delle canzoni per un trust tedesco di dischi grammofonici, mi pare; dodici l’anno: bellissime, dicono…».
Il «trust tedesco di dischi grammofonici» è la Poliphon Musikwerke, che nel 1911 apre una filiale a Napoli, arruolando i migliori autori di Piedigrotta. Siamo agli albori dell’industria italiana della canzonetta, nel momento di passaggio dall’epoca del café-chantant a quella della comunicazione di massa, dalla circolazione di testi e musiche a stampa e «dal vivo» (diremmo oggi) alla loro riproduzione e diffusione fonografica, radiofonica. La figura di Di Giacomo è quella di un autore di transizione, inserito sì nella nascente industria dell’intrattenimento come fornitore a contratto di parole, ma ancora – per mentalità e per formazione – poeta nel senso più tradizionale. Ripercorrere la sua biografia, passare in rassegna le testimonianze e i giudizi critici di personaggi come Croce, De Robertis, Serra, Vossler, Pancrazi, Ojetti, Tilgher, significa immergersi in un’Italia sempre più lontana, un paese in cui i «parolieri» avevano una solida cultura letteraria, erano perfettamente al corrente della produzione poetica del loro tempo, e anzi se ne sentivano parte integrante. In quell’Italia, poesia e canzone non erano ancora due universi contrapposti e concorrenti: è interessante osservare come in nessuno degli interventi antologizzati entri in gioco il confronto tra canzonette e «vera» letteratura, che decenni più tardi sarà invece al centro del dibattito.
Per capire a che punto siano oggi, quel dibattito e quel confronto, è utile consultare La musica che abbiamo attraversato, almanacco Guanda 2005, dove scrittori artisti e intellettuali (da Wim Wenders a Nick Hornby, da Silvia Ballestra a Adriano Sofri) raccontano la presenza del rock e della canzone nel loro lavoro e nella loro vita.
Tra i contributi più interessanti indicherei quello firmato dal curatore del volume, Ranieri Polese, 9 canzoni italiane, in cui si analizzano testi che vanno da Borgo antico (1948) a Il cuore è uno zingaro (1971). In apertura, Polese dichiara di aver scelto programmaticamente nove canzoni «non d’autore», canzoni, cioè, «che rispettano la distinzione fra cantante, paroliere, musicista, secondo la tradizione» (si noti di passaggio come da questa definizione «in negativo» ne risulti una in positivo, della canzone d’autore, dove la locuzione «d’autore» è puramente «tecnica» e non implica un giudizio di valore). Di queste, che una volta si chiamavano «canzonette», Polese ci offre un commento davvero notevole, dove ogni singolo verso, ogni vocabolo, ogni stilema, vengono puntualmente ricondotti ai loro antecedenti nella tradizione poetico-letteraria. Per esempio in Borgo antico (portata al successo da Claudio Villa) il termine «borgo» richiama Petrarca («ed or di picciol borgo un sol n’à dato»), Leopardi («natio borgo selvaggio»), Saba («Fu nelle vie di questo / borgo…»), nonché – ci suggerisce il commentatore – «i comuni medievali, le città del Trecento, la civiltà dei mercanti, dei pittori, dei poeti…». La stessa operazione, con altrettanta acribia, viene compiuta su pezzi come Tintarella di luna o Io tu e le rose.
Giunto alla fine delle nove analisi, il lettore è pieno di ammirazione per i nessi che il critico riesce a stabilire tra Migliacci e Dante (entrambi parlano di «prati verdi»), o tra Bigazzi Verlaine e Wagner (accomunati dall’uso della sinestesia), ma sente affiorare un interrogativo: dove voleva arrivare Polese, con queste annotazioni? Che cosa voleva mostrarci? Qual è la sua tesi? Confesso che non mi è del tutto chiaro. Chiarissimo, invece, è il senso di una sproporzione tra il metodo di analisi e la qualità dei testi in esame. In passato, approcci del genere (ermeneusi semiotico-freudiane delle allitterazioni in Papaveri e papere, e simili) venivano utilizzati a fini comico-satirici. Non mi pare che l’intento di Polese sia quello di mettere in ridicolo le pochezze della canzonetta o i tic della filologia. Non vedo traccia neppure di snobismo intellettuale, di facili ironie. Queste letture colte e scrupolose sembrano spinte dalla serissima volontà di superare le vecchie barriere gerarchiche tra cultura «alta» e cultura popolare.
Nella stessa direzione si muove un altro intervento riportato nell’almanacco, quello di Marco Santagata su Vasco Rossi, che è poi la laudatio pronunciata l’11 maggio 2005 nell’aula magna dello Iulm di Milano, in occasione del conferimento della laurea honoris causa al rocker di Zocca. Qui le cose si complicano. Mentre Polese può limitarsi a chiosare i suoi nove testi, sospendendo ogni valutazione, Santagata si è assunto il compito di motivare il solenne riconoscimento di un autore e di un’opera; il giudizio di valore è dunque al centro del suo discorso. Giudizio positivo, va da sé. Le motivazioni sono sostanzialmente due: 1) Vasco Rossi è ormai un classico, «se con classico intendiamo un testo nel quale ciascuno può ritrovare qualcosa di sé»; 2) la qualità dei suoi testi gli è valsa il titolo di poeta. Argomentare la prima non è difficile: gli stadi strapieni e i milioni di dischi venduti sono lì a testimoniare. Per la seconda c’è qualche problema in più: il personaggio di Vasco, infatti, non solo nasce agli antipodi di quello del «poeta» (comunque lo si voglia intendere), ma è distante anche dal cantautore tradizionalmente inteso, cioè dalla figura centrale, in Italia, nel lungo processo di emancipazione culturale della canzone. Anziché cercare di assimilare il laureando a De André, De Gregori e soci, Santagata insiste sulla sua diversità. A differenza dei cantautori, Vasco non ha messaggi, non ha argomenti o contenuti particolari da comunicare. Come scrive Edmondo Berselli, citato nell’intervento, «Vasco non comunica nulla se non se stesso»; ma il suo valore – attenzione – consiste proprio in questo.
«La sostanza privata delle sue canzoni – scrive Santagata – si riflette nella forma dei testi: che non è la forma razionale e ordinata dei cantautori, ma una specie di flusso di coscienza o monologo interiore, fatto di parole che si ripetono, di frasi che restano in sospeso, spesso con un effetto di “parlato”. Probabilmente queste caratteristiche formali sono alcune delle più notevoli e influenti innovazioni introdotte da Vasco nello stile delle canzoni contemporanee». L’originalità della rockstar di Zocca, insomma, consiste nell’espressione immediata di un vissuto personale. «Canta per sé e di sé» spiega Santagata. «Di sé adesso, oggi, e in tutta la successione di oggi che è stata la sua vita. Le sue canzoni vissute vogliono un ascoltatore che le riviva. Per distinguerle dalla koiné dilagante della canzone autobiografica le possiamo chiamare canzoni creaturali. Confessioni senza infingimenti, senza abbellimenti, senza idillio».
In un recente saggio Sulla poesia moderna (il Mulino, 2005), che raccomando a chi intenda approfondire la riflessione intorno al rapporto tra canzone e poesia, Guido Mazzoni individua uno dei problemi cruciali della lirica contemporanea proprio nella difficoltà di «legittimare il gesto di pura hybris con cui un essere umano uguale a tutti gli altri attribuisce un carisma alla propria persona». Difficoltà ormai insormontabile – secondo l’autore – per la scrittura in versi, «una forma […] sempre più autoreferenziale, priva di lettori che non ambiscano a diventare degli autori a propria volta, confinata in una riserva protetta che sopravvive grazie al prestigio accumulato nei secoli, al conservatorismo dei programmi scolastici e al mecenatismo residuo di qualche casa editrice». A superare l’impasse può essere solo un genere sostenuto da quel «mandato sociale» e da quella «coralità» che la poesia lirica ha da tempo perduto: la canzone, appunto.
Riassunta in questi termini, la tesi di Mazzoni non sembra discostarsi molto dal tormentone che ci ha accompagnato negli ultimi trent’anni: «la poesia è vecchia, sterile, chiusa in se stessa; la canzone è la vera poesia del nostro tempo». La novità consiste nel fatto che qui non si tratta di un’affermazione apodittica, buttata là da qualche giornalista «specializzato», ma dell’esito di un’approfondita riflessione storico-critica intorno al genere lirico, che parte dalle sue trasformazioni nel XVI secolo e – attraverso autori come William Wordsworth, Giacomo Leopardi, Charles Baudelaire, Thomas Stearns Eliot, Eugenio Montale – ne segue gli sviluppi fino a oggi. Il ragionamento ha il pregio della coerenza e della trasparenza, oltre che della chiarezza intorno alla portata della posta in gioco; qualche dubbio mi fanno sorgere invece le conclusioni, e la via che a esse conduce. Per la sua legittimazione «teorica» della canzone, Mazzoni parte dalla constatazione della innegabile «efficacia» sociale di questo genere, della sua capacità di coinvolgere grandi masse di persone, e si richiama ad altre storiche legittimazioni di forme d’arte popolari, come il romanzo e il cinema. Ma che cosa portò ad accreditare culturalmente cinema e romanzo se non le opere eccellenti, capaci di superare i cliché e le ristrettezze del genere, capaci di durare? Il fotoromanzo era popolarissimo negli anni cinquanta; perché nessuno ha mai preteso che fosse considerato arte a tutti gli effetti? Negli anni sessanta la maggioranza degli italiani ignorava Montale e adorava Fred Bongusto, ma questo non era ancora un argomento per considerare Una rotonda sul mare il superamento storico della Casa dei doganieri. E oggi? Mi sembra significativo che, mentre nella parte del libro dedicata alla lirica Mazzoni illustra il suo discorso con i testi poetici, in quella dedicata alla canzone non citi nemmeno un verso. Nemmeno un nome. Chi sono gli eredi di Wordsworth e Leopardi? Amedeo Minghi? Gigi D’Alessio? Biagio Antonacci? E quali dischi in particolare?
A chi voglia proseguire il raffronto tra canzone e poesia sul piano delle opere e della loro qualità, consiglio l’antologia curata da Alberto Bertoni, Trent’anni di Novecento. Libri italiani di poesia e dintorni (Book Editore, 2005), dove si allineano un testo di Zanzotto e uno di Vecchioni, una poesia di Milo De Angelis e una canzone di Vasco Rossi. Niente chitarre, niente cori da stadio, sulla pagina. Il lettore e il testo, faccia a faccia. È questa, forse, l’esperienza che il pubblico della canzone deve ancora scoprire.