Voci che raccontano storie veridiche

Polifonia delle voci narranti e giustapposizione dei punti di vista caratterizzano i più recenti esempi di poesia discorsiva: narrazioni in versi fatte di parole che si affiancano, discorsi che si intersecano, voci che ricostruiscono percorsi della memoria e ragionano a strappi. I protagonisti di Cefalonia 1943-2001 di Luigi Ballerini raccontano i fatti della storia come la radiocronaca di una partita di calcio; i migranti contemporanei di Erri De Luca danno vita a un poemetto civile che alterna brevi componimenti corali a testimonianze individuali; mentre Alberto Bellocchio si affida a un narratore che tesse le fila di un’ampia saga familiare a più voci.
 
Sono due che parlano. Sono Ettore B., soldato italiano caduto a Cefalonia, e Hans D., uomo d’affari tedesco. Entrano in scena uno dicendo delle modalità incerte della propria morte: forse eroica in combattimento, forse no, finita spalle al muro; l’altro, presentandosi con un perentorio «scrupoli non ho», rivendicando la propria capacità di vincere «una volta per tutte la tentazione di figurare in prima persona». Le loro parole si alternano, a colate massicce e irte, in fitte lasse di versi lunghi, prosasticamente protratti, ritmati dalle iterazioni, marcati da giochi fonici: i loro discorsi si affiancano, si intersecano, configgono. Parlano dei fatti di cui sono stati protagonisti diretti e indiretti, ma non solo. Più che rivolgersi l’uno all’altro, raccontano e ragionano a strappi fra sé e sé e per noi che leggiamo, oggi. Un oggi in cui ai più tocca un destino di clienti segnati dall’«umiliazione di un acquisto che amalgama tutti nel sodalizio punitivo / di un capitale detto storia», un adesso dove «l’uomo si evolve da burocrate a faccendiere». E infatti il titolo completo del poemetto d’apertura dell’ultimo libro di Luigi Ballerini suona Cefalonia 1943-2001 (Monologo a due voci).
Ettore B. e Hans D. sono i primi e soli attori di uno stravolto poemetto civile d’impianto teatrale-narrativo, in cui anche gli eventi focali – come il sacrificio della divisione Acqui – sono evocati per barlumi, di scorcio, senza viste panoramiche. E sulla via della contraddizione, dell’accumulo e dello stridore che Ballerini trova i mezzi per raccontare la storia scansando le insidie della celebrazione impettita e dell’elegia lacrimosa. Ci riesce grazie alla contrapposizione delle due voci, a uno stile risentito che accosta in una tessitura ruvida diversi sottocodici, registri, lingue, che costella il discorso dei protagonisti di frammenti di parole altrui (testi letterari, canzoni, modi di dire). A offrire un filo conduttore al racconto è «il modello diegetico aberrante» (come dice Ballerini nella Notizia che accompagna il testo) della radiocronaca di una partita di calcio, in cui l’Italia batte la Germania quattro a uno, dove i goal sono i tradimenti e gli abbandoni. Con una forte torsione di registro, i fatti di Cefalonia e il loro destino nella memoria nazionale sono proposti in veste agonistica, e spettacolarizzata secondo i modi della nostra cultura mediatica: anche così Ballerini narra e ci fa ragionare su eventi con un nucleo tragico senza slittamenti verso il sublime. E il poemetto cerca di portarci nei pressi di quel nucleo tragico, vicino ai motivi riposti di un sacrificio collettivo imprevisto, fra i quali si annida forse anche una pulsione di morte. Pur nella consapevolezza che nessuna spiegazione riesce ad afferrare davvero il senso insito nella «materialità degli eventi».
Anche Solo andata, righe che vanno troppo spesso a capo di Erri De Luca è una sorta di poemetto civile a più voci. Racconta dei migranti del duemila in cammino nel Mediterraneo, verso una penisola con un nome che promette spazio («Eppure Italia è una parola aperta, piena d’aria» dice uno dei versi più riusciti), ma dove è difficile approdare. De Luca sceglie di sposare il punto di vista dei migranti, reso con un’alternanza di brevi componimenti corali (fatti di distici-istantanee sulle sensazioni di diversi viaggiatori) e testimonianze individuali più lunghe, i due Racconto di uno (ancora in distici-versetto), che seguono traversata e arrivo. Suonano però più persuasive, più esteticamente convincenti e “oneste” le voci in frizione, in attrito, di Ballerini (nonostante qualche punto di opacità indotta dalla strategia dissonante ed ellittica) rispetto alla pluralità concorde, proposta da De Luca. Le voci di solo andata sono modulazioni di un “noi” che sta a indicare l’unità intima del popolo variegato costretto a migrare, ma le loro parole si appoggiano a una scrittura che la costante trasfigurazione lirica delle metafore e la paratassi assorta rende un po’ troppo levigata per suggerire davvero la durezza di questi destini.
E convincono di più anche le molte voci piane che Alberto Bellocchio, in Il libro della famiglia, ampia saga familiare in versi, affida a una stilizzazione sobria, poco atteggiata sul piano stilistico, più marcata invece su quello strutturale, per il disegno generale e per l’allestimento differenziato dei singoli componimenti-capitoli. Alla parola dei personaggi principali della storia novecentesca dei Bellocchio viene concesso risalto autonomo, ma sempre attorno alla voce ferma del narratore che tesse le fila di un organismo testuale ricco e complesso: storia di persone e di caratteri, ma anche di luoghi, di costumi e di valori, nella quale campeggiano le due figure dei genitori Bruno e Dora, sbalzate con particolare nettezza anche per la varietà di prospettive chiamate a descriverle.